William Morris, Massimo D’Azeglio e Herbert G. Wells: antitesi e similitudini secolari che svelano i tempi attuali

Premettiamo che gli aspetti letterari inerenti a William Morris saranno trattati funzionalmente alle ampie riflessioni odierne, per una trattazione più strettamente fantasy rimandiamo al precedente articolo sull’opera dello scrittore inglese.

Nel romanzo The House of the Wolfings (1888), Morris ha costruito per mezzo d’una forte tensione estetizzante la rappresentazione epica dei pagani Goti capeggiati da Thiodolf degli Wolfings. A quest’ultimo è attribuito un valore eroico e identitario, in grado di esprimere sia come leadership di guerra – rimessa al ruolo del Warduke – che come “uomo di casa” – al ruolo tradizionalmente sassone, di guerriero-difensore Huskarl – la conservazione identitaria dei valori, della famiglia e della tradizione. Thiodolf degli Wolfings è un grande comandante dei Goti che nel romanzo sono estetizzati e ammantati d’un tocco leggendario e fantastico, contrapposto alla straordinaria potenza tellurica dei Romani, che è priva – nella raffigurazione del Morris, si intende – dell’attributo eroico individuale, talvolta finanche deforme fisicamente nel singolo individuo – come lo saranno ancor più gli Unni in Roots of the Mountain – e caratterizzata invece dall’individualismo di cinici condottieri politici che guidano la macchina da guerra imperiale contro le eroiche resistenze delle “Houses” del Nethermark e Mid-Mark. Il quadro offre tuttavia più visioni.

Vi è anzitutto la visione “pittorica” poichè, se abbiamo definito Lord Dunsany il “Sognato d’Antico” per Morris è di netta conseguenza il “Dipinto d’Antico” la definizione più appropriata. Tale prospettiva è quella del grande revival epico e romantico-gotico, dove l’eroe non è soltanto l’avventuriero, che si addentra in un luogo “straordinario”e ostile dove affronterà “il drago” per poi infine conquistare il “premio”  (una fanciulla da salvare; un tesoro, un talismano magico o una qualità formativa) e tornare a casa “arricchito”; ma assolve perfettamente anche il ruolo di scudo protettore da un caos unificatore e pangeico, che desidera conformare ogni cosa, sintetizzare tutto ad un solo centro, per portare il mondo infine al ritorno del brodo primordiale del caos, nell’intendere quest’ultima parola – Chaos – non solo come “stato di disordine e tenebra primordiale”, ma anche in una accezione di “Cosmo Spalancato” che renderebbe concordi soggetti diversi come Leopardi, Tolstoj, Lovecraft e Moorcock. Ma a questa visione più ancestrale che è parte del revival epico e gotico-romantico è imparentata una più contingente e pragmatica in quella zona non certo meno sensibile nel pensiero del Morris, che interessa la sua sfera sociale, patriottica e “cristiano-ecologica”, e che rappresenta – potremmo dire in sintesi – la nevrosi del capitalismo e del “reset sociale” della rivoluzione industriale in atto in Inghilterra, in sinergia con il dilagante “darwinismo estremista”, in piena guerra con i diritti del lavoro, l’artigianato e l’arte ma anche e soprattutto con l’identità spirituale e “folk” del popolo.

Sebbene sia riconducibile in Notizie da Nessun Luogo (Morris, 1890) la vera antitesi volontaria e definita a Loocking Backwards 2000-1887 (Bellamy, 1888), The House of the Wolfings pubblicato lo stesso anno del romanzo del Bellamy è già da par suo efficace nel rappresentare il proto-socialismo antimoderno, patriottico e folk che prende gravemente le distanze dall’iper-statalismo internazionalista, urbanista e scientista del romanzo di Bellamy, che maggiormente – bisogna dire – piacque ai marxisti. In Notizie da Nessun Luogo si trova maggiore traccia di un ecologismo antropocentrico e cristiano e di una visione economica che – basandosi principalmente sulle analisi di Thomas Carlyle – trova la sua dimensione nella valuta locale e nel baratto, contrariamente a quella del Bellamy che invece preconizza le carte di credito e una massa popolare di individui nullatenenti, ma non poveri nè infelici in senso stretto del termine, anche perchè Bellamy non intendeva assumere posizioni critiche nel suo romanzo utopico. Ma di questo si è già parlato nel breve articolo di circa un annetto fa. Possiamo certamente esimerci dal commentare, almeno per ora, sia Un Sogno di John Ball che Il Bosco oltre il Mondo sebbene anch’essi potrebbero aggiungere elementi di interesse in questa formazione di pensieri. Risulta invece utile tenere presente che la grande pietra miliare del Fantasy La Fonte ai confini del Mondo (1892), regala una ulteriore visione a quella dell’eroe come custode e preservatore della tradizione e della memoria contro il “caos pangeico e unificatore”, e questa si rivela ulteriormente non solo ne “les gestes” avventurose, percevaliane e belliche di Ralph di Upmeads, ma anche nella rappresentazione d’un pensiero “multipolare”, la cui estetizzazione e idealizzazione non è centralista verso una sorgente unica, sicchè descritta per mezzo di un mondo inventato nella piena tradizione fantasy e basato altresì su tradizioni identitarie e conservative che nell’opera in questione si esprimono nella raffigurazione di micro-monarchie cavalleresche e utopiche, certamente amiche, ma rigorosamente separate. Non c’è una volontà di queste nazioni di unirsi, ognuna possiede il proprio castello, il proprio tempio o la propria abbazia; ognuna racconta le proprie storie e possiede pertanto una singolare identità. In questo tratto la questione diventa piuttosto sensibile poichè Morris espresse talvolta dei concetti non lontani da una visione non-centralistica e multipolare. Un segno di essi furono le sue posizioni nei riguardi della politica inglese imperialista e centralista, pur non essendo un pacifista in senso stretto del termine. Nel 1876 William Morris prese con forza posizione contro il governo guidato da Benjamin Disraeli e il Partito Conservatore, che decise di appoggiare l’Impero Ottomano in funzione anti-zarista avallando le sue repressioni sui cristiani ortodossi di etnia slavo-balcanica come ad esempio i Bulgari. Un qualcosa che senza dubbio Morris si legò al dito. Ciò che è singolare è che la politica del Partito Conservatore fu condivisa anche dai “rivali” nella sponda del Partito Liberale. Ogni voce critica a riguardo fu bollata come “Fake News“.

[…] l’Inghilterra è vicina alla guerra; e dal profondo del mio stupore chiedo: per conto di chi? Contro chi? E per quale fine? […] se tempo fa fosse emersa una voce del genere, le mie domande, immagino, avrebbero avuto risposta in questo modo:
“La nazione inglese è stata risvegliata al senso della giustizia per una storia di orrori che nessuno aveva mai denunciato; così entrerà in guerra contro il governo turco per conto di alcuni popoli sudditi, che i turchi nella loro decrepitezza, decadenza, insolvenza e terrore hanno torturato nel modo più vile, e conquistato ma mai assimilato, eppure affermando al contempo di voler essere considerati e trattati come un governo civile e cortese.” […]
Se il fine e lo scopo della guerra fosse costringere il governo turco che, a dire il vero si serve di bande di ladri e assassini (ndr: Morris si riferisce alle truppe irregolari dei Bashi-Buzuk) a dare a questi popoli bravi e operosi (ndr: il riferimento sott’inteso è ai bulgari repressi con la violenza e altre popolazioni slavo-balcaniche), una possibilità di esistenza; e costringere il governo turco ad accettare di dare a questi popoli sicurezza per la vita, l’incolumità fisica e la proprietà […] Se questo fosse lo scopo della guerra; tutta l’Europa penserebbe ad un obiettivo giusto e onorevole […] se mi fossi addormentato tre settimane fa e svegliato ieri, mi sarei aspettato una risposta del genere […] e io semplice sentimentale, avrei dovuto rallegrarmi di una simile guerra e ritenerla buona: le persone da aiutare sono degne di essere aiutate, i nemici di ladri e assassini, sono amici nostri e dell’Europa, … ma, ahimè, anche se non ho dormito, mi sono svegliato e trovo la scarpa nel piede sbagliato, perchè i Tory pensano ancora alla loro “realpolitik” e L‘Inghilterra è derisa in tutto il mondo e devo dire con dispiacere: giustamente derisa! […] Disraeli, appena diventato Conte di Beaconsfield, è uno dei principali colpevoli: sappiamo che il nuovo conte ‘coraggioso’, per il quale nulla è difficile è determinato a trascinarci in una guerra vergognosa e ingiusta quanto nessuna parola può dire. Dico che sarebbe impossibile anche per quell’astuto imbroglione fare questo, solo se l’Inghilterra unita fosse seriamente contraria a lui, o se una grande minoranza avesse il coraggio di dire “No” e con lei il disgraziato Parlamento gremito che abbiamo […] Faccio appello perfino al Partito Liberale e chiedo se non valga la pena che facciano qualche sforzo per evitare questa vergogna. Faccio appello ai lavoratori e li prego di fare attenzione perchè se questa vergogna cadesse su di loro, certamente se ne ricorderanno e ne saranno gravati fino all’ultimo schiarirsi del giorno […] nessuna guerra per conto della Turchia; nessuna guerra per conto dei ladri e degli assassini! Mi rivolgo a tutti gli uomini di buon senso […], e invito loro a pensare il significato questa guerra ingiusta! …Io che scrivo sono uno di una vasta classe di uomini – uomini tranquilli, […] ma che ora sono presi dall’amarezza pensando a quanto siano impotenti in una questione pubblica che li tocca così da vicino. Se questa vergogna e disastro; se questa maledizione cadrà su di noi, non potremmo fare di Lord Beaconsfield (ndr: Benjamin Disraeli);  o Lord Derby, il partito Tory o la Camera dei Comuni, i nostri capri espiatori; dovremmo noi stessi, sopportare la maledizione e la vergogna […] credo fermamente che una grande minoranza del popolo inglese, esprimendo la sua sincera volontà, potrebbe bastare per prevenire questa guerra; … (William Morris, in una lettera pubblicata sul Daily News, 1876) [1]

Nella lettera pubblicata sul Daily News, William Morris condannò con durezza quelle sanguinose repressioni nonostante Benjamin Disraeli bollò tutto il dissenso addensatosi in Inghilterra con parole che vi risulteranno familiari: “Fake News e invenzioni su larga scala. A questo va aggiunta una riflessione.

Nel 1875 la Gran Bretagna aveva acquistato 176.000 azioni del Canale di Suez, per assicurarsi – in tutta evidenza – il controllo della rotta marittima tesa verso l’india e attraversante l’Egitto. In questa era, la “proto-geopolitica” unicamente talassocratica dei corsari elisabettiani e la Geopolitica “propriamente detta” di Halford Mackinder trovavano la transizione che porterà alla affermazione della seconda. William Morris influenzò membri ed ex membri della Art and Crafts, gli intellettuali vicini alla Socialist League, appellandosi anche ad una parte – quella da lui ritenuta più ragionevole – del Partito Liberale che era al tempo all’opposizione. Il Partito Liberale effettivamente diede una sua risposta. L’ ex primo ministro Gladstone, apparentemente ormai bollito, colse l’occasione per rilanciarsi all’opposizione e pubblicò in quello stesso 1876 un articolo – inviato sempre al Daily News – che denunciava gli orrori commessi dall’impero ottomano sui bulgari1 replicando e dettagliando i contenuti che Morris aveva già sommariamente espresso sia nelle sue pubblicazioni indipendenti (“L’inghilterra e i Turchi” e “Una guerra Ingiusta“) che nell’accorata lettera al Daily News di cui sopra abbiamo riportato un estratto. E’ corretto specificare che Morris non riponeva nessuna fiducia nei liberali già prima dell’ascesa a primo ministro di William Ewart Gladstone e il suo ingresso nell’attivismo politico fu causato – a ben guardare – proprio dalla sua contrarietà ad una guerra che lui riteneva – e lo era a tutti gli effetti – come un “Replay” della Guerra di Crimea. Sebbene fosse piuttosto giovane al tempo, Morris aveva assorbito il dissenso che i movimenti poetici vittoriani esprimevano verso la Guerra di Crimea durante gli anni ’50 dell’800 e una delle conferme di questo arriva dagli studiosi dell’Università di Oxford, oltre a quelle date dallo stesso Morris che cita espressamente – come detto sopra – l’appoggio inglese all’Impero Ottomano definito come frutto di una “realpolitik” finalizzata agli affari di Suez e ad una replica della Guerra di Crimea.

“il fantasma di Maud e quello del conflitto di Crimea hanno infestato le raccolte di poesie vittoriane dopo la guerra. Prendiamo le poesie di George Meredith o anche In The Defense of Guenevere, and Other Poems (1858) di William Morris. Morris si proponeva di sfidare le tradizionali concezioni della cavalleria mescolando l’attenzione agli emblemi bellici ad un altro tipo di dettaglio più basato sullo splendore sbiadito, sulla frantumazione emotiva e fisica che si fa sentire moltissimo nelle poesie vittoriane post-Crimea. “Concerning Geffray Teste Noir“, ad esempio, inizia con un oratore che ricorda “Il suono della tromba danzante” ma la sua progressione segna un passaggio dalle cariche di battaglia collettive a isolati tentennamenti “Ed io, sfinito dall’odore delle ossa bruciate […]e accaldato dal combattere per la strada […] e stanco di tale vita, caddi, con lunghi gemiti” Questi morti non riposano facilmente col loro sacrificio, in realtà sono rari i momenti di gloria. George Meredith lodò suo nonno Bridgeman come combattente in Crimea, ma alla fine della poesia principale di Modern Love ciò che realmente vedono è un altro fantasma; “Ruotato, pallido, su una sedia e in frantumi, si vide il relitto del loro eroe; Il fantasma di Tom disegnato lento sul verde oscuro del frutteto” Tom era stato ferito gravemente prima… [2] 

Molto umilmente, noi che non siamo certo Oxford, potremmo aggiungere anche l’esordio letterario di William Morris ossia il romanzo di Fantasy fiabesca La Terra Cava (1856), anno stesso della fine della Guerra di Crimea. Nel racconto, il malinconico protagonista vive la sua avventura permeata di riflessioni sulla morte proprio dopo una cruda battaglia tra casati che è molto più basata sulla “Realpolitik” che sull’affermazione gloriosa. Sempre nella citata opera Defense of Guenivere and the Other Poems, nel componimento poetico The Wind, le arcane reminiscenze del cavaliere perdono indiscutibilmente importanza rispetto alla marcia dei fantasmi dei guerrieri morti, che portano inoltre gli scudi dove lo stemma di Olaf Il Santo non si riconosce più.

Provate ad immaginare: Il contesto funereo e livido, perfino talvolta dantesco; gli emblemi irriconoscibili, graffiati, scalfiti e sfigurati; i gagliardetti e gli stemmi araldici rotti; i simboli perduti e gli elmi ammaccati; le lance spuntate e le morti sofferenti di cavalieri dispersi dal gruppo e isolati, impantanati e sovente senza scampo. Potrebbero certamente essere modi per comunicare quella maledizione di una “realpolitik” che condannava i soldati a morti ingenerose per fini discutibili e che l’inghilterra seguiva sia con gli Whig che con i Tories; sia con il Partito Liberale che con il Partito Conservatore, all’avvicendarsi di Lord Derby, Lord Russel, e Lord Palmerston, lungo la linea degli anni ’50 dell’ottocento, come unico stimolo di un progetto imperiale che ormai non riscuoteva fiducia perfino tra molti di quei patrioti appartenenti ai poeti del Gothic Revival, o negli artisti Preraffaliti, nei decadentisti, nei nazionalisti puri e i nazionalisti romantico-cavallereschi, facenti parte dei movimenti poetici vittoriani. Forse – si potrebbe considerare – la questione va fin oltre alla Guerra di Crimea, nel tenere presente che fatti come il Massacro di Cawnpore e i Moti Indiani, avvennero del 1857. In fin dei conti Lord Alfred Tennyson che di certo è tutto fuorchè estraneo a tali movimenti poetici, ha parlato del suddetto massacro negli  Idilli del Re del 1859. In maniera più “frivola” si potrebbe anche osservare che se alcune di queste opere fossero state in prosa suonerebbero decisamente Grimdark e Dark Fantasy.

La Sfiducia nel Partito Liberale da parte di queste aree intellettuali fu tutt’altro che mal riposta. A questo proposito è necessario tenere infatti conto che Lord Palmerston, aveva già prima supervisionato la transizione degli Whig – ossia la sinistra internazionalista e aristocratica dell’estabilishment – nel Partito Liberale, che è naturale erede degli stessi Whig, ma “arricchito” dall’innesto di alcuni Tories che vi portarono una certa attitudine autoritaria. Lord Palmerston, pur ricevendo un giudizio principalmente benevolo dai posteri per molte questioni che hanno giocato a suo favore nel campo del giudizio storico sostenne numerose cause “ambigue”. Fu anzitutto un comprovato interventista e reazionario, fin troppo per appartenere ad un partito come quello Liberale che fu pur sempre prosecutivo della sinistra whiggista. Non si vorrebbe minimizzare su alcune manovre che la storiografia giudica positive e ch’egli portò innegabilmente a compimento, e che certo non negheremo, come la vaccinazione dei bambini contro varie malattie, la riduzione degli orari dei lavoratori minorenni, la riduzione delle ore di isolamento per i prigionieri e carcerati, ma a ben vedere, pur ammettendo – o concedendo – che queste misure furono del tutto genuine e disinteressate, a queste corrispondono azioni di natura opposta.

Fu certamente Lord Palmerston a contrapporsi all’estensione del voto alle classi lavoratrici proposto da Lord Russel. Fu Lord Palmerston a voler mandare le navi militari inglesi – sebbene non fosse più ministro degli affari esteri – nello stretto di Dardanelli, al fianco dell’Impero Ottomano e in chiave anti-russa, nella guerra di Crimea che fu de facto la spinta decisiva verso la sua ascesa a primo ministro. La Guerra di Crimea fu combattuta tra la Russia dello Zar e la coalizione di Inghilterra, Francia, Regno di Sardegna e Impero Ottomano. Quando salì al trono Alessandro II la Russia era senza dubbio intenzionata a formare la pace, tuttavia Lord Palmerston convinse con successo Napoleone III a non firmare la pace anche se la cosa non ebbe guadagni apparenti, dato che la Crimea non passò mai di nuovo in mano ottomana come tutti ben sappiamo. Fu sempre Lord Palmerston, inoltre, ad appoggiare Garibaldi e la guerra contro il Regno delle due Sicilie quando lo Zolfo di Sicilia fu tolto dalle mani inglesi dai Borboni. Allo stesso modo in cui Lord Palmerston e il Partito Liberale si mossero contro i Borboni per far si che l’Inghilterra controllasse l’Italia meridionale, depredasse il napoletano e il meridione tutto; togliesse il fastidio di una flotta temibile come quella borbonica per avere infine una presenza “maggiormente a pronta presa” sull’Africa e Suez, Benjamin Disraeli non mancò certamente di appoggiare i piemontesi e Cavour. Nello specifico italiano, l’azione militare e politica inglese è stata decisiva per creare un’Italia unitaria già pesantemente indebitata, divisa in partenza, da subito pervasa dalla separazione tra Nord e Sud e tutto ciò che consegue alla questione del mezzogiorno. Pur riconoscendo delle incontestabili ambiguità in un personaggio come Massimo d’Azeglio, non si può certamente negare che questi aveva pensato a qualcosa di diverso rispetto all’Italia unitaria che poi si è concretizzata con i piemontesi. Come fervente federalista la sua visione era simile a quella dei “Lander” tedeschi e ad autonomie decentralizzate, regolate tuttavia da dispositivi diversi da quelli riconoscibili in altre tipologie di federalismo come nel Cattaneo o in Gioberti. Di tutti i modelli federalistici quello proposto dallo scrittore di romanzi epici, pittore, patriota e in seguito politico fu certamente il più brillante, ma non mancheremo certo di riconoscere numerose opacità nel carismatico marchese dei Taparelli d’Agnasco.

Arrivati a questo punto tuttavia è bene che perdoniate una sincera impressione utile alla funzione d’intramezzo. Ormai parrebbe che la cultura del popolo italiano sia basata prevalentemente sull’estrapolazione di aforismi tratti da opere di cui viene svolta una approssimativa lettura, o forse taluna non avviene proprio, poichè si è troppo occupati nella pedissequa ricerca stessa di aforismi per informarsi. Basti vedere i social network, il modo in cui vengono citati Orwell, Huxley e altri scrittori per accorgersi di questo fatto. Soltanto conoscere in minima parte la tradizione fantascientifica porterebbe a parlare dei due scrittori in maniera diversa e meno astrusa. Il giudizio sul piemontese Massimo D’Azeglio  di cui – e che sia chiaro – non si negano tratti nebulosi e ambiguità  viene in fin dei conti espresso sulla base di una frase riportata a rimbalzo in forma aforistica:  “unirsi ai napoletani è come andare a letto con un lebbroso“. Tuttavia, la stessa rancorosa attenzione, scrupolosità e severità che si utilizza per rivangare continuamente questo “aforisma” non viene utilizzata, ad esempio, per ammettere che il giudizio che questi riservava a Mazzini e Garibaldi fu tutt’altro che indulgente, definendo il primo come un pericoloso rivoluzionario e stigmatizzando nel secondo – pur ammettendone il coraggio – “una intelligenza pari a quella di una nullità“. E questo, badate bene, non è semplicemente un’aforisma, ma una chiara opinione rispecchiata nei comportamenti politici. Oltre a questo, non viene utilizzata la stessa severità e intransigenza per ammettere che sempre il D’Azeglio, fu contrario alle politiche meridionali di Cavour e ad una unità d’Italia a sola guida piemontese, così come alla conquista di Roma, e che temeva che il tutto rinforzasse le ambizioni di Garibaldi che lui palesemente deprecava. Non viene inoltre mai ammesso che Massimo D’Azeglio aveva una posizione impeccabilmente democratica sull’estensione del Regno d’Italia a Napoli e al meridione, come dimostrano le sue lettere del 1861 al senatore Matteucci per lungo tempo “occultate” e reperibili per molti anni solo presso il quotidiano francese La Patrie, poi meritoriamente divulgate da altri soggetti come il professor Sergio Romano e altri siti internet o giornali. Nel Romanzo Niccolò de’ Lapi, ovvero i Palleschi e i Piagnoni il D’Azeglio preconizza la divisione e l’iniquità d’Italia con sorprendente efficacia predittiva.

” La questione di Napoli — restarvi o non restarvi — mi sembra dipendere soprattutto dai napoletani; a meno che non si voglia, per la comodità delle circostanze, cambiare i principi che abbiamo sin qui proclamato. Ci siamo mossi dichiarando che i governi non approvati dai popoli erano illegittimi; e con questa massima, che io credo e crederò sempre vera, abbiamo mandato parecchi sovrani italiani a farsi benedire. (…) Anche a Napoli abbiamo cambiato il sovrano per instaurare un governo eletto dal suffragio universale; ma occorrono, e pare che non basti, 60 battaglioni per tenere il Regno; ed è noto che briganti e non briganti sarebbero d’accordo per non volere la nostra presenza. E il suffragio universale? Del suffragio non so niente, ma so che da questa parte del Tronto (il fiume che separava gli Stati del Papa dal Regno di Napoli, ndr) non occorrono battaglioni, mentre occorrono invece al di là. Dunque deve essere stato commesso un errore. Dunque bisogna cambiare le azioni o i principi e trovare il mezzo per sapere dai napoletani, una volta per tutte, se ci vogliono o non ci vogliono. (…) Agli italiani che, pur restando italiani, non intendono unirsi a noi, non abbiamo il diritto di rispondere con le archibugiate invece che con gli argomenti” (Massimo D’Azeglio, 1861 da una Lettera al Senatore Matteucci)

Sopra ogni cosa, dev’essere chiaro che sarebbe deprecabile e puerile voler piegare fatti alle proprie opinioni, così come sarebbe altrettanto errato e miope voler legare due contesti storici diversi operando una mistificazione su delle coincidenze o ricorsi casuali. Premesso questo, risulta tuttavia impossibile – almeno alle apparenze, e poi vedremo se sarà così davvero anche alle sostanze – non notare, pur nelle diversità spesso addirittura antitetiche, dei tratti comuni nel profilo e nelle circostanze di William Morris e Massimo D’Azeglio, e riscontrare ciò ovviamente non comporta alcuna dietrologia o astrusa lettura ulteriore. Si potrebbe cautamente dire che entrambi sono stati oppositori alla propria maniera della politica inglese, anche se il D’Azeglio – ammettiamolo pure – trovò anche intese con quest’ultima. La sua potenziale divergenza con gli interessi imperialisti britannici e delle elìte bancarie europee potrebbe tuttavia essersi espressa in forma indiretta dalla condotta moderata e democratica verso i napoletani, o nei suoi contrasti con Cavour e i piemontesi, appoggiati o favoriti sia da Benjamin Disraeli che da Lord Palmerston, nonchè dal sostegno finanziario di Lord Rothschild una volta che Cavour fu definitivamente alle presa del potere.

A questo proposito tuttavia bisogna correttamente sottolineare che nella penisola d’Italia, tristemente nota per alcuni come “La Terra dei Rothschild“, vi era un membro della famiglia Rothschild posizionato accanto a tutti i principali protagonisti – attivi o avversi – del progetto unitario. Il Lombardo-Veneto, che ubbidiva a Francesco Giuseppe d’Austria era finanziato da Salomon Mayer von Rothschild, mentre il fratello James Mayer Rothschild era accordato sul Gran Ducato di Toscana. Perfino il Regno delle Due Sicilie aveva il suo rappresentante – Calmann Mayer von Rothschild – che godeva del favore borbonico. Questo mette in condizione di vedere quasi i Rothschild come allibratori attorno all’arena pre-unitaria dei cani da combattimento italiani per lo scommettitore austriaco, francese e britannico. Paradossalmente, la monarchia sabauda albertina, ancora farraginosa di meccanismi “autarchici” e feudali, almeno sino agli anni 40′ dell’800, non aveva un “suo rappresentante” dei Rothschild che certamente non guardavano con interesse una monarchia da loro ritenuta “arretrata e medievale”. Con la disfatta di Novara – dopo la quale Massimo D’Azeglio salì a primo ministro – il progetto di espansione e conquista sul Lombardo-Veneto a danno degli austriaci cessò, il danaro da restituire all’Austria era troppo e i costi della guerra schiaccianti, si creò quindi la feritoia dove era possibile infilarsi per attuare la strategia principale: il debito.

Giovanni Nigra fu politico e banchiere – già esperto per aver servito lo Stato Pontificio – senatore, sindaco di Torino e Ministro delle Finanze tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50 dell’800. Fu lui a contrarre i primi debiti superiori a 20 milioni di lire con i Rothschild; impegno oneroso che Cavour poi ereditò prima come Ministro dell’Agricoltura e del Commercio (1850-1852) poi come Presidente del Consiglio (1852-1859). Il Cavour – stretto nella morsa di scadenze incombenti – accettò nuovo ulteriore debito da James Mayer de Rotschild, allo scopo di coprire il vecchio debito maturato anche dagli interessi passivi. Bisogna tuttavia correttamente ammettere – piaccia o no il personaggio – che Cavour fu incontestabilmente penalizzato dal tempo, e non mancò di compiere strenui sforzi per trovare scappatoie del tutto condivisibili, come cercare di attirare altri investitori in concorrenza con Rothschild, stimolare la concorrenza tra banche e costruire opere pubbliche, strade e linee ferroviarie affinchè il debito fosse produttivo. Tuttavia i nodi vennero al pettine comunque, il debito dei Savoia levitò e certamente gli investimenti ingenti di Cavour furono parte in causa, ma non certo in misura minore incisero le speculazioni dei Rothschild. Il default per il Regno di Sardegna era piuttosto vicino e l’unico modo per coprirlo era l’urgente ritorno di una guerra d’indipendenza contro gli austriaci che potesse far si che i Rothschild, che nel frattempo finanziavano anche la stessa Austria, fossero disposti a concedere nuovo debito da utilizzare per la guerra per unificare tutti gli stati della penisola. D’altro canto l’interesse di “Rothschild & Co.”  è fin troppo chiaro da comprendere. Conseguire l’unità d’Italia per mezzo del Regno di Sardegna così bulimico e insaziabile di debito, scatenato a depredare il resto delle italiche tesorerie, e altresì costretto alla guerra per evitare il default, significava generare una nazione unitaria su tutta la penisola italica composta da un esorbitante nuovo debito complessivo formalizzato a unificazione avvenuta, sicchè un nuovo stato sotto l’assoluto controllo dei Rothschild. Ben poco importava se erano gli stessi Rothschild a finanziare il nemico austriaco. Dal canto suo, anche l’Inghilterra aveva interessi convergenti con i Rothschild per una unità d’Italia così insana e fondata sul debito. L’Inghilterra non poteva certo sviluppare la sua politica sul mediterraneo e sui progetti per il Canale di Suez con uno stato ostile come quello Duo-siciliano, munito di una flotta temibile, con un bilancio finanziario virtuoso e nient’affatto nemico della Russia. I porti del meridione erano parte del progetto stabilito dagli inglesi di cui Suez era priorità centrale e a questo bisogna aggiungere che gli stessi britannici utilizzarono due ulteriori chiavistelli per scardinare la serratura borbonica, uno di questi era la Sicilia. Gli interessi Inglesi in Sicilia, a ben guardare, si radicarono sin dalla dalla fine del ‘700 allorchè Napoleone occupava malta e svolgeva la Campagna d’Egitto minacciando il mediterraneo. Imprenditori come John Woodhouse, Benjamin Ingham e Joseph Whitaker erano desiderosi di controllare materie prime siciliane come lo zolfo, il marsala, sostanze per la produzione di saponi e vetri e il sommacco; e per l’impero britannico costoro erano soggetti da difendere. Una seconda arma usata dagli inglesi fu quella della propaganda ferocemente anti-borbonica per la quale non vennero soltanto usate notizie – molte delle quali del tutto inventate – diffuse dal governo inglese, ma anche quelle degli ex detenuti napoletani. D’un tratto la condizione “disumana” dei detenuti fu una priorità del governo britannico al punto che Luigi Settembrini , ad esempio, fu liberato grazie ad una spedizione militare ordinata da Lord Palmerston in violazione della sovranità delle Due Sicilie. Furono tempo dopo lo stesso Settembrini e perfino soggetti come Lord Malmesbury o William E. Gladstone a smentire tutto, ammettendo che il carcere borbonico addirittura garantiva condizioni di salute e comodità difficilmente trovabili in altre carceri, di sicuro non in quelle piemontesi. L’operazione di propaganda inglese anticipa di molti anni in maniera “diabolicamente” brillante le strategie asimmetriche “colorate” di Roger Mucchielli e Gene Sharp. Stabilito quindi tutto il piano di guerra piemontese si trattava solo di corrompere funzionari, militari, politici e intellettuali dei vari stati della penisola, divorare tutti gli stati sotto l’appetito del debito e soprattutto: scegliere accuratamente gli Eroi dell’Unità per l’immaginario collettivo, come Garibaldi e Mazzini.

 
“La pace ora significherebbe per il Piemonte la bancarotta”. (Pier Carlo Boggio, Deputato del Regno di Sardegna) [3]
“La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia, generosa e forte – o improvvida, avventata e temeraria, secondoché ora avremo guerra o pace. […] Il Piemonte accrebbe di ben cinquecento milioni il suo debito pubblico: il Piemonte falsó le basi normali del suo bilancio passivo; il Piemonte spostò la propria azione dal suo centro primitivo; il Piemonte impresse a sé medesimo un impulso estraneo alla sua orbita naturale; il Piemonte arrischio a più riprese le sue istituzioni; il Piemonte sacrificò le vite di numerosi suoi figli, sempre in vista della gloriosa meta che si è proposto: il Riscatto d’Italia.”  ( Pier Carlo Boggio da La Chiesa e Lo Stato in Piemonte dal 1000 al 1854)

Nel libro La Gnosi del Potere (Fede e Cultura, 2014) Angela Pellicciari, storica ed esperta del Risorgimento, chiarisce che Boggio, uomo politico di prim’ordine, liberale, massone, illustre intellettuale, nonchè autore di un’opera tutt’ora importante (La Chiesa e lo Stato in Piemonte dal 1000 al 1854) è un tipo di soggetto a cui si può dare credito. Nel 1859 Boggio è preoccupato,  forse perchè la guerra contro l’Austria è in vista, potrebbe pensare qualcuno. Tutt’altro, la preoccupazione derivava – al contrario – dal fatto che la guerra rischiava di non scoppiare. Ma se la guerra non fosse scoppiata appare chiaro che per il Piemonte sarebbe stata la fine, la bancarotta; la rinuncia della conquista degli Stati italiani; il frantumarsi del mito del Risorgimento e la rovina del regno di Sardegna.

il riscatto di cui parla Boggio, è certamente stato un “riscatto per il Piemonte, altrettanto non si può dire dell’Italia meridionale. Le finanze borboniche al momento della conquista godevano di splendida salute. L’Archivio economico dell’ unificazione italiana, pubblicato nel 1956, documenta come nel quinquennio 1854-58, a un disavanzo complessivo previsto in 18.192.000 ducati, corrispondesse un disavanzo di soli 5961.000 ducati. […] Come i disavanzi, “anche gli introiti presunti erano generalmente inferiori a quelli effettivamente realizzati. Ciò accadeva perché i bilanci preventivi venivano compilati con grande circospezione”. Il confronto col Regno delle Due Sicilie è perdente anche sull’insieme della politica fiscale: mentre a Napoli non si pagano tasse di successione, in Piemonte queste arrivano al 10% nel caso di estranei, al 5% nel caso di fratelli, all’1% in quello dei figli. Mentre a Napoli non si pagano tasse sugli atti delle società per azioni e su quelli degli istituti di credito, in Piemonte si. A Napoli, ricorda don Margotti (l’inventore del motto: né eletti né elettori che si trasformerà nel non expedit di Pio IX), “il debito pubblico è minimo, e le cartelle appartengono quasi esclusivamente ai Regnicoli. L’imposta fondiaria a Napoli è dolcissima”, la Sicilia è “esente dalla leva militare, che è un’imposta di sangue, dall’imposta sul sale, e dal monopolio del tabacco”. Potremmo continuare. Forse, invece di piangere sulla supposta celebrazione in sordina dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia, faremmo bene a ricordare come davvero sono andate le cose. [4]

Tornando alle analogie e differenze tra i due intellettuali entrambi sono stati patrioti, così come scrittori di romanzi epici; i quali furono estetizzanti, antimoderni e romantico-gotici per William Morris, sino ad un risvolto concreto in ciò che oggi chiamiamo letteratura Fantasy Eroica; al contempo Storico-Epici, trionfalmente patriottici e Romantici per D’Azeglio, che proprio come Morris era anche pittore e amante dell’immagine. In Morris è precocemente presente inoltre una visione “multipolare” del mondo che forse non è dissimile secondo principi profondi ed essenziali a ciò che rivelava lo Zar Alessandro II quando fu intervistato da Wharton Baker. Lo Zar di Russia sottolineò in questa intervista che il suo aiuto per mezzo della marina militare fornito agli Stati Uniti e Lincoln – di cui parleremo anche dopo – fu condotto per salvaguardare un “mondo multipolare“. Come si è accennato prima, il grande romanzo Fantasy del 1896 The Well at the World’s End si conclude con una visione del mondo diviso in micro-monarchie distinte e identitarie, ognuna con i suoi luoghi sacri, ancorchè separate al tempo stesso amiche e affratellate, ma ognuna di queste conserva le sue capillari tradizioni, ciò non è in fin dei conti troppo dissimile – seppur nella differenza di fondo di uno stato unitario – neanche da un unione pensata in autonomie decentralizzate come quella federalistica di Massimo D’Azeglio. Nel caso di Morris la radicazione atavica potrebbe certamente essere ricondotta ad un patriottismo che includeva nella sua retorica semantica e polisemica anche ai “reucci eptarchici” sassoni di Mercia, Northumbria, Anglia, Essex, Wessex, Sussex, Kent e del ricorso ad un ricordo estetizzato ed edulcorato dell’inghilterra precedente all’invasione di Guglielmo il conquistatore e dei fatti di Hastings nel 1066. Seppur essendovi anche in D’Azeglio quella che in termini spregiativi e voltairiani si potrebbe chiamare “Infatuazione del medioevo” il ricorso sarà ovviamente diverso, sia nei temi che nei modi. Di simile potrebbe esservi che in Ettore Fieramosca ovvero la Disfida di Barletta vi si trovi un medioevo “periodizzato a tempo indeterminato” e prolungato “fiabescamente” oltre il ‘500. Il federalismo inizialmente basato da un pensiero cattolico e liberale da lui sostenuto andrà alla ricerca di una narrazione romantica dell’età comunale medievale e quindi dalla divisione in comuni, e di restituire naturalmente alla retorica risorgimentale I congiurati di Pontida e la Lega Lombarda allo status di eroi patriottici per una percezione definitiva del pensiero collettivo. Una delle cose infatti in cui i due scrittori non si somigliano affatto è certamente l’attribuzione semantica dell’elemento germanico. Ma questo, in fin dei conti, appare piuttosto ovvio. Lo scrittore inglese, nei romanzi degli anni ’80 dell’800 – The House of the Wolfings, Roots on the Mountain – e in parte anche nel romanzo Fantasy ambientato in un mondo inventato dal titolo The Sundering Flood, ha ovviamente fatto uso di un elemento germanico estetizzato e nobilitato, anche se di gran lunga meno pervasivo – se valutato in senso totale – di quello che vedremo in Tolkien e ne Il Signore degli Anelli negli ’50 del ‘900. Nel piemontese invece – ed è fin troppo scontato dirlo – vi è stata l’esigenza di ricorrere ad una retorica anti-tedesca. Posto che il germanismo dei Goti pagani, immersi in un mondo forestale pseudostorico e fantastico sia del tutto diverso da quello federichesco a cui si riferiva D’Azeglio nel suo romanzo mai portato a termine (La Battaglia di Legnano), bisogna dire che tale antitesi è del tutto irrilevante tenendo conto dei due differenti contesti, anche perchè – sempre nel caso di D’Azeglio – quest’ultima fu finalizzata ad innalzare il papa come simbolo di opposizione alla tirannide imperiale tedesca di Federico II di Svevia, non senza le proprie ragioni ovviamente.

Adriano IV in realtà non fu propriamente il pontefice illuminato e lo scudo benedetto contro la tirannia del Barbarossa che si intendeva dipingere nella retorica del patriota piemontese all’interno della costruzione incompleta del romanzo di Legnano. Occorre tenere a mente che Adriano, unico papa britannico della storia, negoziò l’incoronazione del Barbarossa per il Sacro Romano Impero scambiandola con l’arresto del di lui oppositore sacerdote anti-papista Arnaldo da Brescia; accettò più tardi inoltre di incoronare il normanno Guglielmo II di Sicilia solo da esule, come contropartita del suo ritorno a Roma dopo le rivolte del popolo. Si dice perfino che macchinò alle spalle degli Irlandesi, cercando di ricavare interessi personali in cambio dell’autorizzazione da dare a Enrico IV per invadere l’Isola Smeraldina. Ma di questo non vi sono effettivamente prove concrete. La benevola e altisonante “Configurazione di miti patriottici” verso la chiesa cambiò quando Pio IX ritirò il suo sostegno alla causa indipendentista dell’Italia. Potrebbe essere utile dire a riguardo che è bastato il tempo di attraversare la decorrenza del 1849 – tempo utile alla caduta al governo De Launay, si intende –  e vedere che, una volta salito al rango di primo ministro al Regno di Sardegna il D’Azeglio approvò subito le Leggi Siccardi a sfavore della chiesa. Pur considerando che queste operazioni potevano dividersi equamente tra cause condivisibili e non, si può certamente affermare che non erano certo più quelli i tempi in cui era utile per Massimo D’Azeglio – pur mai rinnegante della sua fede cattolica – incoraggiare una retorica storiografica che vedeva la contrapposizione tra Tirannia Imperialista tedesca, scismatica, “barbarica” e straniera contro un fronte papale illuminato, latino, e benevolo. D’altro canto – come accennato sopra – il federalismo pensato dal D’Azeglio non era basato su una “mistificazione neo-guelfa” e il romanzo sulla Lega Lombarda e la Battaglia di Legnano – raffigurato anche in quadro – fu non a caso abbandonato pur arrivando ormai ad una fase avanzata della sua ricostruzione. Tutto lascia pensare – per farvela breve – che l’abbandono non fu certo dovuto ad un calo d’ispirazione, ma piuttosto ad un cambio della propaganda da utilizzare in merito alla chiesa e allo Stato Pontificio.

La Battaglia di Legnano (Massimo D’Azeglio, 1831)

Chiarite queste ragioni occorre onestamente ammettere che le diversità tra i due – William Morris e Massimo D’Azeglio, si intende – non cessano certo di esserci anche su altri fronti ed in questo senso è interessante notare un approccio divergente e antitetico dell’impronta religiosa. Nel Morris non vi è mai stato uno zelo verbale o cosmetico della fede, eppure ogni gesto della sua vita esprime un vibrante sentore cristiano. Al contrario, il D’Azeglio che a tutto aggiungeva finanche un fratello gesuita, ha sempre puntualizzato la sua fede cattolica a parole, ma le sue azioni quasi sempre furono anticlericali da un certo momento in poi. 

Massimo D’Azeglio, non mancò di attaccare la chiesa quando fu possibile farlo pur non avendo mai rinnegato la sua fede cattolica che, tuttavia, ha sempre vissuto in coesistenza con un animo imprescindibilmente liberale. Pur ammettendo che talvolta le denunce alla chiesa furono basate su condivisibili presupposti, si riesce con gran fatica a non ritenerle almeno in parte strumentali. Per motivi che ora sarebbe fin troppo ambizioso trattare, è plausibile credere che il potere massonico internazionalista abbia agito in italia – e non solo – sempre in funzione soprattutto anti-cattolica, quando per mezzo dell’attacco perpetrato per screditarla o quando attraverso l’infiltrazione e lo spionaggio atto a orientarla a proprio favore, con conseguenze ovvie sul popolo genuinamente cattolico. In questo senso Giuseppe Montanelli, interessante patriota italiano, “neoguelfo” e anch’esso federalista, fu spietato nel definire Massimo D’Azeglio un “Cristiano all’Ingrosso” e un “Farfallone“. [5]

Nella narrazione autobiografica de I Miei Ricordi (1867), effettivamente, si mostra un animo che non era emerso nel D’Azeglio dei grandi romanzi epici di Ettore Fieramosca, o Niccolò De’ Lapi, o in quello trionfante e romantico dei suoi splendidi quadri. Tra vagheggiamenti romantici coinvolgenti e vigorosi , e testi scritti lapidari e sfolgoranti, emergono anche delle fasi dove il D’Azeglio stesso narra che gli fu proposto di assumere un ruolo intermedio tra la massoneria e Carlo Alberto di Savoia che fu carbonaro, protagonista dei moti del ’21 e infine traditore dei suoi compari. Questo particolare ruolo che il poliedrico artista  accettò di assumere è innegabilmente in contraddizione con la sua contrarietà – a quanto pare solo teorica – a cospirare segretamente, in quanto la cospirazione – diceva lui – “è da farsi solo alla luce del sole“. Ma in effetti per vedere un D’Azeglio diverso non bisognerà aspettare il 1867 e la pubblicazione de “I miei ricordi“, ma basterà guardare sin dal 1846, cinque anni dopo i suoi romanzi epico-storici, con l’uscita di Degli Ultimi Casi di Romagna dove il piemontese, parlando con una certa pomposità di leader e statista opera una “biospia” sullo stato pontificio organizzata su una retorica tesa alla sensibilizzazione del popolo riguardo ai mali commessi dalla chiesa. A prescindere dal fatto che si possa o non si possa condividere uno, tutti o alcuni argomenti usati contro lo Stato Pontificio, la cosa appare sotto una luce diversa – ammetterete – allorchè considerata dopo aver accettato i compiti di mediatore tra Carlo Alberto e la Massoneria, come viene ammesso in fin dei conti dallo stesso D’Azeglio ne “I miei ricordi”.

La nota ulteriore e più dolente che potrebbe spazzare via tutta la nostra riflessione arriva nel momento in cui si riconosce il fatto che il D’Azeglio, cercò effettivamente consenso dai leader inglesi nel 1850, ricevendo elogi altisonanti sia da Benjamin Disraeli e da Lord Palmerston alla Camera dei Lords, e appoggiando la Guerra di Crimea. Ciò certamente rappresenta una delle massime divergenze con l’ipotetica somiglianza con William Morris che oggi ci siamo “divertiti” a trovare, considerando che lo stesso Morris si spese strenuemente – come detto sopra – per condannare il “replay” di quella stessa guerra e dell’appoggio degli inglesi all’Impero Ottomano, usando toni asprissimi contro le elìte britanniche sia prominenti che segrete, mentre il D’Azeglio non rifiutò di certo quelle italiane, essendo comprovatamente massone. A tal proposito occorre dire infatti che le appartenenze esclusive, massoniche o i cenacoli elitari – sia che fossero nella semplice esclusività, sia della più misteriosa segretezza – furono qualcosa di assolutamente estraneo a William Morris.

Prima di iniziare a scrivere i suoi romanzi, durante gli anni della piena attività poetica, Morris decise che i marxisti britannici della Federazione Social Democratica – fondata da Henry Hyndman nel 1881 – non erano cosa per lui, ritenendoli come “poco sinceri e men che meno rivoluzionari“. Badate bene, dire qualcosa del genere su Henry Hyndman, la colonna più iconica del marxismo in Inghilterra non è stato un affare da poco, ma d’altro canto, bollare come “poco sinceri e poco rivoluzionari” i marxisti è ben poca cosa rispetto a dire “Astuto Imbroglione” ad un Primo Ministro di sua maestà come Lord Beaconsfield, o a insultare gravemente sul Daily News tutti i politici e parlamentari d’Inghilterra:…

Amici e concittadini,
C’è un pericolo di guerra; datevi da fare per affrontarlo ed evitarlo. Se oggi andrete a dormire pensando di non poter capire di queste cose, oppure ritenendo che quel pericolo sia lontano, potreste svegliarvi e trovare il male caduto ormai già sopra di voi, perché credetemi, il male è alle porte e potremmo perdere tutto. E cosa compreremo a questo prezzo così alto? Sarà gloria, ricchezza e pace per coloro che verranno dopo di noi? Ahimè! No; poiché questi sono i guadagni di una guerra giusta ; ma se intraprendiamo la guerra ingiusta che gli stolti e i codardi del nostro governo ci chiedono di condurre oggi, la nostra perdita di lavoro comprerà la perdita della speranza, la nostra perdita di amici e parenti renderà nemici padre e figlio. Questa è una guerra ingiusta! non lasciatevi ingannare, il governo dichiara di volere la guerra con la Russia per punirla per le cattive azioni compiute, o per impedirle in seguito, ma non è così, la guerra ingiusta avviene per reprimere la giusta insurrezione contro i ladri e gli assassini turchi;
E chi sono loro che ci stanno portando in guerra? Guardiamo questi salvatori dell’onore dell’Inghilterra, questi campioni che vogliono essere flagelli delle iniquità della Russia! Li conosci?…Imbroglioni, avidi giocatori di borsa, oziosi ufficiali dell’esercito e della marina (poveretti!), civettoni glamour, stremati giullari dei club, disperati fornitori di eccitanti notizie di guerra per i comodi tavoli della colazione di chi non ha niente da perdere con la guerra ; e infine, al posto d’onore, il Tory Rump, che noi sciocchi, stanchi della pace, della ragione e della giustizia, abbiamo eletto all’ultima elezione per rappresentarci; e soprattutto il loro capitano, il vecchio cercatore di luoghi, che, dopo essere finalmente salito sulla sedia di un conte (ndr: Morris si rivolge di nuovo a Benjamin Disraeli, da poco nominato Conte di Beaconsfield), sorride di là al volto ansioso dell’Inghilterra, mentre il suo cuore vuoto e la sua testa sfuggente circondano il colpo che porterà la nostra distruzione forse, probabile, e io ancora spero di no, ma la nostra confusione certamente si…

La frattura tra la Federazione Social Democratica e i socialisti patriottici ovviamente comportò un ruolo scissionista del Morris con la conseguente nascita della Socialist League e naturalmente, gli antimoderni diffidenti della rivoluzione industriale; dediti al medievalismo e al Gothic Revival; nonchè appartenenti alla Art and Crafts seguirono in gran parte Morris. E questo certo non ci sorprende affatto. Ma più curioso è il fatto che questo evento stimolò la Fabian Society – che evidentemente osservava alla finestra – a passare all’azione e prendere contatto con la fazione di Morris. Hubert Bland, fondatore dei Fabiani e marito della brava scrittrice gotica Edith Nesbit si avvicinò a William Morris per incamerare nel suo circolo sia la League che la Art and Crafts. La stessa Edith sostenne che “Hubert si avvicinò a lui nel momento in cui il suo gruppo stava creando un po’ di clamore“. [6]

Pur non volendo discutere la sincera ammirazione dei due coniugi per Morris è piuttosto apodittico sostenere che quest’ultimi, almeno quando visti nel loro specifico ruolo nel fabianesimo – e in fin dei conti non diversamente da Hyndman e dai marxisti della Federazione Social Democratica – volessero soltanto servirsi degli antimoderni della Art and Crafts e della League per il loro fervore retorico; per il vigore attivistico e per la presenza di intellettuali – in tutta evidenza – piuttosto capaci, onesti e credibili come lo era lo stesso Morris. Edith Nesbit ammirava probabilmente Morris con maggiore sincerità rispetto al marito capo dei Fabiani. La scrittrice descrisse il Morris come un uomo “dai semplici e bellissimi ideali di un’inghilterra medievale e fiabesca…” nonchè “una risposta alla sordità della società e alla sfacciata bruttezza“. Sincera o meno, tuttavia, l’incontro tra la Fabian Society e William Morris non andò affatto bene. Contrariamente a moltissimi scrittori e intellettuali inglesi, come George Bernard Shaw o Virginia Woolf, ma su tutti Herbert G. Wells, l’autore di The House of the Wolfings, non fu affatto affascinato dai fabiani, tutt’altro sentenziò in una lettera confidenziale spedita al sindacalista del Partito Laburista del ramo di Leeds – John L. Mahon – un ben poco lusinghiero giudizio

Il dibattito al Fabian è stato un affare ridicolo […] Hubert Bland è uno snob offensivo e pieno di glamour” [7]

Ma il punto è che la questione va ben oltre il sentenziare verso i modi ritenuti sgradevoli di Bland e dei fabiani in generale, o al dire di aver voglia di dare “un cazzotto in testa” a George Bernard Shaw. E’ maggiormente significativo considerare che William Morris vedeva nei fabiani che tentarono di corteggiarlo, oltre che degli sgradevoli signori “glam e snob”, una “irreparabile antitesi teoretica” rispetto al suo punto di vista della vita, giungendo addirittura al punto di augurarsi – principalmente a causa di un “fastidioso e arrogante ateismo” – che Aveling andasse via dalla Socialist League e si buttasse nel mucchio dei marxisti britannici della Federazione Social Democratica, e di considerare altresì il summenzionato George Bernard Shaw come “sotto il controllo” di Annie Beasant, una intellettuale e oratrice socialista, che fu ammirata e al tempo stesso disprezzata dall’occultista Aleister Crowley, sostenitrice femminista, teosofa, esoterista, dedita allo spiritismo e particolarmente amica del politico del Partito Laburista Charles Bradlaugh, ossia un parlamentare ateo e iconoclasta, e già fondatore della National Secular League. Un soggetto come Annie Beasant che affascinò molto Crowley – salvo essere ritenuta in seguito da quest’ultimo una “usurpatrice” – avrebbe senza dubbio quantomeno intrigato Lord Dunsany, Mitchell, Lovecraft e Moorcock, e  forse – in una maniera simile a ciò che esercitava per lui Madame Blavatsky – anche Robert E. Howard. Eppure Morris sembra sdirazzare totalmente non solo con i colleghi a lui contemporanei o contingenti in inghilterra, ma anche con molti degli stessi “colleghi” della narrativa fantastica in propensione futura e ampia. Nel suo tono appare un disprezzo assoluto per la teosofa e occultista socialista londinese, e altrettanto per i suoi compari G.B. Shaw e il parlamentare Bradlaugh, e perfino Aveling, conoscente di vecchia data, è desiderato fuori dalla League e dalla Art and Crafts con il sarcastico augurio che “scateni un inferno nel mucchio di Hyndman“. Se dovessimo pensare a chi potrebbe avere una reazione simile tra i colleghi di Morris, senza dubbio verrebbe in mente Tolkien.

Naturalmente, sono molti i motivi – alcuni totalmente ovvi, altri semplicemente plausibili – per ipotizzare il perchè di questa incompatibilità di William Morris con i Fabiani e di certo non bisogna sforzarsi molto per trovarne più di uno, ma tra i più sensibili vi è sicuramente quello della riflessione religiosa. Precedentemente si è detto che Massimo D’Azeglio ha sempre esposto con zelo la sua fede cattolica che riusciva – alla detta di lui –  a coesistere con il suo pensiero liberale. Eppure, dopo l’abbandono del romanzo sulla Battaglia di Legnano egli ha esercitato con altisonante precisione da statista il suo anticlericalismo accompagnato al ruolo di intermediario tra Carlo Alberto di Savoia e la Massoneria. Per William Morris, al contrario, non c’è mai stato uno zelo o una cosmetica religiosa evidente, se non in piccoli segni, ma le sue azioni, i suoi pensieri e la sua letteratura sembrano pervasi in maniera delicata ma vibrante di cristianesimo. Nonostante ne sia ovviamente influenzato, e ci si guarda bene dal sostenere il contrario, l’ ecologismo che si insinua in ogni romanzo di Morris perviene alla percezione finale di un pensiero essenzialmente diverso dall’ecologismo di John Ruskin che è rovinista e naturocentrico, imparentato per la concezione anti-positivista, ma divergente dal dominio naturale, dalla marginalizzazione e caducità umana che aleggia negli scritti di Ruskin ripresi dai decadentisti e da chi ha condiviso le loro suggestioni a posteriori, e tra questi vi è una lunga lista di nomi; da Ambrose Bierce a Montague R. James, da Lord Dunsany a Algernon Blackwood, da Howard P. Lovecraft a Clark Ahston Smith. Il pensiero del Morris è invece più affine ad un ecologismo antropocentrico e ottimista, che pone l’uomo nel ruolo di guardiano e custode definitivo di una natura fiera, possente – ovviamente non del tutto priva di insidie – ma anche generosa e accogliente, includendo sempre l’uomo e finendo per somigliare molto di più alle forme idilliache che si trovano nelle opere poetiche di Lord Alfred Tennyson, e che si troveranno dopo nei romanzi fantasy di J.R.R. Tolkien. Non è un caso che nei romanzi di Tolkien l’idillio venga contrastato nella corruzione naturale che i tiranni – tra le altre cose – infliggono al mondo. Basti vedere la distruzione naturale che compie l’erosiva attività maligna di Mordor, non dissimile dalla corrotta Terra di Onsought nel romanzo Water of the Wondrous Isles dello stesso Morris. Perfino i momenti più pagani della linea letteraria in prosa di Morris, come in The House of The Wolfings, Roots of the Mountain o The Sundering Flood parrebbero al fine restituire una suggestione complessivamente cristiana. Nei due romanzi degli Wolfings è certamente ben raffigurato un “mormorante” sottobosco magico e pagano incarnato nella bellissima “Vala di Odino” (detta anche Wood-Sun) e nella più umana e stregonesca Hall-Sun; in presenze di vario tipo, talvolta sottoforma di impalpabili suggestioni come i racconti sui Nani, sul Drago Lingworm o gli spiriti del bosco, ma tutto il sottobosco fiabesco e le espressioni pagane sembrano nutrire più un identitarismo folk e un tessuto culturale silvano in legame con il mondo domestico del focolare piuttosto che riprodurre grandi disegni ancestrali o cosmici, o la supposizione di una tremolante e conflittuale gerarchia cosmica di paradigmi insondabili come avviene invece per Lord Dunsany, o per Lovecraft dopo di lui. Anche in The Sundering Flood, romanzo sotto molti aspetti straordinario, parrebbe esservi un sentore pagano e un ritorno forte al germanismo nella letteratura di Morris. In questa storia si trova la particolarità di una natura effettivamente più tiranna, dalla bellezza primitiva e meno accogliente, e una presenza misteriosa di Lupi Neri, Ombre sinistre e degli Spiriti della Montagna che non appaiono angelici e armoniosi come gli Gnomi e i Folletti delle fiabe più incantevoli o come gli austeri Elfi di Tolkien, bensì creature animate da un riflesso “gothic” e “alieno” che influenzerà senza meno Lord Dunsany. Oltretutto , tali creature sono contraddistinte da una “spettinata” follia che potremmo ritrovare in Alice nel Paese delle Meraviglie o nelle storie più “dark” nei libri di Neal Gaiman o nei film di Tim Burton; in aggiunta ad un plumbeo stato crepuscolare di creature che recedono in ritiro nei loro rarefatti luoghi magici a causa dell’espansione umana. Tuttavia, nonostante questo contesto così penetrato da una malinconia crepuscolare che ricorda i momenti pagani di Paul Anderson nel Giorno del Tritone, Osberne Wulfgrimsson troverà una croce a rassicurarlo prima di accedere nel “dungeon” nella montagna, e nonostante un’atmosfera germanica e pagana si unirà al cavaliere paladinesco Sir Godrick di Longshaw per salvare la natia terra di Wethermel e la sua amata Efhild dalla dittatura di duchi, baroni e plutocrati che si servono di genti corrotte come i Black Skinners. Anche qui, come d’altronde nei romanzi degli Wolfings si giunge ad un trionfalismo dall’impulso ottimista, revanscista e glorioso, che restituisce una suggestione ben diversa dai segmenti guerreschi di Lord Dunsany o di Michael Moorcock, permeati di diverse emozioni e tutt’altre caratteristiche. Posto che anche quest’ultimi utilizzino lo strumento pagano, tale uso è in funzione di un pensiero più scettico che politeista, contrariamente a Morris che invece ne fa uso per trasmettere una identità “folk”. Anche il concetto del tutto pagano della Fell-Folk – sia inteso come guerrieri caduti in guerra, sia come parenti o persone care morte – che ricorre in Morris, ha certamente un suo riflesso nel Valhalla e nelle valchirie, ma talvolta si esprime in condizioni del tutto cristiane, tramite invocazioni protettive, sacramentali e santificanti. Le suggestioni che i due sopracitati Lord Dunsany e Moorcock ricreano nelle loro storie sono pertanto del tutto diverse. Non si hanno dei protagonisti in attesa del ritorno ad un armonioso passato ottenibile solo affrontando valorosamente un nemico superiore, ma bensì civiltà decadenti come quella di Merimna ne La Spada di Welleran, che hanno ingannato e ucciso per secoli le tribù “ultra-montane” e che giungono al nodo sul pettine quando la loro decadenza è al culmine. Merimna e Rold , in The Sword of Welleran, alla fine vinceranno ma, di certo la vittoria sarà tutto fuorchè trionfale e non c’era alcun bisogno di rivincita e orgoglio identitario, che al contrario è mostrato come una ridondante autoreferenzialità.

A prescindere tuttavia da queste digressioni addentrate nella narrativa fantastica, nel prender per buone queste riflessioni, il precoce rifiuto della fede anglicana di Morris sembrerebbe più un atto di “cristianesimo personalista” che una rivendicazione o affermazione anticlericale da artista. Ritornando sicchè al trittico che oggi abbiamo privilegiato, si può ricapitolare che abbiamo a che fare con un elusivo e latente cristiano come Morris; un “Cristiano all’ingrosso” – nel prendere ancora a prestito le parole di Giuseppe Montanelli – come Massimo D’Azeglio, e infine di un ateo borioso senza replica come Herbert G. Wells. Il riflesso religioso non è affatto scollegato dal modo di intessere l’attività sociale e politica di ciascuno dei tre soggetti, poichè quest’ultimo è decisivo nel secondo fattore menzionato, ovvero l’essere respingente a qualsiasi interazione segreta o elitaria incarnata nella frequentazione di club, massonerie e cenacoli, non esclusi quelli esoterici e occultistici trattati essenzialmente con disprezzo da Morris, che era incline solo a gruppi puramente aggregativi, letterari e artistici. Prova di ciò è che egli – come detto – fu tra i rarissimi a non voler passare per i forum della Fabian Society che invece fu fondamentale per Wells, che divenne preminente membro dei fabiani, oltre alla sua appartenenza alla associazione chiamata X-Club fondata dal “bull-dog darwinistaSir Thomas Huxley (nonno di Aldous), nonchè raccordo di regia di una infinità di Pensatoi, Think Tanks e consorterie varie come l’Anglo-American Estabilishment, La Round Table Movement, e molti altri. E infine ancora D’Azeglio che pur mostrandosi ammirevole nelle sue posizioni  democratiche verso l’Italia meridionale e i napoletani, ha poi svolto il suo ruolo massonico – pur da cristiano – in una funzionalità anticlericale che non era certo esacerbata come nello zelante ateismo pettoruto e ostentato di Wells, ma con analoghi effetti favorevoli per l’imperialismo britannico e quei maestri “occulti” che lo hanno cavalcato nell’ombra di un mondo che stava cambiando verso rinnovate forme d’imperialismo camuffato sotto il manto progressista e ateo-liberalista. Pare che alla fine – pur nell’intento di voler trovare similitudini – si sono ricostruite maggiormente le differenze tra i due intellettuali. Tuttavia William Morris e Massimo D’Azeglio condividono una “fine sociale” simile scaturita per motivi diversi; entrambi hanno visto disgregarsi la propria area di influenza per ritrovarsi come figure assolutamente isolate, incomprese e in minoranza.

Per delineare il declino del D’Azeglio occorre tracciare il passaggio dalla sua nomina a Presidente del Consiglio, che lo trascinò per momenti assai impervi che avrebbero – e questo non si può negare – messo alla prova tutti i migliori statisti, e D’Azeglio era tutto fuorchè un incapace. Come Presidente del Consiglio nel “Governo D’Azeglio I” dovette prendere il comando nel delicato momento postumo alla Disfatta di Novara nella Guerra di Indipendenza con gli austriaci e i successivi Proclama di Moncalieri. Come il D’Azeglio stesso spiegò nelle lettere a Luisa Blondel, [8] non vi fu modo di rifiutare la chiamata di Vittorio Emanuele II. Furono anni dove il Taparelli D’Agnasco attraversò probabilmente momenti di sincero e ammirevole patriottismo, ma anche frangenti ove “il diavolo” reclamava il salato costo di patti passati, aggravato per giunta anche dalla perseverazione futura di vezzi ed errori che proverbialmente erano più – in effetti – al “diabolicum” che nello stato de “l’Humanum”. Nonostante infatti D’Azeglio si dimostrò leale con Cavour spendendo il suo nome per sostituire l’uscente ministro Santarosa al dipartimento dell’Agricoltura, lo stesso Camillo Benso di Cavour, tempo dopo, lo “pugnalò alle spalle” sostenendo alla camera Urbano Rattazzi, che era acerrimo rivale dello stesso D’Azeglio. Ne seguirono le dimissioni e una nuova chiamata – anche stavolta a malincuore accettata  – di Vittorio Emanuele II per riconfermargli la fiducia e ridargli la carica. Il nuovo incarico fu subito segnato da uno stigma che oggi è ricordato anche con la paradigmatica frase epistolare di Cavour:

Per il momento bisogna subirlo, ma, superata la crisi, d’Azeglio dovrà ritirarsi e allora s’imporrà la scelta

In questi frangenti, dove il D’Azeglio era sempre più soffocato dalla vita politica e malandato – poichè egli fu nondimeno irriducibile uomo d’azione – per le ferite di guerra, ricordava i momenti della sua felicitazione in matrimonio con la prima moglie, Giulia Manzoni, periodo dove scrisse i suoi romanzi storico-epici. E pare in effetti quasi di avvertirlo quel sospiro di nostalgia, con cui egli rimembrava i piacevoli e melensi pomeriggi nei giardini e nei salotti, e così le lunghe e confidenziali conversazioni, e non meno le languide passeggiate, pitturate, poesie e carteggi in piacevoli compagnie come quella di Teresa Targioni Tozzetti e altre affascinanti donne. Il breve secondo periodo in carica come Presidente del Consiglio (Maggio – Novembre 1852) fu all’insegna di una nuova crisi di governo e di nuove spaccature con la chiesa con l’approvazione delle leggi del Matrimonio Civile che il Re dichiarò di non voler firmare. Per rivendicare l’indipendenza e l’autonomia di manovra del parlamento a seguito del diniego del Re, D’Azeglio si dimise di nuovo accorgendosi d’essere ormai lontano e isolato dalle correnti dominanti meglio cavalcate dal più “dinamico” Cavour. Durante le fasi finali del suo declino vi fu spazio per degli ultimi momenti decisivi alla fine degli anni ’50 e l’inizio negli anni ’60 dell’ottocento. Fu nominato Commissario straordinario delle Romagne (1859) e Governatore di Milano (1860), e in tal guisa mise da parte i vecchi contrasti con Cavour per appoggiare gli interventi militari inglesi in Crimea nel 1859.  Si concesse al contempo altri momenti di agitazione culturale patriottica e anti-austriaca per poi infine – solitario e incompreso, ormai visto da molti come relitto del passato – lavorare a I miei ricordi – pubblicato nel 1867 – uscito postumo ad un anno dalla sua morte.

Anche Morris subì un progressivo scollamento dalle correnti maggiori, e sempre più la Socialist League, privata del suo insostituibile carisma, vedeva gli eccentrici anarco-socialisti avanzare e prendere progressivamente sempre più potere all’interno d’essa. Molti membri uscirono dall’attività culturale per intraprendere quella parlamentare e lasciando via via Morris sempre più solo. Paradigmatico è il fatto che egli decise di non appoggiare il Partito Laburista Indipendente a Bradford nel 1893, che invece fu sostenuto da Engels e Edward Aveling (amante di Eleonor Marx), ma questa – non crediate – è solo la punta visibile di molti problemi. Gli ultimi anni di Morris furono effettivamente basati sui romanzi Fantasy, ambientati nei mondi inventati, utopici e fantastico-medievali. Terry Liddle, nel suo discorso pubblicato anche dalla rivista del Workers Liberty e pronunciato nel 2003 al London Anarchist Forum, disse una cosa piuttosto interessante

 
Molto è stato scritto su Morris, molti lo hanno rivendicato come proprio: Conservatori, Marxisti, Cattolici, la chiesa ne avrebbe fatto un santo e  Andrew Collins disse addirittura che è stato uno scrittore di narrativa occulta in senso “druidico” del termine:…[ndr: pausa con risata] Collins pensava che fosse un druido!
In verità Morris non appartiene affatto né ai marxisti, né agli anarchici né ai verdi. Volete sapere a chi davvero appartiene?
A quegli uomini – di qualunque idea o fede; artigiani, fabbri, intellettuali professionisti di qualsiasi tipo, non importa  – che credevano che si dovesse lavorare per vivere e non vivere per lavorare; che credevano al sogno di non vivere in una vita fatta dall’antitesi di tempo libero come paradiso e turno di lavoro come inferno; che credevano al fatto di lavorare meno e meglio…(Terry Liddle, 2003)

Si può certamente non condividere molte delle cause sostenute da Workers Liberty, spesso abile a saltare sul carro del più sfrenato progressismo post-moderno, ma francamente – non c’è che dire – quello di Terry Liddle è un gran discorso!… sembra davvero essere lui uno dei pochi ad aver compreso una parte fondamentale di Morris, dimostrandolo in poche parole. In fondo, il citato Andrew Collins non ha detto qualcosa di così risibile, senonchè si potrebbe noi riconoscere nello scrittore – passi pure anche come “Druido” –  un genere di druidismo certamente cristiano, non adatto al “verbo” del sacerdote, ma piuttosto al gesto del fedele, e ad un vigoroso e muscolare portamento intellettuale e questa è una ulteriore prova che mostra con occhi diversi il suo rifiuto verso la carriera religiosa che i suoi genitori – vedendolo come vescovo – avevano mal riposto per lui nella fede anglicana ch’egli da subito, senza tempi di maturazione né contrizioni interne, ha rifiutato con precoce forza e senza alcuna esitazione. Si è quindi capito al fine che la condotta di Morris è stata incontestabilmente più genuina e limpida di quella di D’Azeglio, ma sarebbe tuttavia miope da parte nostra non riconoscere – quantomeno il pericolo – di cadere nelle ombre dell’incoerenza da parte del poliedrico scrittore del Waltham Forest.

Se di “scorrettezza” non si può parlare su di una persona così umana e genuina, sempre scomoda, sincera e naturalmente anticonformista come Morris, potremmo certamente dire che non fu del tutto giusto entrare nello smisurato e meccanico mondo comunista per pretendere di cambiarne ogni singola regola, anche se questo ha generato di fatto un inedito tipo di socialismo antimoderno divergente perfino dal socialismo utopico francese e anglosassone. E non si può ritenere del tutto giusto – ad esser obiettivi – annidare nel socialismo stesso un groviglio di sublimi e pittoriche illusioni antimoderne, romantiche, patriottiche e cavalleresche, sempre a rischio di passare da sogni per il mondo a menzogne per lusingare sé stessi, e senza rendersi conto che in un sistema meccanico come quello marxista è prevedibile il fallimento annunciato sicchè la più luttuosa condanna alla solitudine propria e all’isolamento. Viene forse spontaneo vedere in Tolkien – che rimane probabilmente il più elettivamente vicino a Morris – un’armonia interiore più consapevole e meglio realizzata nel consacrarsi alla “coerenza”, tenendo tuttavia in conto che l’impegno sociale di Morris, la sua lotta a personaggi potenti e gli scontri senza paura con pezzi da novanta della storia non è certo paragonabile alla più “normale” – anche se per niente banale – vita di Tolkien. Tuttavia è naturale interrogarsi – come lo si è fatto per D’Azeglio, e lo si potrebbe certamente fare per Wells – sulla coerenza, nel renderci conto che è un interrogativo che va ben oltre William Morris o qualsiasi altro intellettuale. 

Quante volte ci siamo davvero chiesti, nel senso più assoluto e sconfinato, cosa sia realmente la coerenza, e nel farlo risponderci che essa non è in realtà altro che un giudice invisibile, un arbitro fantasma che dirige una partita – quella della vita – che è del tutto truccata. Un arbitro del genere, così spettrale, ha creato in effetti un regolamento assai impalpabile, basato su “giuste menzogne” o “verità irrilevanti” da raccontare a noi stessi, e in questo non vi è in realtà alcun male e nessun biasimo per il disgraziato genere umano, poichè tali “giuste menzogne” che nella coerenza noi dobbiamo rendere convincenti esistono soltanto per un motivo; ovvero quello che nessuno di noi è al posto giusto nel mondo, e sia questo anche solo per il fatto che nessuno di noi, almeno nella vita materiale è eterno, e ognuno di noi, presto o tardi, avrà il suo appuntamento con la nera signora.

Ma nel portare il discorso a dimensioni meno “cosmiche” e più materiali, il problema risiede in tutte le persone, comuni o straordinarie, che sentiranno la contraddizione pervasiva nella propria esistenza in un mondo che per mezzo della sua storiografia ha raccontato, ad esempio, che il benessere di alcuni corrisponde alla colpa di aver comportato la sofferenza di altri, senza dire che però il vantaggio reale è stato di pochi che non sono mai nominati né incolpati; o che l’interesse di pochi è il vantaggio di tutti; o ancora, che è una scelta ciò che in realtà è stata un’imposizione che ha condizionato il percorso della civiltà. Sono molti i motivi del fatto che la coerenza è l’arbitro di una partita con regole truccate, ma non è in realtà un semplice gioco nell’animo umano, e se di partita si tratta, questa è nient’affatto una gara amichevole. Nonostante ciò che abbiamo detto su Morris poco sopra, di certo egli aveva saputo capire quanto “truccata fosse la partita” esprimendo parole di straordinaria attualità nella stessa lettera al Daily News di cui abbiamo riportato una parte, e a quella segue un’altra:

[…] Cari lavoratori d’Inghilterra, […] Dubito che voi conosciate l’odio contro la libertà che è nel cuore di una certa parte delle classi più ricche di questo paese; i loro giornali lo velano in una specie di linguaggio decoroso, ma se li sentiste parlare tra loro, come ho fatto io, non so se prevarrebbe in voi il disprezzo o l’ira per la loro follia e insolenza. Questi uomini non possono parlare delle vostre ragioni, dei vostri scopi, dei capi delle vostre associazioni, senza un ghigno o un insulto. Questi uomini, se avessero il potere (che l’Inghilterra muoia piuttosto!) vanificherebbero le vostre giuste aspirazioni, vi zittirebbero, vi consegnerebbero per sempre legato mani e piedi al capitale irresponsabile e alla plutocrazia. E questi uomini, lo dico deliberatamente, sono il cuore e l’anima del partito che ci sta guidando verso una GUERRA INGIUSTA. Possono danneggiarci ma ancora poco per ora; grazie all’orgoglio inglese, ma se dovesse arrivare questa ingiusta guerra, con tutta la sua confusione e rabbia, chi dirà quale può essere il loro potere? quale passo indietro potremmo fare? quali rinunce, quali sventure. Concittadini, guardate bene, e se avete qualche torto da riparare, se desiderate diminuire quelle disuguaglianze che sono state il nostro ostacolo dall’inizio del mondo, allora mettete da parte la pigrizia e gridate contro una GUERRA INGIUSTA affinché tutti noi possiamo protestare solennemente e con perseveranza contro l’essere trascinati in una guerra nella quale, se saremo vittoriosi, vinceremo vergogna, perdita e rimprovero, e se siamo sopraffatti, cosa succederà allora? 

Chi dirà quale potrebbe essere il loro potere una volta che il popolo viene colpevolizzato e indotto a discutere sul piano cognitivo della propria “incoerenza”; all’accettare chi è un “nemico” per la sicurezza solo perchè un governo ha interesse a muovergli guerra; all’aver accettato di aver vissuto “al di sopra delle proprie aspettative”; all’essere richiamato alle proprie responsabilità per questioni che vengono presentate con “grandi cause”, come la protezione della libertà e della democrazia, a questo punto le domande del Morris si fanno assai attuali: “quale sarà a quel punto il loro potere? quale prezzo pagheremo? quali rinunce, quali sventure? quale passo indietro dovremmo fare?” Quelle di William Morris sono domande terribilmente serie nei tempi odierni e il fatto che la gente – neanche la più istruita – se ne accorga è piuttosto allarmante.

Se William Morris e Massimo D’Azeglio hanno avuto un “diverso ma simile” declino, per Herbert G. Wells, di declino non si potrebbe mai trattare, essendo stata la sua una ascesa continua e a senso unico. Questa, oltre all’ateismo sussiegoso è un’altra sensibile differenza di Herbert G. Wells dagli altri due, ma due cose, sono certamente comuni a tutti e tre gli straordinari intellettuali e scrittori. Ognuno di loro si è mosso in un nebuloso eppure decisivo interstizio della storia mondiale, e ognuno di loro è stato protagonista – ciascuno a proprio modo – nella letteratura. Sembrerebbe sorprendente e strano che tre personaggi letterari e la loro opera – con annessa la loro attività sociale, intellettuale e politica – siano stati così importanti, soprattutto oggi, in un’epoca dove la letteratura – diciamolo chiaramente – conta meno di niente, ridotta ad una flebo del cinema e della televisione, e ciò non sarebbe nulla, il peggio è che questa viene sempre sottoposta a giudizio morale corrispondente ad un approccio tanto acritico e mercantilistico dei suoi saggisti (soprattutto quelli anglosassoni) quanto pavido e disimpegnato dai lettori, e infine sempre minimizzata ad essere una metafora ornamentale per qualche miserabile discorso inutile di qualche politico, giornalista, pseudo-artista, psicologo, scienziato, divulgatore culturale o contro-culturale, e che infine – tanto per completare in bruttezza – non viene addirittura neanche mai letta, sebbene sezionata per il ricavo di puerili aforismi con cui imbellettare la propria insipienza morale e culturale. Eppure, basta quasi “randomicamente” o pigramente pescare la prima opera secondo la storia conosciuta, ovvero La Saga di Gilgamesh (2500 a.c.) per trovare qualcosa di tremendamente attuale e addirittura inerente ad una centrale parte delle riflessioni di oggi.

Nella storia dell’Eroe di Uruk, oltre ad essere narrata la sua saga, le gesta e le avventure contro mostri come Humbaba o il Magico Toro della Siccità, è raccontata la  transizione sociale dei popoli guidata attraverso le incombenze superiori imposte “dall’alto”. Gilgamesh è una tipologia di eroe che potrebbe allinearsi – almeno in parte – ad una parallela figurologica tracciata su una stirpe di eroi messianici di natura semidivina; come Ercole, Thor , Gesù Cristo , Cu Chulainn  e potremmo aggiungerne altri meno conosciuti come Rostam. Come loro Gilgamesh dovrà affrontare prove, ma anche un “reset sociale” inflitto dagli dei con il distruttivo diluvio compiuto su un umanità corrotta, chiassosa e sovrappopolata. L’eroe sumero viola la natura edulcorando mediante sotterfugio la passione genuina e silvestre di Enkidu, comportandone un indebolimento della sua magia che tuttavia rimarrà presente, per poi tuttavia riscattarsi diventando con lui intimamente amico. Il re di Uruk ha sicchè il “merito” , nella fattispecie – rispetto a tutti gli altri – di rappresentare due tratti basici dell’essere umano: il rapporto di disequilibrio con la natura e l’escapismo dalla paura della morte rappresentata nella sua saga al massimo della suggestione tanatoica. Agire sotto l’impulso della paura della morte rende Gilgamesh più vicino agli uomini rispetto ad altri eroi semidivini, sebbene sia la sua natura semidivina – si potrebbe dire – a comportare la conclusione edificante, quasi di natura “ascetica” alla sua epopea piuttosto sventurata e costellata di sconfitte, mende e complicazioni. Ma è proprio Gilgamesh a suggerire un’ulteriore caratteristica che rende “comunicanti” D’Azeglio, Morris e Wells, ovvero che i tre, oltre a vivere nel sopracitato interstizio della storia, nascosto ma decisivo, hanno vissuto un momento di transizione e di “reset sociale”:

L’Uscita dal dominio austriaco e l’arrivo ad una Unità d’Italia incontestabilmente forzata e sofisticata dall’Inghilterra e dagli speculatori bancari per D’Azeglio;

La Rivoluzione Industriale, la secolarizzazione di valori spirituali e la meccanizzazione corrispondente alla fine della mentalità vittoriana per William Morris.

Infine, direttamente collegata alla precedente di Morris, l’ ascesa dello scientismo e del burocratismo più assoluto in ogni campo con la rivoluzione industriale, accompagnati per netta conseguenza dalla secolarizzazione della spiritualità in Inghilterra e proceduralmente anche nel mondo, nonchè il passaggio dalla matchpolitik e dalla Power Politic imperialista al “neo-imperialismo finanziario” e il Soft Power , basato invece sulla nascente materia della geopolitica e sul moralismo-libertario e progressista per quanto riguarda Wells.

Come Gilgamesh – pur essendo un eroe semidivino – si rende più simile a tutti noi umani per la sua condotta erronea e il perenne stimolo della morte e della sconfitta, D’Azeglio, Morris e Wells si rendono altrettanto simili a noi e a Gilgamesh stesso per aver condotto – nel bene e nel male – scelte importanti in un periodo di ripristino, mutamento e transizione. Perchè questo di oggi, è in tutta evidenza un periodo di transizione e i segni che fanno esplicitamente capire ciò non sono pochi. Qui si conclude questa parte, e si accede alla seconda parte di questa riflessione.

Ai tre protagonisti si aggiunge il quarto: I Tempi Attuali, attraverso la linea di H.G. Wells

L’ affermazione definitiva di Herbert G. Wells come scrittore corrisponde in maniera singolare alla morte del suo mentore, maestro e “suggeritore” Sir Thomas Huxley, scomparso nel 1895, noto come il “Darwin’s Bull Dog” e nonno dei due fratelli Julian e Aldous Huxley. In effetti lo scrittore di Bromley non ha mai tralasciato – tra le altre cose – la pervasiva lettura darwinista, neanche in quello che forse è il suo primo lavoro in assoluto, il racconto breve A Talk with Gryllotalpa (1887) uscito singolarmente e suo esordio ufficiale. La consacrazione cionondimeno è nell’anno della morte del summenzionato fondatore del dining club chiamato X Club, il 1895, allorquando il nome di Wells usciva sulle copertine di tre opere – una antologia di racconti e due romanzi – ed una di queste è importante per ciò che Wells rappresenterà, dato che sarà focalizzato su quel “settore” che Jules Verne non ha osato esplorare realmente: il tempo.

La Macchina del Tempo (1895) è un romanzo scaturito da modifiche e perfezionamenti di un racconto uscito in volume singolo nel 1888, (un anno dopo l’esordio A Talk with Gryllotalpa) dal titolo Gli Argonauti del Tempo che è rimasto tuttavia separato a causa delle diversità finali dopo la revisione delle pur somiglianti due opere in questione. Ne La Macchina del Tempo viene proposto qualcosa di leggermente diverso rispetto a tutto che seguirà dopo a L’Uomo Invisibile ( ovvero da La Guerra dei Mondi in poi), nonostante vi si trovino già temi fondamentali del Wells “maturo”, ovvero le sue letture sociali critiche, l’anticlericalismo e l’impulso a dare rappresentanza al darwinismo, unito all’umanità e la sua degenerazione involutiva, il pessimismo per la civiltà con la sua condanna in via definitiva. Tuttavia il racconto ha una forte impronta avventurosa, tanto che lo scrittore Israel Zangwill lo criticherà – soprattutto nella caratterizzazione del protagonista – come racconto non riuscito poichè “troppo epico e mitologico per essere un buon racconto di scienza e fantascienza”. Wells tenterà – tra le altre cose – di dare anche un seguito planetario-spaziale alla letteratura di Giulio Verne e della fantascienza in generale, ma è “l’elemento tempo” che riveste un’importanza maggiore nella riflessione inerente al completamento delle esplorazioni letterarie verniane. Lo sarà nel primo Wells, nel rappresentare materialmente i viaggi nel tempo, e lo sarà nel successivo, quando invece lo strumento del tempo risponderà al suo “programma predittivo”. Ciò porterà ad una narrativa – sempre accompagnata da una intensa saggistica – più prettamente diretta al genere distopico con lettura sociologica piuttosto che al “romanzo scientifico” con speculazione fantascientifica. Tuttavia, La Macchina del Tempo è un’opera con elementi che rivestono un notevole interesse.

Il primo e principale viaggio temporale del romanzo conduce il protagonista in un futuro dal lontanissimo avanzamento (molto oltre all’anno 800.000), dove il mondo percosso da lunghi cicli di cambiamenti e cataclismi è diviso in Eloi e Morlock. I primi sono – per l’ appunto – “eloitici”, nell’intendere il termine in questo caso come eterei, belli e paradisiaci, tuttavia chiusi in un mondo fasullo e talvolta frivolo, composto di autoreferenziale manierismo e cortesia da galateo, oltre che di un agiato benessere apparente, in realtà vulnerabile e decadente, altresì minacciato costantemente dai forti, agili e mostruosi Morlocks, che al contrario degli Eloj sono deformi e vulnerabili alla luce solare. Alla configurazione mitologica degli Elohim e del demoniaco Moloch su cui si basano le due fazioni contrapposte, corrisponde quella che al tempo stesso nutre dei richiami sia alle rivoluzioni passate contro l’Ancien Règime sia alla più contingente lotta sociale inglese, senza trascurare tuttavia che nella specie dei Morlocks vi è come un singolare sentore di blasfemia. Gli Eloi incarnano quello che gli uomini come “Nonno Huxley” e Wells vedevano nell’ormai contratta elìte vittoriana tradizionalista, composta dal ricordo impolverato di una stirpe genealogica retrivamente altisonante, di bellezze eteree e di una antiquata autoreferenzialità,  che non era più capace di esercitare alcun controllo, ed infatti subisce lo slancio prepotente dei giganti notturni che per contro sono deformi e famelici, insofferenti alla luce solare come una classe operaia e un popolo in generale che le “contro-elìte” progressiste di Wells ritenevano nient’affatto innocenti, ma anzi “cannibali” e voraci allo stesso modo dei comitati della Prima Repubblica Francese del terrore e di Maximilien de Robespierre, eppure nei Morlocks viene introdotto anche l’elemento della religione, rappresentato nelle abitudini litaniche e ritualistiche dei mostri del sottosuolo, che in fin dei conti sono associati ad una terribile divinità – il Moloch, si intende – del “vicino oriente”, avida di un perenne fuoco ierofantiaco e di sacrifici di bambini. Si ha come l’impressione che Wells abbia voluto includere in queste due “specie” tutto ciò che egli riteneva come il male della sua epoca; l’elite vittoriana tradizionalista ormai indebolita dopo il disastro della Prima Guerra Boera sotto il Governo Gladstone; e non meno una classe operaia e un proletariato mai del tutto riscattati, e rimasti deformi anche all’emancipazione, sempre pronti a deresponsabilizzarsi e dare agli altri le colpe oltre ad esser “barbari e cannibali”; e infine la chiesa, o forse la religione in senso assoluto che è quasi radice – secondo la visione del Wells, si suppone – di entrambi i due menzionati mali. A questo scheletro fondamentale si aggiungono gli accenti delle differenze biologiche che forniscono a Wells l’opportunità – se non addirittura l’esigenza di soddisfare il “bisogno” – di trasmettere la sua agenda darwinista, oltre che interessanti contenuti di scienza, pseudoscienza e speculazione scientifica sul tempo; nozioni provenienti dagli studi e i calcoli sul sole; studi astronomici; la geometria e la fisica, ed infine perfino la Quarta Dimensione, già affrontata anche da Charles Howard Hinton che oltre ad ispirare Wells in questo contesto ha lavorato al concetto di “Terra Piatta” e non solo per la fiction letteraria.

Dopo la sofferta, avvincente e tragica avventura il protagonista riesce a spostarsi dal futuro degli Eloi e Morlock, allontanandosi ancor più in avanti nel tempo e accedendo ad una dimensione senza umanità, con un mondo popolato solo da Farfalle e Granchi, e andando dopo ancor più avanti accederà ad una terra ormai antica e morente in un futuro assai lontano, dal freddo respiro di un sole ormai spento, già sconvolta lungamente da cataclismi e rivoltamenti terracquei e pertanto in assenza di vita, senonchè si vedrà d’improvviso una creatura dalla forma ellittica, senza fisionomia, nera e con lunghi tentacoli. Un finale piuttosto lovecraftiano potremmo informalmente dirci tra noi, oltre a vari richiami che faranno tornare in mente il singolare La Terra dell’Eterna Notte (1912) di William Hope Hodgson, che sembra aver tratto qualche spunto dall’opera di Wells

Il terzetto del 1895 (escludendo il romanzo “impropriamente fantasy” La Visita Meravigliosa) si completa con l’antologia di racconti intitolata Il Bacillo Rubato e altri casi (1895) che raccoglie tutte quelle storie create nel lasso di tempo intercorso tra il 1887/1888  – biennio degli esordi di A Talk with Gryllotalpa e Gli Argonauti del Tempo –  e il 1895. Nei suoi primissimi racconti Wells riesce ad includere un campionario sia puramente scientifico sia più estensivamente fantascientifico dallo spettro d’ampiezza notevolmente soddisfacente. Dai batteri del racconto principale (Il Bacillo Rubato), e quindi il terrorismo e la guerra batteriologica , alle piante carnivore-vampiro; dalla chimica alla paleontologia; dallo scienziato pazzo di ispirazione popolare alla botanica; dalla più realistica e “abbottonata” zoologia ad un terribile mostro alato che potrebbe comparire confortevolmente anche in un qualsiasi romanzo fantasy. A questo corrisponde perfettamente anche un’ampiezza stilistica non indifferente. Nonostante siano i primissimi racconti è notevole anche il modo in cui lo scrittore emerge già con maturità di pensiero sia nelle “tipicità wellsiane” che nelle inclinazioni secondarie: Evoluzionismo darwinista; racconto utopistico; narrativa d’anticipazione; commedia e avventura esilarante; influenze dickensiane, verniane, haggardiane o anche da Hawthorne e Poe; critica sociale tinta di surrealismo-evasionista sino addirittura all’avventura pura e realistica, non fantascientifica ma del tutto generalista, come la Tentazione di Harryngay dallo stile diviso tra il verne non fantascientifico, Stevenson e Dumas. Tutto questo non sembra affatto il lavoro di un esordiente, per quanto i formati siano molto brevi. Sarebbe ovviamente facile ricondurre il valore di questa antologia “quasi d’esordio” al fatto che siano semplicemente racconti molto piacevoli, ma non siamo in sede di recensione, esiste un altro motivo da riportarvi più utile ai temi di oggi, ed è quello che consiste nel fatto che in questi racconti si scorge ancora un Wells dal “cuore che batte”, appassionato e parzialmente indipendente, che desidera parlare dell’Inghilterra e del mondo con una lente personale e identitaria. Sebbene sia già presente l’embrione del suo “programma” questi è ancora in coesistenza con uno spirito più liberamente “verniano-haggardiano” e avventuroso, con una forte voglia di speculare su tutta la scienza, indagare su quella realistica dal profilo più basso e anche ipotizzare su quella più fantastica e ipotetica, per legarla ad una identità letteraria carismatica, ancora forte e più critico-allegorica che prettamente sociologica, come sarà invece in seguito, dove le analisi di Wells si ridurranno in maniera sostanziale al solo “Zeitgeist” socio-distopico. Nonostante siano presenti già le componenti darwiniste, boriosamente atee e anticlericali; così come la denuncia mistificata del “pericolo autocratico” e un disprezzo verso il popolo – inspiegabilmente ignorato dalla critica – piuttosto palese esiste, nel primo Wells, anche una onesta auto-analisi. In fin dei conti  il vicario del villaggio – pur mostrando le sue lacune – è decisamente il più buono verso l’angelo in La Visita Meravigliosa. Non si può negare che anche nei romanzi successivi basati sul topos dello “Scienziato Pazzo” ci siano momenti genuini. Ne L’Isola del Dottor Moreau (1896) lo spirito ecologista appare piuttosto sincero rispetto all’ecologismo progressista del Wells successivo, così anche la denuncia ad una scienza irresponsabile e pericolosa come ne L’Uomo Invisibile (1897) anche se in quest’ultimo, la critica che parte dal cinismo scientista si direziona verso una stigmatizzazione dell’iniziativa personale “autocratica”. Tuttavia, che passi pure; dato che The Invisible Man appare un romanzo innegabilmente meno demagogico nel suo linguaggio rispetto, ad esempio all’opera di molto successiva,  L’Autocrazia del Signor Parham (1930), racconto satirico, fantascientifico e fantapolitico dove un politico e imprenditore compie un colpo di stato.

Bisogna tenere conto che la demagogia ha sempre una larga parte di argomenti condivisibili, altrimenti – ammetterete – diventerebbe soltanto “sincera malafede”. Questo per dire che ciò che si potrebbe presentare come una critica ad una plutocrazia crudele involve verso un attacco all’uomo ricco e imprenditore semplicemente in quanto tale, o in quanto “leader solitario”, che fa impresa con i suoi mezzi personali, indipendenti dalla finanza poichè rappresenta egli stesso con le sue riviste, le sue banche e i suoi istituti una concorrenza alle banche della City of London, per trarre infine guadagno talvolta anche in maniera prepotente e illegale, e tale illegalità del “leader autocrate” viene rappresentata da Wells – e quelli simili a lui – come un inossidabile assioma. Vogliate capir bene che questo, a prescindere dal proprio pensiero, dalle simpatie, o dall’idiosincrasia verso “prepotenti uomini soli al comando” rende gli scritti del “Wells maturo” fortemente demagogici e meno auto-analitici del primo Wells, sebbene alcuni argomenti siano in apparenza condivisibili. E’ necessario che il diavolo sembri ragionevole nello spiegarci  il perchè, secondo lui,  l’inferno possa essere più divertente del paradiso, altrimenti non sarebbe un buon diavolo, ma solo un povero diavolo. Il prurito satirico si estende anche ad una dimensione storica divenendo critica al ricordo di soggetti come Guglielmo I, gli Zar di Russia o altri simili. La critica feroce rivolta a “l’uomo solo al comando” oltre ad essere piuttosto attuale, non è in realtà una affermazione democratica, bensì demagogia elitaristica e questo rende gli argomenti del Wells successivo a La Guerra dei Mondi non del tutto affidabili. Giunti a questo punto il discorso diventa assai delicato.

In generale ci è utile premettere che Herbert G. Wells più che un grande innovatore come Giulio Verne, Walter Scott, Edgar Allan Poe, William Morris o più tardi Edgar Rice Burroughs e Robert E. Howard è stato un grande “raccordista consolidatore” di componenti già singolarmente inventate da altri scrittori prima di lui. Nei singoli elementi Wells è stato – a ben guardare – anticipato ampiamente, basti vedere come perfino il fiore all’occhiello wellsiano – il tempo, sia visto nel viaggio dimensionale sia come lettura al predittivo – fu già espresso letterariamente con Edward Page Mitchell. Premesso questo, si può dire che lo straordinario capolavoro – e lo è, senz’ombra di dubbio – La Guerra dei Mondi (1896) abbia molteplici dimensioni espressive, in quanto quest’ultimo può essere valutato in prima istanza come capolavoro antesignano di Fantascienza, che non solo afferma l’innovazione della guerra interplanetaria, ma che assume il ruolo di proseguire e concludere il lavoro di Verne che non è mai arrivato a “risposte definitive” su altri pianeti, essendosi fermato al tragitto verso la luna.  Una seconda espressione de La Guerra dei Mondi è quella di iniziare così il suo lavoro “programmaticamente predittivo” riguardo alle distopie sociali, nel raffigurare un esempio di circostanza dove il popolo si conforma ad un’unica etnia sotto la schiacciante emergenza, verso la quale bisogna operare rinunce sociali affinchè si ritorni alla serenità. Fermandoci per ora qui, se visto con il primo criterio, occorre riconoscere che effettivamente, Albert Robida, anche se in maniera meno elaborata da un punto di vista dell’ipotesi aliena e tecnologica, aveva già scritto romanzi di guerra interplanetaria tra Terra e Marte. Le Vingtième Siècle (1884), La Guerre au vingtième siècle (1887) sono precedenti non solo a La Guerra dei Mondi, ma addirittura alla carriera stessa di Wells, e l’ultimo atto Le Vingtième Siècle. La vie électrique (1890) è uscito poco prima de I Primi Uomini sulla Luna (1901). Quest’ultimo è un romanzo che – effettivamente – fornisce la prosecuzione ambientativa “extraplanetaria” di Verne ma, non arriva ad appiedare su Marte come Edgar Rice Burroughs, bensì solo sulla luna, e questo perchè certamente Wells, che oltre a scrittore era anche scienziato, era di gran lunga più restio ad “approssimare” rispetto al più avventuroso e disimpegnato autore del Ciclo di Barsoom. In fondo, Luciano di Samosata, nell’antica grecia, era già arrivato sulla luna con una sua narrazione, e così anche lo scienziato e astronomo Giovanni Keplero nel ‘500 e poco dopo, nel ‘600, anche il filosofo, scrittore, drammaturgo, soldato e moschettiere Cyrano S. De Bergerac sarà pioniere della Fantascienza basandosi sull’ambientazione speculativa selenita.

La Guerra dei Mondi ritrae una razza aliena e una tecnologia che suggerisce già la “bio-meccanica”, basti notare la forma degli individui alieni che è simile a quella dei loro mezzi bellici e di trasporto. Questo dettaglio fa supporre che solo loro possano pilotare quei mezzi e la cosa interessa anche un fatto ingegneristico strettamente correlato alla loro conformazione fisica, pertanto nel campo tecno-anatomico. L’ approssimazione dell’ipotesi aliena di Wells è effettivamente straordinaria per accuratezza e realismo e fa impallidire la stragrande maggioranza della letteratura e del cinema a lui successivo. Per questo e per molti altri motivi, La Guerra dei Mondi è sotto quasi tutti gli aspetti superiore ai romanzi di Albert Robida con il quale sembra condividere soltanto il pessimismo. Eppure anche su questo occorre fare una precisazione importante. Partendo dall’ottimismo solare e limpido di Giulio Verne si può dire che esso venga contrastato dal pessimismo dei romanzi di Albert Robida o di Emilio Salgari (Le Meraviglie del duemila, 1907) in maniera totalmente diversa rispetto a come viene contrastato da Wells. In Robida e Salgari si trovano delle analisi sociali invidiabili e molto avanzate ma il loro non è un tono propriamente “profetico”, bensì ammonitore ed “educativo” che, a prescindere dalla precisione predittiva, è pensato per scopi moralizzanti verso il popolo sicchè perfettamente congruo al romanzo per adulti. La dimostrazione sta nel fatto che Il modello educativo-divulgativo ottimistico dei romanzi (fanta)scientifici di Verne si rivolge ai ragazzi, sino al formarsi del perfetto Young AdultUn capitano di 15 anni – che segue una direttrice simile all’agenda pedagogica fiabesca. Senza dilungarci a riguardo, dato che si è già affrontata la questione qui; Pinocchio, ad esempio, potrebbe essere un romanzo fallimentare da un punto di vista educativo ricorrendo alla retorica “minatoria” per forzare la condotta dei bambini, ma questo tipo di tono è perfetto quando utilizzato da Robida, Salgari e il rarissimo Giulio Verne di “cattivo umore” nei romanzi per adulti. Perfino il pessimismo di Edward Page Mitchell  che tra questi è il più simile a Wells, ha una “chemio-reattività” diversa con l’ottimismo verniano poichè il Mitchell narra di fatti sempre episodici, che non “dilagano mai nel mondo” e si disinteressa totalmente dell’analisi sociologica. Le storie raccontate da Mitchell, – su invisibilità, scienziati pazzi, viaggi nel tempo, controllo mentale, epidemie contagiose, programmazione psicologica – rimangono circoscritti ai luoghi dove accadono che sono in genere siti isolati e questo lascia supporre che Mitchell operi tale scelta per fini di credibilità poichè, effettivamente, se tali processi dilagassero pandemicamente si arriverebbe facilmente nel mondo ad un cambio globale, e a quel punto sarebbe incongruo non digradare alla distopia, ed è per questo che egli sceglie di descriverli come fatti chiusi alle loro circostanze, né più né meno di una storia di fantasmi di Edgar Allan Poe o un’avventura di Pollicino in un castello sulla nuvola. Oltre che le singole innovazioni, Wells sarà simile a Mitchell anche per un’influenza da Edgar Allan Poe, Mary Shelley e Nathaniel Hawthorne. Un’altra caratteristica – stavolta di natura più letteraria – in cui Wells si è dimostrato maestro è infatti l’aver saputo ricreare ottime semplificazioni degli umori comico-satirici di Dickens e delle cavernose malinconie riflessive di Poe e Hawthorne, e la sua sintesi è obiettivamente molto soddisfacente.

Tuttavia dopo gli aspetti inerenti alle innovazioni di Fantascienza e del romanzo di guerra interplanetaria; al pensiero pessimista e alla matrice distopica, c’è un ulteriore espressione molto importante ne La Guerra dei Mondi, ovvero la possibilità di vedere questo romanzo come un’effettiva risposta per la fantascienza a La Fonte ai Confini del Mondo di William Morris poichè sia La Guerra dei Mondi che La Fonte ai confini del Mondo affermano rispettivamente “Il Mondo” letterario di Wells e di Morris. Come Verne aveva creato il “Mondo Misterico” e come Morris ha generato la grande tradizione del “Mondo Secondario“, più tardi Burroughs darà vita al “Mondo Planetario”, e infine Howard andrà verso il “Mondo Perduto” nel genere Sword and Sorcery, ma a questo disegno della letteratura fantastica in senso ampio manca un elemento che inizia a fine ottocento e che continuerà a lungo, e sono le proiezioni dalla lunghissima “gittata” dei “programmi predittivi” socio-distopici che compongono il “Mondo Primario predittivo” di Wells a partire da La Guerra dei Mondi, dove una schiacciante incombenza assottiglia l’identità e la libertà del popolo e crea le premesse di un governo unico mondiale, cosa di cui Wells effettivamente parlava apertamente nei suoi saggi e nei suoi romanzi. Da notare l’esatta antitesi con Morris, che invece a seguito di una grande vittoria finale contro il tiranno condottiero di Utterbol, darà forma ad un mondo fatto di monarchie piccole e identitarie in un mondo composto da tradizioni capillari.

Questo ovviamente non esclude il fatto che Wells abbia inserito messaggi totalmente edificanti, condivisibili e profondamente critici in campo politico ed ecologico. Anche per fameliche lettrici o lettori di romanzetti d’amore Harmony è praticamente automatico vedere nell’invasione aliena narrata da Wells sia una denuncia ecologica e animalista che – soprattutto – un esame di coscienza anticolonialista; un ritratto spietato di come una razza superiore possa schiacciare una inferiore, riducendola a bestiame, e di come sia impossibile – per noi umani corrotti – sentirsi migliori di questi “dannati” alieni. Wells stesso dichiarò in qualche modo sia all’interno dell’opera che anche in commenti al di fuori di aver pensato agli stermini degli aborigeni della Tasmania mentre scriveva La Guerra dei Mondi. Tuttavia è doveroso portarvi alla luce un dettaglio sperando di non sembrare troppo puntigliosi. La critica di Wells anticolonialista ed ecologista non è improntata su tali atteggiamenti politici di per sé, bensì maggiormente sull’inevitabilità del male nella vita di esseri come gli umani, non migliori dei suoi malvagi alieni. Bisogna considerare che al tempo della lettura di questo romanzo non si era approfondito nulla della vita politica e sociale di Wells, eppure, pur nell’assoluta ignoranza, appariva già “curioso” che lo stesso Wells, nonostante eccellenti argomenti di critica, incolpava “cosmicamente” tutta l’umanità per questi massacri in Tasmania e non la politica britannica prima e quella dei pionieri stabilizzati in Oceania dopo. Vista con una visione successiva, appurando la collaborazione e l’amicizia di Wells con Lord Alfred Milner, o Cecil Rhodes, ovvero soggetti che hanno alimentato direttamente il colonialismo, le parole dello scrittore appaiono scandalosamente ipocrite, ma soprattutto ci fanno capire che un argomento demagogico necessità di una larga percentuale di opinioni condivisibili e incontestabili per essere efficace e questa banalità non è certo una scoperta, eppure ricordarlo non fa mai male. Ciò non impedisce certo a La Guerra dei Mondi di essere un capolavoro.

Come si è visto, anche Wells ha fatto ricorso al mito e alla storia sia nella sua letteratura che nella saggistica, ma su questo occorre chiarire alcuni aspetti. Non si può negare che Walter Scott, abbia spostato le tende nella bella camera della sua letteratura, per irradiare di una certa luce da lui desiderata l’affresco storico dei suoi romanzi come in Rob Roy, Ivanohe o Weaverly. Altrettanto innegabile è che William Morris abbia ridipinto la storia con i colori e i pennelli di un suo “medioevo inventato” , o che ad esempio Massimo D’Azeglio abbia anch’esso ridisegnato un medioevo “fantasiosamente periodizzato” per i suoi fini patriottici, ma tutte queste visioni sono state di un purismo e profondità incontestabili. Il ricorso storico e mitologico di Wells, a ben guardare, appare assolutamente diverso. Esso è infatti composto – quando il registro è quello sarcastico – di “vignette” caricaturizzate e minimalistiche della storia, oppure al contrario, toni ieraticamente scientisti, basati su un gravoso moralismo spesso attualizzante in maniere brillanti ma anche estremamente fuorvianti, e le armi usate per questo lavoro sono quelle appena suggerite tra le righe; armi che Wells ha sempre adoperato con maestria, come il tono cupo e grave della “profezia scientifica” e della plumbea, soccombente e incombente metafora pessimistica, oppure il sarcasmo e l’iperbole esilarante. Si tiene conto ovviamente che un argomento letterario quasi mai è veramente univoco e matematico. Sono rari i casi in cui un significato nascosto, una ragione profonda o una precisa metafora coprono il cento per cento della forza di un’idea letteraria. Nella retorica può annidarsi un significato che coesiste con altri numerosi e che non è necessariamente riflettente in tutto e per tutto a ciò che le analisi attribuiscono, ma si potrebbe tuttavia dire che tra le varie interpretazioni possibili, ad esempio, gli stessi Eloj e Morlocks de La Macchina del Tempo siano soggetti a qualche riflessione ulteriore. Sugli Eloj si può ammettere che la raffigurazione, valutando in riferimento al pensiero e le idee di Wells, potrebbe anche essere ritenuta ragionevole e veritiera nelle ristrettezze del suo sistema di idee, a prescindere che possa soddisfare o meno la lettura, ma è diverso il caso in cui si riunisce in un colpo solo sia il clero che la classe proletaria come nei Morlocks, per quanto potrebbe apparire affascinante vi si trova un qualcosa di tendenzioso.  Gli esempi in questo senso sono numerosi già nel Wells “più letterario” de La Macchina del Tempo, L’Uomo Invisibile, Il Risveglio del Dormiente (1899) o I Primi Uomini sulla Luna (1901), ma soprattutto sono rintracciabili direttamente nei saggi dove il postulato di Wells è reperibile senza filtri, e così nei romanzi compenetrati ai saggi, come ad esempio Un Utopia Moderna (1907), che addirittura, pur essendo un romanzo, veniva serializzato dallo stesso Wells insieme a due saggi di cui di fatto è sequel: Anticipations (1901) e Mankind in the Making (1903).

Anche questo particolarissimo romanzo utopico, come La Guerra dei Mondi ha una doppia espressione, in quanto può esser visto sia come una prosecuzione naturale e accrescitiva di Guardando Indietro 2000-1887 di Edward Bellamy, sia invece come un’utopia dalle metodiche di partenza di stampo socialista, ma che prende una via del tutto unica e diversa, ed in questo si rende più simile a Notizie da Nessun Luogo di William Morris, senonchè prendendo una via del tutto in antitesi, e ciò certamente è piuttosto logico essendo il romanzo stesso di Morris una antitesi a quello di Bellamy. Laddove l’utopia londinese di William Morris si presenta come localizzata, antimoderna, anti-positivista, bucolica, identitaria nelle tradizioni e basata sulla vita individuale dei soggetti che tuttavia sono armonizzati a popolo, quella di Wells è Globale, Urbanista; Comtiana e Ultra-Positivista, Internazionalista e relegante verso il popolo di un ruolo di “massa”, passiva verso l’assoluta accettazione di ogni decisione presa da una elìte illuminata di saggi esperti di scienza. Lo stile di scrittura è del tutto sistemato verso quello di Bellamy, leggero ed efficiente, contrariamente a quello poetico di Morris di gran lunga più trasognato. Ma come in Bellamy, in Un Utopia Moderna sembra essere assoluto l’intervento dell’automazione, tanto che gli uomini che compongono le grandi masse sono ormai sostituite dai macchinari di produzione e quindi liberi dall’esistenza del lavoro diventando tuttavia per contro dei nullatenenti, nessuno di loro fa impresa e tantomeno ha un impiego statale, la grande massa è composta da soggetti che serenamente accettano che sia il governo unico mondiale a disporre della terra, della ricchezza e dell’acqua. In questo romanzo utopico, seppur considerato “minore” si trova un segmento piuttosto ricco di tutto l’arco espressivo di Wells: il darwinismo presente sin dagli albori, l’auspicio di un governo unico mondiale; l’inclinazione di riscrivere in modo svilito la religione, la storia e il mito e di operare pertanto una cancellazione culturale, oltre ad uno spirito innovativo nell’infondere un principio ucronico e di parallelismo dimensionale, nonchè la parabola di decrescita che subisce la produzione letteraria di Wells che scende sempre più dal racconto scientifico all’analisi sociologica. Un tentativo di ridisegnare Gesù Cristo simile a quello di A Modern Utopia si trova nella pubblicazione che forse è il saggio “principe” di H.G. Wells, vale a dire Outline of History (1920) che in verità è ben più di un semplice saggio. Quest’uopera sembrerebbe bensì essere un tentativo definitivo, scientista e post-moderno di invadere e conquistare l’immaginario collettivo attraverso una bibbia darwinista di una religione scientifica. Un’impressione secondaria a riguardo è quella di vedere Outline of History come un tentativo di sovrapporre e quindi sostituire i contenuti di Anticipations e Mankind in the Making che sebbene – come detto – culminarono in A Modern Utopia sembravano trattare con lente più obiettiva la storia del mondo, la politica e la religione. Non un caso che fu Wells stesso a ritenerli le sue “analisi più deboli“. Per quanto elaborato e sofisticato, quello di Outline of History appare un progetto piuttosto velleitario e annebbiato dall’ esaltazione di “reinventare il mondo”, tanto che Hilaire Belloc, scrittore profondamente cristiano e per lunghi tratti stretto collaboratore di G. K. Chesterton, ha demolito il saggio di Wells additandone le letture storiche semplicistiche e una mistificazione anticristiana – o dovremmo dire anti-religiosa in generale – che è il frutto della ” …sfrontatezza di una persona che conosce la bibbia soltanto per qualche annebbiato ricordo del testo convenzionale nelle scuole dell’infanzia” e con la “…Gravissima colpa di scrivere qualcosa su una materia di cui è totalmente ignorante” [9] ed in effetti bisogna ammettere che Wells, come spesso usava fare, pur essendo un grande scrittore e saggista, mostrava un’inclinazione a servirsi delle fonti in maniera apparentemente efficace ma piuttosto caricaturale e fuorviante, ed è consistito anche in questo l’invenzione da lui compiuta di un “nuovo intellettuale” e un “nuovo tipo di anticonformista”, in grado di creare una “para-cultura” o “Pseudocultura”, che sottolinea brillantemente aspetti fuorvianti per mezzo di letture critiche spesso sarcastiche e boriose, che trovano un contrappeso espressivo con un linguaggio scientifico-religioso, che non ammonisce, ma piuttosto predisegna degli zeitgeist. Il tipo di pensatore che Wells riesce a creare è oggi in pieno vigore e consiste più in un anticonformista per definizione che per natura, che non trova nell’anticonformismo una cura ai suoi “disordini” ma piuttosto è dipendente dai disordini stessi per presentarsi ad un “degno salotto” come un “degno” anticonformista, ma di questo forse dovremmo parlarne sul finale. Ciò che tuttavia è quantomeno inusuale in Wells è la sua profonda stratificazione e la lunghissima gittata; la sua capacità di fornire un agenda per tutto il ‘900 e ben oltre, essendo il suo pensiero tutt’ora in piena presenza e questo riguarda sia la sua narrativa che i suoi saggi, scritti politici, scientifici e sociologici. Oltre a tutto ciò che si è specificato fino ad ora sulla produzione letteraria di Wells, nella quale si trova un’utopia del tutto post-moderna come il summenzionato Un Utopia Moderna, sono reperibili romanzi dal sentore predittivo basati su informazioni provenienti direttamente dai dipartimenti dello sviluppo tecnologico, scientifico e bellico come avverrà più tardi con la New Wave. Tra questi si possono facilmente citare La Guerra nell’Aria (1908) e La Liberazione del Mondo (1914) dove vengono descritte tecnologie esplosive e aeronautiche con sorprendente precisione futurologica. E infine, lo stesso Wells si rivela in anticipo perfino sulle distopie in senso generale, su concetti simili alla comunicazione globale e virtuale ritrovabili in Gibson, sia quelle post-moderne che post-belliche che congiungono le vecchie utopie socialiste a quelle Hippy e punk della New Wave, basti pensare al già citato L’Autocrazia del Signor Parham, Il Giorno della Cometa (1906) o Men Like a Gods (1923), senza includere Shape of Things to Come (1933) che viene effettivamente preceduto dal più giovane Huxley e Il Mondo Nuovo, che tuttavia fu ispirato anche da romanzi precedenti di Wells.

Brave New World è maggiormente basato sul contrasto che pone la distopia come antitesi stretta di utopia e non come “predizione sociale pessimistica” e neanche – a ben vedere – come “monito educativo pessimistico” . In Shape of Things to Come si anima il tono religioso-scientista forse al massimo della comunicazione espressiva, ed è molto più palese l’augurio di una Elite globale che “riporterà l’armonia e libererà tutti dall’alto”.  Huxley, come d’altro canto anche Orwell, hanno conservato una loro ambigua imperscrutabilità che ha reso le loro distopie più spendibili rispetto a Shape of Things to Come dove le posizioni di Wells emergono in maniera palese. Sebbene un lettore educato potrebbe facilmente riconoscere la demagogia e la manipolazione che risiedono negli scritti di Wells, è impossibile non osservare che questo scrittore sia stato in grado di creare le “Nuove Distopie” derivate dalle vecchie utopie socialiste quando ancora erano in corso quest’ultime; di dar vita alla New Wave prima ancora che nascesse una “vecchia Wave”; di inventare il post-modernismo ben prima che prendesse forma il modernismo stesso; di fondare a suo modo lo straussianesimo prima che nascesse lo stesso Leo Strauss. Arrivati a questo punto, per andare avanti e avviarci alla conclusione, bisogna fare un passo indietro.

Occorre ripartire con un fatto già menzionato. Già da trent’anni, rispetto alla pubblicazione di House of the Wolflings (William Morris, 1888), il partito della sinistra internazionalista e aristocratica dell’estabilishment britannico – gli Whig – era confluito insieme ad un gruppo dei Tories nel Partito Liberale, fondato nel 1858, assumendo un’attitudine autoritaria che un soggetto come Lord Palmerston ha certamente contribuito a portare. Anche del successivo elemento si è fatto un piccolo accenno, vale a dire la nascita procedurale nell’arco degli anni finali dell’ottocento di un fitto sottobosco di Think Tanks e associazioni di vario genere, alcune pubbliche e altisonanti, altre occulte e poco menzionate, ma tutte di natura scientista e internazionalista. Tra queste è importante citare il paramassonico X-Club, fondato nel 1864 da Thomas Huxley, nonno del più noto Aldous, noto anche per essere il più irriducibile “Bull Dog di Darwin“. Viene ritenuto un fatto importante anche l’ingresso nel 1844 di Francis Galton nella Scientific Lodge di Cambridge che aveva origini settecentesche ma vide una nuova giovinezza proprio negli anni 40-50 dell’800 come promotrice del darwinismo e dei principi dell’eugenetica. Meno nota è la National Secular Society, fondata nel 1866 dal politico del Partito Liberale Charlie Bradlaugh, attivista dal forte basamento ateista, positivista, iconoclasta e oltremodo influenzato dall’eugenetica del summenzionato Galton e Charles Knowlton. Il Bradlaugh Fu inoltre stretto collaboratore della teosofa e occultista Annie Beasant, anch’essa ossessionata dal controllo delle nascite, già da prima in contatto con Aleister Crowley e legata sia al Partito Laburista che ai fabiani. Sempre Bradlaugh e Beasant fondarono nel 1877 la Lega Malthusiana, che ancor più della National Secular Society si basò sull’Eugenetica e il controllo delle nascite, accogliendo medici e intellettuali eugenetisti come Charles Robert Drysdale e la femminista Marie Strops, che fondò una clinica sponsorizzata proprio dalla Malthusian League. Non certo di minore importanza è la Fabian Society, fondata dal “civettone glamourHubert Bland e dalla moglie – scrittrice di romanzi gotici – Edith Nesbit, che fu come detto anche ammiratrice di William Morris, ma in seguito amica dello stesso Herbert G. Wells e George Bernard Shaw. Sempre nell’area fabiana non si può trascurare la London School Economics and Politics Science, fondata da Martha Beatrice Webb e il marito Lord Passfield (Sidney Webb), anch’essi come Bland e Nesbit  “personaggi chiave” del fabianesimo, che in età edoardiana raggiungeranno il culmine con la fondazione della rivista The New Statement, tutt’ora in piena attività e riferimento imprescindibile per i pensatori atei, neoliberali e internazionalisti. Ma vi erano anche altre come l’Anglo-American Estabilishment, il Round Table Movement, il Co-Efficent Club e ancora numerose consorterie, club e circoli che non staremo a menzionare salvo per necessità; tutte a formare un organismo irrobustito e protetto da uno scheletro di apparati culturali e istituzionali come la rivista Nature, fondata in quegli anni (1869) da alcuni scienziati e divulgatori – tra i quali anche T. Huxley – che contribuirono inoltre allo sviluppo e l’ampliamento della Royal Accademy Science. Sempre sull’onda scientista veniva fondata e buttata nella mischia anche La Società della Terra Piatta con la pubblicazione del libro “Cento prove che la terra non è un Globo“; un titolo molto da “You Tuber“, verrebbe da dire, per essere il 1885. Non meno L’Eugenetica era già arma dei laboratori “dell’ingegneria sociale” di fine ‘800, preconizzata dallo spregiudicato ginecologo William Goddell nei primi anni dell’800 e sviluppata a fine ‘800 con Sir Francis Galton, il quale portò un’elaborazione più sofisticata dell’Eugenetica rispetto alle idee di Goddel, rendendola ben sposabile con le convinzioni del malthusianesimo e del darwinismo “religioso-estremista”. Ci sono degli aspetti molto interessanti da notare in questa costellazione di fenomeni sociali sui quali è davvero impossibile non soffermarsi.

L’affermarsi di questi Think Tanks assume una natura sia elitaria che contro-elitaria. Contro-Elitari lo erano fuor di dubbio, poichè – nonostante lo snobismo dallo stile aristocratico che quasi richiama al portamento estetico dei vecchi liberali Whig – avevano maturato un pensiero radicale, sfrenatamente internazionalista, liberalista e progressista, e non meno scientista e darwinista, talvolta accusatore verso le elite vittoriane d’essere “snob”, senza tuttavia sottrarsi loro per primi ad aggregarsi in formazioni piuttosto “esclusive”. Seppur vero che nel già citato romanzo Un Utopia Moderna del 1907, ad esempio, Herbert G. Wells abbia cercato di chiarire che l’elìte dei “gestori mondiali” del governo unico globale è aperta ad includere nuovi membri selezionati per “alta e aperta competenza scientifica e valori morali adatti“. In realtà, Wells lasciava capire anche che è solo lo strato di esecutori sottostante al nucleo di potere ad essere realmente “inclusivo”, mentre i vertici della piramide appaiono piuttosto monolitici almeno come un rinnovato ancien regime. In questa loro venatura contro-elitaria era molto forte un intento di secolarizzazione ed estirpazione del pensiero religioso, tradizionale e conservatore del popolo, per un fine di ridisegnazione e conquista antropologica-cognitiva dell’immaginario collettivo della società globale e non certo solo quella inglese. E’ piuttosto curioso osservare infatti che la Geopolitica, in quanto materia di studio o “scienza” nasca in questo contesto, notando anche che Halford J. Mackinder proprio come Herbert G. Wells è stato un punto di raccordo fondamentale in questo aggregato di club internazionalisti. Mackinder – quale inventore della Geopolitica – sviluppa questo insieme di studi e scienze dopo che lo Zar Alessandro II decide di dar via ai lavori per le ferrovie russe. Quella preoccupazione “proto-geopolitica” che i Seadogs, vale a dire i Corsari Elisabettiani, finalizzavano al controllo talassocratico del commercio diventa anche una preoccupazione di controllo e dominio continentale tellurico. Ma in questo insieme di processi non nasce soltanto la geopolitica ma anche una retorica internazionalista di accompagnamento, di matrice moralistico-libertaria e progressista, sempre stigmatizzante verso l’autocrazia, “l’egoismo degli stati nazionali”, le limitazioni delle libertà e altri contenuti di tipo cosmopolitico e filantropico utili a sviluppare una mole di argomenti e “macro-cause” per contrastare i poteri “regionali”. Non un caso che Wells, fu uno dei direttori ideologici della Società delle Nazioni, nonché acceso sostenitore del Governo Unico Mondiale, come dimostrano numerosi suoi scritti già citati tra i quali il suo saggio in fase già molto avanzata della carriera The New World Order (1940).

Tutto questo – ammetterete – si completa bene in un contrasto paradigmatico con le riflessioni precedenti sul multicentrismo, le autonomie decentralizzate, le piccole monarchie separate e quindi il multipolarismo e federalismo.

Eppure a tutte queste istanze “contro-elitarie” e “radicali” corrisponde una parte del tutto schizofrenica ed elitarista e non solo certo per la loro natura “glamour” ed esclusivista, o l’atteggiamento autoreferenziale da soggetti “competenti” e illuminati, che da soli si attribuivano meriti e capacità di poter orientare il pensiero del popolo e la direzione della politica mondiale, dell’informazione, della religione, dell’istruzione, della critica artistica e dell’economia. Ma anche per un certo compiacente pragmatismo cinico condotto sulla ragione fondale del “mezzo da usare per un bene superiore” visibile in macroscopiche circostanze, come il loro sostegno alla schiavitù e al secessionismo americano, o addirittura il richiamo paradossale a cose come “un fascismo liberale e illuminato“,2 come Herbert G. Wells stesso auspicò in una conferenza a Oxford. E’ piuttosto singolare dover ragionare su un pensiero che riesce a fornire alloggio sia ad una retorica anti-autocratica; denunciatrice degli egoismi delle elìte nazionali e locali; paladina contro le prepotenze, le furberie, le birbanterie e i latrocini dei “rudi dittatori” locali, sia al tempo stesso a convinzioni che sostengono, ad esempio,  il secessionismo americano e la schiavitù finanche – per l’appunto – al summenzionato “fascismo illuminato e liberale“. Entrambe le cose hanno un riflesso diretto che è più che mai irradiato nell’attualità, in quanto è visibile nella parte contro-elitaria tutta l’ideologia che potrebbe partire con lo pseudo-idealismo “alla Woodrow Wilson” e culminare con Roger Mucchielli, Gene Sharp e le rivoluzioni colorate, l’esportazione delle democrazie o la retorica “anti-regime”, e tutto questo ha certamente una radice sia nella Geopolitica nascente ad opera di Halford J. Mackinder sia al moralismo libertario e progressista di Herbert G. Wells, che condiziona il futuro con previsioni scientifiche mentre attualizza, caricaturizza e banalizza la storia passata attraverso una riscrittura dell’immaginario collettivo che principalmente consiste nella cancellazione, banalizzazione o sofisticazione della religione, della storia e del mito. Ma tutto questo ha un perfetto alter ego corrispondente nella metodologia della guerra asimmetrica, nella ricerca dei “perni geopolitici”, e andando per esempi a caso nella stretta attualità; nel sostegno a soggetti come i “ribelli moderati” in Siria che in realtà non sono qualcosa di molto diverso dal terrorismo estremista islamico; come i ribelli in Libia contro “l’egoista-autocrate” Gheddafi; arrivando all’estrema destra neonazista filo-americana ucraina che somiglia non poco al “fascismo liberale e illuminato” che viene “oxfordianamente auspicato” da Wells. Questa dualità – oltre ad essere una raffigurazione retro-attiva del “bipensiero orwelliano”, che scopriamo in realtà essere molto più “wellsiano” che orwelliano – ha una diretta conseguenza. I contenuti retorici progressisti e moralistico-libertari che oggi potrebbero interessare il concetto di “Politically Correct” si sviluppano come arma in concomitanza non solo con la nascita della Geopolitica e Geostrategia di Mackinder ma anche durante la transizione che si ha dalla Matchpolitik e Power Politics di stampo imperialista al Soft Power che invece interessa più il camuffato imperialismo globalista, e questo ovviamente assume una rilevanza significativa sul contingente di fine ‘800 e inizio ‘900, nell’affermarsi dell’economia finanziaria come forza di pari importanza a quella militare, e assumerà una rilevanza ancor maggiore con i mass-media globali. In qualche modo, anche questo atteggiamento politico era stato intercettato in maniera sorprendente da William Morris, come è ben evidente nei suoi vari scritti del periodo

Dubito che voi conosciate l’odio contro la libertà che è nel cuore […] delle classi più ricche di questo paese; i loro giornali lo velano in una specie di linguaggio decoroso, ma se li sentiste parlare tra loro, come ho fatto io, non so se prevarrebbe in voi il disprezzo o l’ira per la loro follia […] Questi uomini non possono parlare delle vostre ragioni, dei vostri scopi, dei capi delle vostre associazioni, senza un ghigno o un insulto.
[…]ma se intraprendiamo la guerra ingiusta che gli stolti e i codardi del nostro governo ci chiedono di condurre oggi, la nostra perdita di lavoro comprerà la perdita della speranza, la nostra perdita di amici e parenti renderà nemici padre e figlio. Questa è una guerra ingiusta! non lasciatevi ingannare, il governo dichiara di volere la guerra con la Russia per punirla per le cattive azioni compiute, o per impedirle in seguito, ma non è così, 
E chi sono loro che ci stanno portando in guerra? Guardiamo questi salvatori dell’onore dell’Inghilterra, questi campioni che vogliono essere flagelli delle iniquità della Russia! Li conosci?…Imbroglioni, avidi giocatori di borsa, oziosi ufficiali dell’esercito e della marina (poveretti!), civettoni glamour, stremati giullari dei club, disperati fornitori di eccitanti notizie di guerra per i comodi tavoli della colazione di chi non ha niente da perdere con la guerra ; 

Come si è detto nella prima parte dell’articolo, sia la Guerra di Crimea prima, che le successive operazioni militari inglesi di appoggio all’Impero Ottomano, in funzione antirussa e tese all’Egitto e Suez generarono una sfiducia nell’impero tangibilmente denunciata nei poeti del revival epico e gotico tardo vittoriano, poiché molti intellettuali britannici di qualsiasi fazione, ma anche molti cristiani e perfino altrettanti di stampo patriottico, si resero conto degli svantaggi che le guerre portavano sui lavoratori, in aggiunta alle profonde lacerazioni della rivoluzione industriale.

Occorre aggiungere che si potrebbe considerare come un fatto storico “normale” che un “reset sociale” – come un nuovo ciclo tecnologico – porti molte “vittime”, dacchè vi saranno inevitabilmente settori soppiantati ed inoltre, l’avanzamento tecnologico conduce automaticamente ad una compressione dei salari che poi torneranno – se tutto va bene – a crescere nella generazione successiva. Non scopriamo pertanto l’acqua calda nel dire che a partire dalla seconda parte del Settecento e quindi agli inizi della Rivoluzione Industriale, l’impero britannico spostò la domanda globale verso produzioni inglesi che comportavano molto lavoro e ciò ha condotto all’innalzamento dei salari, ma la successiva introduzione di nuovi macchinari tecnologici che soppiantarono il lavoro artigianale fece crescere i profitti ma anche comprimere i salari. I salari in molti casi ricominciarono a crescere nella seconda metà dell’ottocento, senonchè, ebbe luogo in maniera troppo ravvicinata una seconda rivoluzione industriale- o una seconda parte se visto come fenomeno unico – contigua alla prima, i grandi profitti quindi mantennero la crescita ma i salari dei lavoratori rimasero tendenzialmente compressi e il prolungamento di queste condizioni comportò una disuguaglianza tra ricchi e poveri maggiore di quella “prevedibilmente plausibile”, ma in aggiunta a questo ha avuto luogo anche un sensibile problema che ha un doppio risvolto.

La seconda rivoluzione industriale non ha avuto soltanto l’Inghilterra coloniale come principale protagonista, ma  anche Stati Uniti e Germania lo sono stati parimenti, se non addirittura ancor più dell’Inghilterra stessa. Inoltre è necessario considerare anche l’elemento delle due Guerre Boere che si rivela di “insospettabile” importanza. L’Inghilterra – seppur esperta nelle politiche egemoniche imperialiste – ha vissuto nella prima Guerra Boera un “Vietnam in Ante Litteram” comportato sia dalla difficoltà della campagna militare in sé, sia da quelli che alcuni storici definiscono come “alcune sviste politiche e militari” inglesi. Anche se la Guerra contro gli Zulu è stata vinta, ha comunque inflitto una distrazione essendo praticamente contemporanea a quella ben più dura contro gli Afrikaaners (Francesi, Belgi e Tedeschi del Sudafrica) e i Boeri (Olandesi del Sudafrica). Una delle osservazioni sensibili da fare è che il governo capeggiato da William Ewart Gladstone, perdendo disastrosamente la Prima Guerra Boera nel 1881, aveva inevitabilmente contratto lo slancio egemonico mondiale, soprattutto dopo la Battaglia di Majuba Hill e la conseguente concessione di autogoverno alla Repubblica del Transvaal che corrisponde ad una regione parziale dell’attuale Sudafrica. Ma è interessante notare la differenza di reazione degli intellettuali inglesi, nonostante i pochi anni trascorsi tra la Guerra di Crimea le due Guerre Anglo Boere.

Appare straordinariamente evidente sugli intellettuali l’effetto della Seconda Rivoluzione Industriale inevitabilmente accompagnata da una retorica scientista, atea e spesso tautologica, che ovviamente è stata utile per contrapporre all’aumento della disuguaglianza e salari bassissimi prolungati una meta-narrazione propagandistica basata sul moralismo progressista e sui vantaggi tecnici – naturalmente, molti dei quali incontestabili – che avrebbero portato le nuove politiche economiche e industriali. Pertanto si ha una reazione diversa, non si troverà una risposta di molti intellettuali come quella avuta negli ’50 e ’60 dell’ottocento, che è stata spesso antimoderna, isolazionistica, patriottica, anticolonialista, o al massimo verso un cosmopolitismo metafisico, idealistico, romantico e poetico, ma si ha bensì una sfiducia non tanto per le politiche imperiali di per sé, ma per le vesti vittoriane con cui queste si coprivano ormai in modo desueto, si rinnoverà semplicemente il guardaroba ed è così che l’imperialismo vittoriano indosserà la veste dell’internazionalismo globale, mentre l’anticolonialismo, isolazionismo e patriottismo saranno sostituiti dal “cappello” di una retorica autoreferenziale moralistico-libertaria e progressista che attribuisce a sé stessa compiti di diffusione della civiltà e democrazia, molto funzionale alla denuncia di “prepotenti locali” e “dittatori regionali”, se non addirittura di “Stati Nazionali egoisti e autocratici” come Russia e Germania, poichè la mantella a completare l’abito è quella dell’economia globale, sicchè la sfiducia nella metodologia vittoriana dell’impero consisterà in un neocolonialismo e una rinnovata e camuffata forma di imperialismo basato sul Soft Power, sull’economia finanziaria e non più sulla Power Politic e Matchpolitik. Il tutto diventerà molto più “ibrido”. Se avete dubbi su questo basta proseguire e vedere come è andata la Seconda Guerra Boera, dove le cose sono state piuttosto diverse rispetto alla prima. 

Essendovi un trattato di pace stipulato a seguito della sconfitta inglese, dove la Repubblica del Transvaal veniva riconosciuta da Lord Derby nella Convenzione di Pretoria, l’Inghilterra impossibilitata a violare lo stato di diritto si trovava nell’incapacità di agire, ma la scoperta dei giacimenti d’oro in Sudafrica mise agli inglesi una gran voglia di rispolverare quella vecchia guerra, frattanto così il rancore ostinato verso l’ormai indipendente Repubblica del Transvaal si esacerbava, trovando sfogo nel tentativo di fomentare l’insurrezione degli Uitlanders per mezzo della Spedizione Jameson. Il tentativo di colpo di stato fallì -militarmente parlando – ma ebbe successo la ricerca di una scusa per violare la pace di Pretoria ed entrare in guerra. L’operazione diede l’opportunità di sollevare la questione che gli Uitlanders, ovvero i cercatori d’oro britannici, non avevano condizioni di lavoro idonee e fossero in piena emergenza per i diritti fondamentali, e chi prese a cuore la questione degli “Uitlanders maltrattati” fu Cecil Rhodes, ovvero un lobbista dell’oro e pietre preziose che, tra le altre cose sosteneva…

“Il colonialismo è filantropia più il 5%” 

Cecil Rhodes era inoltre anche parte dell’Anglo-American Estabilishment, ovvero uno dei Think Thanks frequentati anche da Herbert G. Wells e Halford J. Mackinder. Occorre pertanto capire una cosa. non era importante che gli Uitlanders portassero a compimento il colpo di stato, era importante che la “pseudo-rivoluzione” portasse ai pretesti per violare la pace stabilita da Lord Derby e Paul Kruger. La campagna militare di cui fu protagonista Lord Alfred Milner – anch’egli amico di Wells e Mackinder, e parte del Round Table Movement – ebbe come risultato 25.000 civili boeri uccisi, la fine dell’indipendenza del Transvaal e dello Stato dell’Orange, lo sparpagliamento di Afrikaaners bianchi ridotti alla povertà e alla disperazione che seminarono a loro volta panico, conflitti e morti invadendo alla rinfusa varie regioni come il Monzambico, e stavolta a rimetterci furono di nuovo i locali africani, che erano ovviamente già stati derubati dapprima. Ma questa operazione non è stata condotta soltanto per mettere le mani sull’oro sudafricano e per ritornare ad annettere all’impero britannico le repubbliche sudafricane del Transvaal e dello Stato dell’Orange, bensì è stata una mossa che guardava anche ai piani per la zona del Rwanda-Urundi e degli Afrikan Great Lakes, già colonizzata dal Secondo Reich e che per mano belga e inglese, durante la prima guerra mondiale sarà sottratta a Guglielmo I e ai prussiani. In queste circostanze vedremo un’espressione di colonialismo eugenetico di catastrofiche dimensioni, basti pensare alle etnie artificiali di Tutsi e Hutu, create ad hoc dai belgi e inglesi solo per ingegnerizzare un’ostilità divisiva per i popoli locali, comportando massacri che si protraggono sino ad oggi.

Lo storico guyanese Walter Rodney ha avuto il merito di divulgare come le pratiche eugenetiche e d’ingegneria sociale fossero state usate nel colonialismo africano, soprattutto nella regione degli African Great Lakes che fu teatro – a seguito delle sconfitta del Secondo Reich ad opera di Belgio e Inghilterra – della scissione tra Tutsi e Hutu, cosa che ha scatenato generazioni di atrabiliari massacri e crudeltà. Rodney spiegò, in fin dei conti, che il colonialismo del Secondo Reich, non era dissimile da una egemonia tributaria di stampo “antico-romano” – non certo baci e abbracci, direte giustamente voi – ben diverso e peggiore è tuttavia il colonialismo esercitato dal Regno Unito per mezzo del chiavistello belga dove il popolo indigeno del Rwanda-Urundi fu indotto a massacrarsi da conto proprio sulla base d’una divisione etnica totalmente artefatta. Si aggravò poi la situazione, nel rendere molti degli stessi africani protagonisti, avvantaggiati e dipendenti dello schiavismo. Bisogna anche riconoscere d’altronde che, quando il Belgio assurgeva a potenza coloniale sul trono sedeva Leopoldo II, di cognome Sassonia-Coburgo-Gotha, vale a dire lo stesso cognome familiare degli Windsor.

…Per la maggior parte degli stati capitalisti europei, la schiavitù degli africani aveva raggiunto il suo scopo entro la metà del diciannovesimo secolo; ma per quegli africani che trattavano in cattività, la brusca interruzione del commercio in un dato momento era una crisi della massima portata… (Walter Rodney, tratto da How Europe Underdevoloped Africa, 1973)

Rodney ha il merito di aver chiarito inoltre un aspetto fondamentale, ovvero quello che l’Eugenetica è una “lavorazione sociale e etnica” voluta e praticata dagli inglesi molto prima dei nazisti, “spetta a noi” – nell’intenderci come “persone del mondo odierno” – quindi completare nei tempi di oggi tutto il suo discorso nel dire che è stata fortemente incoraggiata prima e più di tutto dai progressisti della sinistra e dei socialisti inglesi, pertanto dagli “estremisti darwinisti”, gli scientisti atei e internazionalisti, gli stessi che si sono serviti poi della propaganda moralista e libertaria che si è scagliata contro gli “egoisti stati nazionali” per mezzo della scusa di una lotta mondiale moralizzatrice contro stati non allineati definiti “autocratici”. D’altro canto, anche gli Stati Uniti, dimostrarono di non essere certo da meno dei nazisti come ben sottolineano le pratiche eugenetiche inflitte ai nativi americani, comprese le sterilizzazioni forzate delle donne ordinate nello stato dell’Indiana e questo, non lo diciamo certo basandoci sulla famigerata – e non del tutto confermata – simpatia di Hitler per i nativi americani ma su fatti comprovati, tra i quali  i corsi di Eugenetica che furono perfino istituiti ad Harvard, Yale e Stanford sotto l’amministrazione Harding, nel 1928. Gazie al Rodney viene chiarito anche che Colonialismo e Eugenetica sono due fatti – per ovvie ragioni – strettamente collegati, come lo sono la finanza globale, la propaganda scientista e la “religione ateistica”. Il ruolo di Rodney tuttavia non è stato negli anni sempre perfettamente limpido. L’intellettuale guyanese si è reso fondamentale per la nascita di movimenti come il Black Power, o i Black Panther, che per tutto paradosso sono stati emulati dagli Hutu Power nell’area Rwanda-Urundi, spargendosi in Burundi, Rwanda e Tanzania e contribuendo ad esacerbare quelle violente polarità delle due pseudo-etnie artificiali create dagli inglesi e i suoi accademici corrotti che il Rodney meritoriamente condanna nella sua opera. Queste fazioni sono inoltre appartenenti ad una ragnatela di militanza eversiva e attivistica come l’estrema sinistra degli Antifa (Antifascisti Marxisti Americani) e i progressisti pro-abortisti (che in alcuni stati lambiscono anche gli ambienti Satanisti-baphometiani come quelli della Chiesa Satanica dell’Oregon e del Missouri) che spesso è tenuta nascosta dall’attivismo sedicente anti-razzista, nel quale questi nuclei si compenetrano letargizzando sino a che – all’occorrenza – qualcuno non senta l’esigenza di risvegliarli per qualche causa principalmente politica. Questi soggetti nella società americana, più che riferirsi a Martin L. King e Stokely Carmicheal come vorrebbero dare ad intendere – dai quali anzi ben poco riprendono – sembrano più essere un terrorismo suburbano e prezzolato che risponde maggiormente alla “profezia” dell’Helter Skelter di Charles Manson, in grado di produrre sicchè uno scontro bipolare di razza che sembra pronto ad entrare in azione quando richiesto, o quando qualcuno nel laboratorio del potere sentirà l’urgenza di “premere il pulsante” dei disordini sociali. Da questo discorso non è certamente da escludersi la destra protestante ed evangelica, che rimane una zona imperscrutabile degli Stati Uniti.  Ad ogni buon conto, permangono i meriti dell’analisi storica di Rodney nell’evidenziare l’eugenetica come fattore di parentela indistricabile con il colonialismo e neocolonialismo. 

L’Inghilterra prima e gli Stati Uniti in seguito sono stati maggiormente precoci e di gran lunga superiori ai nazisti in queste pratiche. Chiaramente, argomenti come quello di Heinrich Himmler e istanze come il Progetto Lebensborn e Aktion T4 collocano indiscutibilmente i nazisti o una parte di essi come promotori dell’eugenetica, tuttavia l’argomento dell’eugenetica potrebbe variare quando accostato a Hitler rispetto alle implicazioni di Himmler. Si tiene conto certamente del fatto che appare francamente difficile pensare che Hitler non fosse a conoscenza delle politiche di uno dei suoi ufficiali più importanti, incaricato per lungo tempo “Capo delle SS”, ma non si può comunque ignorare che Hitler non abbia mai realmente espresso sostegno al darwinismo, al contrario, sono in molti a credere che egli rifiutasse del tutto di credere all’evoluzionismo e che respingesse l’idea di un collegamento dell’Uomo con la Scimmia, come sostenuto anche da Robert J. Richards, Professore di Storia della Scienza e della Medicina presso la Chicago University. Senza una fondamentale e assoluta accettazione del darwinismo sociale malthusiano e galtoniano cadono decisamente i presupposti per un conseguente abbraccio all’eugenetica. Essenzialmente, l’unica reale affermazione di Hitler accostabile a queste opinioni è una sua lode alla città di Sparta, identificata da lui come “il primo stato Völkisch” mentre le numerose citazioni raccolte, ad esempio, nel saggio di Richard Weikart (insegnante di Storia alla California University) delle quali non si ha motivo di discutere l’autenticità appaiono ben poco dirimenti. Riportare una frase come la seguente non rappresenta affatto un qualcosa di sufficiente – né giornalisticamente, né storicamente – per assicurare ai propri lettori che Hitler fosse un darwinista appassionato, anche perchè lo stesso Weickart, ammette che tra le influenze maggiori riguardanti le convinzioni di Hitler è riconoscibile Joseph Arthur de Gobineau, che esprime convinzioni sulla razza ariana molto stimate da Houston S. Chamberlain, e quindi sostanzialmente antitetiche a Darwin

Ci sono stati esseri umani almeno al grado di un babbuino […] La scimmia si distingue dall’essere umano più basso meno di quanto un tale essere umano riesca a distinguersi da un pensatore come Schopenhauer

Bisogna correttamente osservare che le frasi di Hitler disseminate lungo tutto l’interessante saggio di Weickart sono molte oltre alla sopracitata, ma l’entità di quest’ultime non è diversa, considerando anche che lo stesso Storico – oltre ad ammettere l’infuenza di H.S. Chamberlain e J.A. Gobineau -riconosce come veritiera una citazione ben più significativa, rendendosi altresì criticabile nel riportarla in quanto la parola “Sviluppo” (Entwicklung) viene tradotta dal Weickart come “Evoluzione” e – ammetterete – questo rende un discorso di analisi più complicato nell’interpretazione finalizzata a discriminare le formule di uso comune del linguaggio parlato da quelle di implicazione scientifica. Non saremo qui noi a dubitare della buona fede, ma sarebbe stato più naturale per il fine divulgativo mantenere il normale significato della parola dal tedesco all’inglese, vale a dire “Sviluppo” che non è propriamente sinonimo di “evoluzione”.

“Da dove prendiamo il diritto di credere che l’umanità non fosse già dalle sue prime origini ciò che è oggi? Guardare la natura ci insegna che nel regno delle piante e degli animali avvengono trasformazioni e ulteriori sviluppi. Ma mai all’interno di un genere l’Entwicklung ha fatto un salto così ampio, che gli esseri umani devono aver fatto, se fossero stati trasformati da una condizione simile a una scimmia a quella che sono ora.” 

A prescindere dai quattro interessanti saggi dei due studiosi in antitesi, rispettivamente storico della California University e Storico della Scienza e Medicina della Chicago University, a cui ora ci stiamo riferendo, – From Darwin to Hitler (Weikart, Mac Millan, 2004) ; Hitler’s Ethic (Weikart, Mac Millan, 2009); The German Reception of Darwin’s Theory (Richards, 2011, Gratuito); Was Hitler a Darwinian? (Richards, University Chicago Press, 2013) – vi sono altri spunti per ritenere l’attuale concezione predominante nell’immaginario collettivo delle idee etnologiche di Hitler piuttosto “wellsianamente caricaturizzata” e fin troppo superficiale e d’altro canto, questa semplificazione potrebbe essere avvenuta anche con Stalin:

… Le razze bianche hanno dato le cose peggiori agli indigeni: materialismo, alcolismo, sifilide, fanatismo. Poichè queste popolazioni esotiche nelle zone selvagge del mondo possedevano qualità proprie, sono rimaste talvolta pure e immutate (Adolf Hitler, Diari del Bunker)

Rimane ovviamente il fatto incontestabile riguardante gli elementi già citati di Heinrich Himmler, il Progetto Lebensborn e Aktion T4, e la naturale considerazione accennata che sarebbe in tutta onestà fin troppo ingenuo pensare che Hitler non abbia – anche fosse solo indirettamente – approvato delle istanze di questo tipo, allo stesso modo tuttavia non si può omettere una considerazione su Himmler il cui suicidio è pressocchè ormai comprovatamente smentito. Vi sono numerose ragioni per credere che Churchill ordinò l’uccisione di Himmler dacchè il gerarca nazista – ormai caduto in mano inglese – avrebbe potuto rivelare agli americani di aver mediato la pace con l’inghilterra alle spalle di Hitler trovando interlocutori ben disposti a Londra per trattare con lui mentre gli Stati Uniti, ignari, mandavano al macello i loro uomini per non mediare con i tedeschi, poichè su una cosa non c’è alcun dubbio: Nel momento in cui Himmler cadde prigioniero degli inglesi, è praticamente scontato che Roosevelt avrebbe preteso con tutte le forze di interrogarlo. Tuttavia anche la tesi “anticonformista” e “controculturale” sembra fin troppo “leggerina”. Si ha quasi anzi l’impressione che siano stati gli stessi inglesi a diffondere sia la tesi del suicidio di Himmler che la contro-tesi. Viene difficile pensare che Winston Churchill abbia preferito rinunciare a tutte le informazioni che Himmler avrebbe potuto rilasciare, uccidendolo in fretta e furia solo per evitare l’imbarazzo con gli alleati di aver segretamente mediato la pace con lui in una situazione disperata, verrebbe pertanto spontaneo pensare a motivazioni più forti per giustificare una tale solerzia, ovvero che Himmler avesse probabilmente collusioni, implicazioni e rapporti con gli inglesi ben più profondi e se dovessimo giudicare dalla sua inclinazione, “così britannica”, galtoniana-wellsiana all’eugenetica e all’igienismo etnico, fiore all’occhiello degli inglesi, non appare una teoria così assurda. Per l’Inghilterra potrebbe essere stato conveniente diffondere una tesi per il pubblico che descriveva Himmler come suicida, e una tesi di controcultura che paventava senza prove l’uccisione di Himmler per non far emergere la mediazione di pace condotta segretamente, affinchè si eliminasse in realtà lo stimolo nei “curiosi” di indagini profonde verso una tesi invece realistica.

Tornando all’esternazione di Hitler espressa sui Diari del Bunker riguardo alle “popolazioni indigene“, essa potrebbe essere significativa non solo per la valutazione sulle idee etnologiche di Hitler in sè, o su una valutazione riguardante il modo di intendere l’etnocentrismo da un punto di vista valoriale, ma anche su una riflessione seriamente realistica sulle concezioni varie di destra sociale e socialismo in generale, e a tal riguardo, uno dei protagonisti di oggi, William Morris, rappresenta obiettivamente un qualcosa di importanza assoluta.

Una prima discriminazione che comporta la creazione di un socialismo che si allontana dal marxismo è lo stesso Karl Marx a generarla come tutti ben sappiamo, in quanto egli divide il socialismo scientifico da quello utopico già agli albori. Ciò comporta di fatto che i primi socialismi utopici, spesso di ispirazione francese – dato che in fondo è Jaques Pierre Brissot a ipotizzare perfino l’anarchismo, su base girondina – come quello concepito da Michail Bakunin o da Petr Alekseevich Kropotkin vengono epurati, e allo stesso tempo i marxisti stessi si affrancano del tutto, per loro scelta, anche dalle forme di socialismo utopico pre-marxista come quelle sempre francesi di Proudhon, Saint-Simon, Fourier o altri al di fuori del pensiero transalpino come Robert Owen. A ben guardare uno dei rari socialismi utopici ben accolti dai marxisti è quello rappresentato in forma romanzesca e futurologica dall’americano Edward Bellamy, basato sull’urbanismo e l’economia al punto da prevedere le carte di credito. Non è un caso che quello di Bellamy è l’unico socialismo utopico che rappresenta un governo centralizzato e non abbia un pensiero federalista, poichè è quasi banale dire che ognuna di queste forme di socialismo utopico ha un risvolto -insito o dichiarato – incontestabilmente federalista. Il socialismo utopico di Proudhon è federalista per definizione, gli altri di Bakunin, Sant-Simon, Owen, Fourier, presuppongono tutti – chi più chi meno – un’applicazione definitiva federalistica in quanto le comunità utopiche sono autonome e decentralizzate ma affratellate secondo un presupposto federativo. Benchè successivo, da par suo, Morris ha dato vita ad un concetto totalmente diverso e innovativo seppur paradossalmente antimoderno per eccellenza. Morris non parla concretamente di federalismo, ma è apodittico il pensiero d’una visione autonomista che traspare dalla raffigurazione delle micro-monarchie “divise ma amiche” nei suoi romanzi Fantasy-Epici, o che la comunità agreste e bucolica da lui ipotizzata, ad esempio, nella Londra romanzata in Notizie da Nessun Luogo possa avere un pensiero di fondo federalista come quello di Bakunin. Non un caso che lo stesso Bakunin abbia effettivamente avuto una repulsione simile a quella di Morris per il marxismo, con il quale entrò in conflitto proprio per la sua visione ovviamente antistatalista e federalista incompatibile con il protagonismo dello “Stato Proletario” marxista; una repulsione che senza dubbio ha una simile espressione verso il nazionalismo democratico di Mazzini, con il quale, sempre “il diavolo di Pontelungo”, entrò alacremente in lotta. Probabilmente in questo contesto non è un caso neanche che Petr Alekseevich Kropotkin – uno degli anarco-socialisti e bakuniani più importanti di sempre – ebbe una stima a dir poco lusinghiera per William Morris, definendolo “uno che può andare fino in fondo con il popolo, troppo elevato per i cavilli e le meschinità dei partiti” addirittura ringraziandolo dichiarando “… grazie a William Morris, di aver impedito che il socialismo in inghilterra prendesse la deriva autoritaria e funzionalista del marxismo […]”. [10] Le parole di Kropotkin trovano effettivamente riscontro. Notorio è che Hyndman, capo dei marxisti britannici fosse ormai giunto ad un dispotismo tale da allontanare perfino Eleanor “Tussy” Marx dalla Federazione Social Democratica. Non staremo quindi a negare l’evidente umana simpatia personale e stima reciproca che c’era tra William Morris e i bakuniani, nè una base di partenza compatibile per entrambi nel federalismo di una micro-società utopica e nella venatura ecologica; aggiungendo inoltre che Il principio rivoluzionario bakuniano entra in collisione con il positivismo di Owen, Proudhon, Saint-Simon, Fourier e gli altri creando un effetto “chimico” simile all’anti-burocratismo e l’anti-positivismo estremo di Morris. Tuttavia, ammetterete che una reciproca simpatia e stima non rendono due pensieri necessariamente simili. Prendendo il discorso dal punto di vista inverso, e tornando a citare una cosa già trattata in precedenza; considerare Morris sulla netta linea degli anarchici sulla base di una stima reciproca sarebbe come considerare lo stesso Morris divergente dal fabianesimo soltanto orientandoci sulla sua antipatia personale. William Morris ha scartato e disprezzato i fabiani non certo soltanto perchè ritenuti “sgradevolmente snob e glam” ma soprattutto per il loro subdolo parassitismo verso il Partito Laburista, per il loro positivismo estremo e per un inguaribile burocratismo che oggi, purtroppo, troviamo perfettamente applicato nell’ONU, ad esempio, o nell’Unione Europea. Con ogni probabilità è questo ciò che intendeva William Morris nel ritenere “teoreticamente antitetici” i fabiani rispetto al suo modo di vedere la vita. Anche in questo caso – sebbene al contrario essendo qui un sentimento di stima – si deve riconoscere lucidamente che l’ecologismo di Bakunin-Kropotkin è puramente materialistico e si esprime – vogliate perdonare questa iperbole – in un “proto-cosmicismo pre-lovecraftiano” che potremmo sintetizzare inLibertà dinamica (movimento e attività dell’uomo) nella Materia (Natura)mentre l’ecologismo di Morris è di stampo “elusivamente cristiano”, eppure folcloristicamente “druidico”, antimoderno, ottimistico, cavalleresco e antropocentrico. L’autonomia delle comunità utopiche nell’ideale di Bakunin e Kropotkin ha una matrice principalmente economica e gestionale, funzionale a non centralizzare il potere, mentre le autonomie che si scorgono nel pensiero di Morris affondano le radici nel patriottismo evocativo sassone. Le micro-monarchie separate del romanzo Fantasy La Fonte ai confini del Mondo ricordano le monarchie dei re sassoni nei tempi che vanno da prima dell’Eptarchia sino al vichingo Danelaw e l’invasione di Guglielmo il Conquistatore. I due termini potrebbero certamente incontrarsi nel mutualismo sociale ed economico, che tuttavia è metodologico nel pensiero di Bakunin-Kropotkin mentre nel Morris è conseguenza stessa dell’ottimismo utopico. Si giunge sicchè a concludere – senza la pretesa di elargire alcuna sentenza naturalmente – che è spontaneo, tanto quanto lo è con Bakunin-Kropotkin, arrivare ad evidenziare un paragone tra Morris e il ricorso all’età dei comuni medievali alla base del federalismo di Massimo D’Azeglio – patriottico, cattolico, liberale e posizionato alla destra storica nel risorgimento – costruito similmente ai “Lander tedeschi” e basato anch’esso sulla “mistificazione di un medioevo periodizzato”; e così, nell’attraversare il tutto in una riflessione comparativa, viene anche in mente il ricorso alla “mistificazione neo-guelfa” di Gioberti, per un federalismo cristiano e papista e poi ripensare alla “mistificazione antimoderna” di Morris, dove al “medioevo ridipinto e inventato” vengono scorti sentori provenienti dal nazionalismo romantico, poetico e cavalleresco di Lord Alfred Tennyson o dal socialismo cristiano di Frederyk Denison. Se invece pensassimo a Cattaneo, e al suo federalismo pensato similmente ai cantoni svizzeri vedremo lo stesso scontro teoretico tra Morris e i Fabiani, essendo il Cattaneo un ateo, materialista, positivista con ambizioni non certo casuali verso gli Stati Uniti d’Europa.

Il posto che nel pensiero di Bakunin viene occupato dall’elemento “cosmicista-materialista” si trova – nel corrispondente posto del pensiero di Morris – un tradizionale concetto di “Kosmos” ereditato dal Pre-Raffaelitismo e dal Gothic Revival e che si potrebbe definire come un “Cosmopolitismo poetico-romantico” scaturito da una sfiducia verso l’imperialismo e la Power Politic britannica, con un risvolto anti-colonialista e una visione potenzialmente estesa nel “cosmo” dell’identità locale e delle autonomie seguite dalle comunità. L’ attributo identitario pagano degli Wolfings, ad esempio, ha un estensione etnica e tradizionale che interessa molto di più l’interpretazione di una grandezza “folk” etnocentrica che una estensione nazionale-geografica espressa in chilometri quadrati o in confini segnati, mentre le piccole monarchie nelle estese terre di Upmeads sono fortemente identitarie della loro località, cavalleresche e religiose, separate ma amiche. L’individualismo e l’attributo “Kosmos” che prende forma nel “cosmopolitismo poetico” dei patrioti e poeti tardo-vittoriani inglesi è fortemente basato sulla “coscienza delle proprie scelte” individuali in senso ampio; scelte estetiche, professionali, intellettuali, religiose, ma anche scelte di fare impresa da soli, ed infatti, lo stesso Morris sosteneva:

“l’individualità non deve essere sacrificata dall’uguaglianza; al contrario, privilegiamo giustamente l’uguaglianza sociale affinchè questa sia il fattore abilitante di una sana individualità”

Questo principio, a ben guardare, non è solo perfettamente in contrasto con il cosmopolitismo liberale; l’internazionalismo burocrate e parassitario fabiano; l’internazionalismo marxista, o infine, il “monadismo” panlogico hegeliano-anarchico, ma anche e soprattutto con i Neo-cosmopolitismi attuali. Per mezzo dell’antimodernismo neo-epico, medievalistico e romantico-gotico si manifesta già un rifiuto radicale all’ateismo, all’illuminismo e al positivismo, ma soprattutto, la finalità di “scelta individuale creativa abilitata dall’uguaglianza sociale” mette la funzione di uguaglianza in una posizione diversa rispetto all’uguaglianza collettivistica del marxismo.

Nel marxismo l’uguaglianza non è la base per lo sviluppo auto-determinante della coscienza di sé e della propria libertà nelle scelte, bensì un richiamo ad una condotta vincolante e rinunciataria da parte del popolo, utile a tenere sempre in vigore una sollecitazione “di responsabilità” basata sul perenne stato di allarme ed emergenza verso un potenziale sviluppo di privilegi indiscriminati, dittatura e quindi deriva e degrado autoritario. Questo comporta una grande efficacia del “centro decisionale” nel tenere il popolo annichilito e sottomesso, ma allo stesso tempo motivato a sopprimere la propria individualità per tenere sotto controllo la “potenziale emergenza dell’autoritarismo”. Nel marxismo pertanto l’uguaglianza ha una funzionalità duplice: la prima è retorica, utile a nutrire il presupposto di giustizia sociale come orizzonte ideale da presentare al popolo per giustificare il suo stato di sacrificio a “tempo indeterminato”,  annichilimento e la sua rinuncia; e la seconda è quella sociale, dove il governo centrale usa l’uguaglianza stessa come indicatore dell’individualismo, rendendo tollerabile dal popolo la malcelata tendenza al reato d’opinione. Nel momento della sua applicazione, il marxismo sicchè assume in pieno il suo reale ruolo manicheo e religioso. Kropotkin e Bakunin – tra i tanti difetti che vi riconoscevano – accusavano il marxismo di “funzionalismo” anche su questa base, in quanto l’uguaglianza non era utile allo sviluppo della coscienza di sé e della propria libertà , ma come funzione per sottomettere il “sé” alla responsabilità che deve essere in perenne emergenza e vigilanza e ciò non è diverso dal burocratismo austero e alla manipolazione odierna che si sta allontanando dalla democrazia proprio sulla base dello stimolo all’ipervigilanza e della responsabilità sul popolo verso pericoli come terrorismo, debito pubblico, immigrazione, inquinamento o pericoli di svariata natura “emergenziale”. Tutti questi elementi portano essenzialmente il popolo verso un vincolo fortemente rinunciatario che mette in pericolo la democrazia. Tale demagogia riesce a resistere grazie ad una architettura retorica moralistico-libertaria finalizzata al reato d’opinione. Capire ciò è utile per rendersi conto della natura para-religiosa e antidemocratica del marxismo che è una dottrina “futurologica”, che promette un bene futuro come orizzonte temporale ma solo successivo ad una transizione – la dittatura del proletariato – che implica sacrifici e rinunce emergenziali, con la promessa simil religiosa di un bene che sarà conquistato nel futuro che è la libertà, equiparabile alla vita eterna.

Passando invece a quanto riguarda il contrasto tra la visione di uguaglianza di Morris e i “neocosmopolitismi” attuali, questo si rivela addirittura in modo ancor più lampante. Vedere l’uguaglianza come “fattore abilitante per le proprie scelte individuali” è  ben diverso da enfatizzare la percezione delle scelte individuali per mezzo delle condizioni e delle funzionalità dell’economia finanziaria neoliberale – dove l’uguaglianza è soltanto omologazione ai consumi – e della comunicazione cognitivamente insinuante e psicologica del marketing che oggi è trasferita anche all’informazione e alla politica. Si può dire che i quotidiani, le televisioni siano molto comunicativi, ma raramente – avrete notato – sono davvero informativi. Proprio come Herbert G. Wells ha insegnato, tutto viene decontestualizzato, destoricizzato, attualizzato e caricaturizzato. La ricostruzione delle cause e la storicizzazione degli eventi è sacrificata in favore del giudizio moralistico dei fatti che tuttavia – quand’anche presentati in termini veritieri – non portano mai a giudizi equi se si abolisce il dibattito sul loro contesto. Ciò avviene al tempo stesso nella critica letteraria e nella politica che oggi si propone al popolo mediante comunicazione strategica basata sulle regole del marketing – sebbene la moneta di scambio sia il consenso – più che sulla normale e “sana” propaganda.

Constatare che si può effettivamente scegliere tra Disney, Netflix, HBO e altre cose simili; tra Ansa, Reuters, Guardian, AFP e altre decine di agenzie informative; tra una miriade di partiti di estrazione liberale; di sistemi di pagamento elettronici, istituzioni finanziarie, banche e carte di credito; numerosi marchi di centri commerciali, agenzie di volo-viaggi o di “food delivery” come Uber è senza dubbio qualcosa di decisivo per la nostra percezione di “scelta individuale creativa”, ma ciò è un inganno, in quanto porta in ogni caso ad una omologazione dei consumi dacchè non può essere vera quell’uguaglianza che mette le grandi masse in condizione di esercitare una scelta su una serie di fattori apparentemente diversificati, in realtà controllati e che vivono da una sorgente economica-ideologica unipolare e sulla quale non si può operare una rinuncia senza conseguenze dirette sulla propria quotidianità. L’uguaglianza, nell’internazionalismo attuale ha un solo significato: rendere le masse uguali…si, ma solo nel poter scegliere come restituire più indegnamente e miserevolmente possibile al proprio “padrone” i soldi guadagnati, spesso anche da sfruttati e precari. Si trova pertanto nel neocosmopolitismo moderno un meccanismo molto simile al marxismo, l’ipervigilanza emergenziale stimolata dalla comunicazione altera la percezione di scelta, il burocratismo estremo di stampo fabiano e il controllo economico vanificano le stesse scelte, l’assoluta autoreferenzialità delle opinioni e la sedicente indiscutibilità e infallibilità della dottrina comportano al fine una condotta totalmente “para-religiosa”. 

Tutto questo – ammetterete – è un qualcosa di molto diverso da ciò che diceva Morris: “Una uguaglianza che non sottomette l’individualità, ma che è anzi il fattore abilitante di partenza per svilupparla, soprattutto nelle scelte individuali” che talvolta finalizzava certamente in maniera “limitata” il concetto di ” bello” e di “scelta” alla libertà di non “vivere per lavorare” o ad un artigianato, arte, sculture, quadri, decorazioni di fattura individuale e irripetibile, ma seppur massimale è un concetto calzante e logico nello spiegare l’idea in generale. Il Neo-cosmopolitismo attuale, le cui varie tipologie sono prevalentemente anglosassoni, si basa pertanto sulle alterazioni cognitive provocate dalla comunicazione mercantilistica, dal concetto di uguaglianza prosciugato dall’omologazione ai consumi e sul richiamo alla “responsabilità” generato da pericoli o emergenze, ed infatti uno dei suoi maggiori riflessi è quello di creare spesso uno schema duplice nei concetti di “uguaglianza e inclusività”, sia utilizzando politica ed economia; sia mass-media e cultura di massa, molto spesso esprimendosi in forme retoriche che si definiscono “inclusive”, e che interessano soggetti sottoposti a vite discrepanti, sradicate, come migranti forzati e diasporici nel peggiore dei casi, o anche ricercatori, professionisti, studenti e scienziati invogliati a uscire dalla propria nazione, tuttavia quello stesso grado di inclusività non permane in ultima istanza nei loro circoli che proprio come nei pensatoi di Herbert G. Wells rimangono invece esclusivi come i vecchi Whig. Una delle massime esperte di socialismo e storia del socialismo, Ruth Ellen Kinna, affronta la cosa nella prospettiva opposta, ma non si può negare che in linea di massima la conclusione sia la stessa.

[…] Morris ha distinto decisamente il suo credo dall’anarchismo e dal marxismo in quanto era per un’individualità che richiedeva anche una concezione del bene pubblico o sociale. Con questa armonia tra individuale e sociale, Morris includeva, tra le condizioni dell’individualità, anche  la soddisfazione dei bisogni materiali. Era per l’espressione dell’individualità creativa senza essere metodologicamente individualista. Lui Pensava che solo in una società pronta all’uguaglianza gli individui potevano allora svilupparsi pienamente secondo bisogni e capacità differenti, unici e individuali. È stato molte volte sottolineato che diversamente dai Fabiani, che erano socialmente burocratici e anche convenzionali nella loro vita personale, e a differenza dei marxisti della SDF (Ndr: Federazione social democratica) sotto Hyndman, che era diretta a persone della classe operaia piuttosto vincolate, La Socialist League era composta da artigiani, artisti, poeti, operai, idealisti romantici, educatori, intellettuali patriottici, seguaci del primo Engels meno convenzionale e molto altro ancora… un gruppo insomma molto vario […]

 

La parte delicata del discorso – ora che si è appurato in cosa consisteva il “cosmopolitismo tardo-vittoriano” e le differenze con quello odierno – viene adesso. Si è detto in precedenza quindi che alla zona del pensiero di Bakunin-Kropotkin che consiste in una sorta “cosmicismo-materialista” corrisponde per William Morris a quella del “Cosmopolitismo Poetico-Romantico”, e questo contribuisce a generare un effetto in tutte le forme di socialismo con condizioni di riformismo o genericamente innovative che, come vedremo, spesso saranno tendenzialmente patriottiche e connaturate sempre ad un elemento cosmico-cosmopolitici e etnocentrico ma che per contro saranno anticolonialiste o quantomeno defocalizzate dal colonialismo.

Tenendo a mente quanto esposto sopra su William Morris, si creano le condizioni per sottolineare il suo pensiero innovativo che lo posiziona su una meridiana a sè stante del pensiero “utopistico”, lontana ovviamente dal marxismo e anche dalla sinistra in generale che anzi, lo ha accuratamente occultato. In questa riflessione, tuttavia, è giusto e non meno necessario includere di nuovo l’anarchismo e le idee di Bakunin che è stato paradigmatico nell’esprimere una preoccupazione basata sul conflitto etnocentrico tra pangermanismo e panslavismo che è conseguenza – per l’appunto – della sua lettura “proto-cosmicista”. La previsione di Bakunin scaturiva dalle sue critiche verso Marx e “i suoi apostoli“, nel quale stigmatizzava delle profonde iniquità umane unite ad un pangermanismo tendenzialmente slavofobo, condannabile sul piano politico almeno come il nazionalismo di Giuseppe Mazzini, sul quale tuttavia Bakunin indulgeva molto di più nel giudizio personale. I timori di Bakunin – assolutamente centrali nel suo pensiero diffuso – riguardo ad un conflitto “cosmico” tra Pangermanismo e Panslavismo, hanno trovato in tutta evidenza un’espansione a gittata molto più lunga delle contingenze tardo ottocentesche, che trova effettivamente espressione finale predittiva verso il nazionalsocialismo e lo stalinismo. Nel “Cosmicismo materialista” bakuniano la visione futura si è pertanto basata sul conflitto etnico, mentre nel “cosmopolitismo poetico” di Morris la previsione si è orientata sulle conseguenze del colonialismo, rendendo di fatto il suo patriottismo di stampo sassone (e quindi, pur sempre etnocentrico) più vicino ad un patriottismo folk e anche a ciò che attualmente, da qualche anno a questa parte, viene chiamato in senso ampio “sovranismo” piuttosto che al nazionalismo ideologico, ma questo si intravedeva già effettivamente durante le sue contestazioni sui vari pamphlet e sul Daily News contro Benjamin Disraeli nella circostanza dell’appoggio inglese all’Impero Ottomano in funzione anti-zarista.

Noi preferiamo dire come “masse”; quelle diseredate e declassate. Questa denominazione: “classe”,  applicata al proletariato può dare luogo a un equivoco e, essendo contraria allo spirito stesso dei nostri statuti generali, che pongono come scopo principale dell’agitazione e dell’organizzazione internazionale delle masse operaie di tutti paesi l’abolizione delle classi; cosa che il proletariato non potrebbe fare se avesse coscienza di costituire esso stesso una classe separata, e ogni classe è necessariamente separata dalle altre, allo stesso modo in cui ogni Stato politico suppone necessariamente l’esistenza di molti altri Stati: cioè la lotta per il dominio, per lo sfruttamento, la guerra perpetua per tutti, e per i vinti, la schiavitù. Ciò che si chiamano diritti delle diverse classi non sono diritti umani, ma privilegi politici, consacrati e protetti dallo Stato. Le classi sono possibili solo nello Stato, che non ha mai avuto e mai potrà avere altra missione che quella di legalizzare questi differenti privilegi che furono e sono le conseguenze sociali della vittoria o del successo ottenuto da una classe sull’altra, sempre a detrimento delle masse popolari che hanno pagato la sconfitta degli uni come il trionfo degli altri. Questa parola: classe, applicata al proletariato, è impiegata quasi esclusivamente e con singolare amore dai democratici socialisti, comunisti autoritari e pangermanisti della Germania. Troverete in quasi tutti i numeri dei loro giornali: “Volksstaat” e “Volkswille”, questa frase: “Bisogna risvegliare nel proletariato la coscienza di classe (das klassenbewusstsein)”. In fondo questi tedeschi sono molto logici. Essi non vogliono, come noi, l’abolizione dello Stato, sperano, al contrario, potersi servire della forza numerica del proletariato tedesco, politicamente organizzato, per fondare il loro grande Stato pangermanico e cosiddetto popolare. Per conseguenza, tendono con tutti gli sforzi a risvegliare, o piuttosto a suscitare artificialmente, presso gli operai della Germania, questa coscienza di classe […] In questo modo, vediamo tutti i programmi usciti dai loro congressi porre come scopo immediato dell’agitazione operaia la conquista dei diritti politici, il suffragio universale, la legislazione diretta del popolo, e in generale tutte le libertà domandate dalla democrazia borghese, la qual cosa ha per inevitabile conseguenza di mettere il movimento popolare a rimorchio e sotto la direzione immediata di questa democrazia. È il caso di dirla chiara? Essi fanno senza saperlo e senza volerlo gli interessi di Bismarck. È evidente che con questo mezzo di agitazione esclusivamente politico, che hanno imposto al proletariato della Germania, non conquisteranno mai le libertà politiche per il popolo; ma è evidente anche che con questo stesso mezzo essi aiutano meravigliosamente il grande ministro pangermanista di concentrazione interna e di estensione esterna dell’Impero. Essi sono i pionieri, i preparatori pacifici delle sue future conquiste.[11]
Marx, cosa singolare in un uomo così intelligente […] che non può spiegarsi che per la sua educazione di sapiente […] e soprattutto per la sua natura nervosa di ebreo, è eccessivamente vanitoso, ma vanitoso fino allo schifo e alla follia. Quando qualcuno ha avuto la disgrazia di urtare il più innocentemente possibile questa vanità, sempre suscettibile e sempre irritata, ne diviene nemico irriconciliabile, allora egli si crede permessi tutti i mezzi e li usa nel modo più vergognoso e più illecito per perderlo agli occhi dell’opinione pubblica. Mente, inventa, si sforza di mettere in giro le calunnie più sporche contro di esso. Sotto questo profilo, Mazzini ha dunque avuto ragione quando ha parlato del suo carattere detestabile […] [12]
[…] Il fatto è che Mazzini e Marx, così differenti sotto tutti gli altri rapporti – e questa differenza non è sempre a svantaggio di Marx – sono spinti da una stessa passione: l’ambizione politica, religiosa per l’uno, scientifica e dottrinaria per l’altro, il bisogno di governare, di educare e di organizzare le masse alla loro idea. In Mazzini, il cui alto disinteresse personale, la purezza e l’elevatezza d’animo sono conosciuti, c’è il bisogno di veder trionfare le sue idee, il suo partito, i suoi apostoli, in Marx, i cui istinti sono molto meno disinteressati di quelli di Mazzini, c’è il desiderio appassionato di vedere trionfare le sue idee, il proletariato, e col proletariato, se stesso. L’ambizione è dunque più alta e soprattutto più disinteressata nell’uno e più personale nell’altro, ma nell’uno, come nell’altro porta agli stessi intrighi. Il male sta nella ricerca del potere, nell’amore del governo, nella sete di autorità. E Marx è profondamente colpito da questo male. [13]

Ciò che tuttavia risulta imprevisto ad una naturale deduzione è che il Bakunin, pur denunciando quella che lui riteneva essere una slavofobia pangermanista  nel marxismo e nella mentalità tedesca in generale sembra in ultima istanza condannare il panslavismo stesso, arrivando addirittura alla conclusione che l’abolizione dello stato è il mezzo per mettere fine ad un ineluttabile scontro di blocchi che egli – in tutta evidenza – ritiene embrionale nel presente e poderosamente dominante nel futuro, sicchè il suo anarchismo stesso è in funzione etnocentrica poichè non bisogna dimenticare che Bakunin, seppur si rivolga al presente, esprima una lettura dall’interpretazione futurologica. 

Temo che se il socialismo vincerà, lo farà in una forma che non ci piacerà [14]
“..La nostra civiltà tre volte maledetta desidera ardentemente conquistare nuovi mercati e produttori di materia così che le manifatture “civilizzate” siano forzate su di loro. Tutte le guerre intraprese ora, con il pretesto di “missioni civilizzatrici” sono guerre da Imperialismo Vampiro e Colonialismo, premi da riportare al grande mercato mondiale…(William Morris, tratto da “Facing the Worst of It” pubblicato dalla rivista “Socialism”)
“Il Colonialismo Africano porterà ad una depressione e ad una grande guerra europea e dopo di essa, uno stato di guerra che non finirà mai” [15] (William Morris, 1887)

 

Come si è descritto sopra, è effettivamente incontestabile l’argomento riguardante Himmler, il Progetto Lebensborn e Aktion T4, allo stesso modo è doveroso anche considerare il tradimento dello stesso Himmler; e così l’argomento su Hitler nelle inerenze del darwinismo. Un tipo di discorso nella stessa direzione riguarda anche lo stalinismo del quale – anche da par suo – non siamo qui certo a discuterne i difetti, ma la politica di Stalin può esser vista da più di una angolazione. Appare chiaro che inserire Stalin in un contesto genericamente innovativo o riformista potrebbe sembrare in apparenza assurdo, e non si nega certo che un’obiezione del genere non abbia le sue ragioni. Stalin ha chiarito fin troppo bene attraverso una critica precisa, anche se focalizzata sugli individui e non propriamente organica, che la sua materia era del tutto estranea e dissociata dagli anarchici. Si può pertanto – almeno in significativa parte – ritenere giusta la visione più diffusa di Stalin e vederlo effettivamente come una naturale prosecuzione di Lenin con variazioni del tutto inerenti alle strette contingenze. In verità, questa appare una disimpegnata semplificazione, ma d’altronde una delle più grandi abilità dell’intellettuale comunista, al pari “dell’anticonformista wellsiano” è quello di banalizzare e rendere caricaturali gli argomenti storici e culturali, dando a quest’ultimi uno spessore dottrinario e mai realmente analitico. Si potrebbe dire che Lenin abbia sinceramente e genuinamente tentato di aderire alla “proceduralità” dottrinaria marxista pensando realmente di attraversare le sue fasi ovvero, quella rivoluzionaria, la dittatura del proletariato che  dovrà poi condurre “il mondo” al compimento definitivo del programma marxista. Con altrettanta sincerità Lenin, nell’affrontare le drammatiche condizioni economiche ha messo in discussione la dottrina con la Novaja Ėkonomičeskaja Politika che per quanto inquadrabile come “soluzione temporale e contingente” nessuno potrà mai affermare che questa non avrebbe potuto portare ad un’economia mista con l’evolversi dei tempi. In fin dei conti la NEP, è stata una soluzione di economia mista che combinava statalismo e capitalismo e non è stata una decisione del “Lenin marxista”, bensì genericamente e compiutamente del “Lenin a capo di un popolo” a prescindere dalla sua dottrina, rappresentando sicchè la sua ammissione di un’esigenza di riformare la dottrina stessa. Bisogna inoltre considerare che, seppur vero che Lenin è stato anti-pluralista, oppositore della libertà dialettica e promotore del grande monopartito unico ed egemone come strumento di potere e controllo delle masse, egli vedeva cionondimeno quest’ultimo come soluzione temporale da portare avanti con il “comunismo rivoluzionario” e non come risoluzione definitiva. Esso serviva per accedere alla fioritura definitiva della dottrina marxista, pertanto egli non considerava il dispotismo bolscevico come uno stato cristallizzato e definitivo del purismo socialista, ma solo un elemento transitorio. Nello stalinismo, a ben guardare, si ha un discorso totalmente in “antitesi speculare”. Stalin ha quindi rappresentato in parte una prosecuzione di Lenin nel dispotismo del mono-partito, nella soppressione del cristianesimo, nella negazione della libertà di parola e nel grande “culto della personalità”, ma al leader georgiano può essere riconosciuto il merito – nel bene e nel male – di aver cercato di trasformare la dottrina marxista in una applicazione politica vera e propria, poichè nell’azione di Stalin non esiste in realtà l’esigenza di una transizione temporale sulla strada “procedurale e profetica” del marxismo, bensì una applicazione definitiva della sua politica per mezzo dell’attuazione dei suoi meccanismi burocratici, questo, nonostante tutto rende Stalin metodologicamente più simile a Bakunin-Kropotkin che erano contrari alla transizione della “dittatura del proletariato” che non Lenin e Marx, ma al medesimo tempo opposto allo stesso Bakunin in quanto accentratore definitivo del potere e il risultato è piuttosto lampante: una gestione politica “paranoide e in perenne emergenza e iper-vigilanza” del tutto simile al terrore di Robespierre. In tutto questo però vi sono due sensibili fattori, il primo è che Stalin produce la sua diversità anche sulla base della mancanza di un “reset globale” socialista in Europa e sul fatto che, a causa dell’esigenza di applicare la logica del “socialismo in un solo paese” egli abbia favorito il suo “contraccolpo di rientro” patriottico e nazionalista, con un principio etnocentrico panslavista protagonista che lo pone parte in causa alle “letture cosmiche” di Bakunin. Nonostante Stalin – come detto – si sia dissociato con decisione incontestabile dall’anarchismo di stampo bakuniano, egli stesso diventa oggetto e protagonista della lettura futurologica etnocentrica e “cosmica” di Bakunin e Kropotkin. La seconda anomalia è che Stalin, durante la “Grande Guerra Patriottica” abbandonò del tutto la retorica sovietica e comunista, abbracciando quella russa non esclusa quella cristiana, ed infatti la sua azione stragista ed estirpatoria contro i cristiani – secondo molti – ebbe una decrescita sino addirittura a digradare al quieto vivere. Inoltre, mentre gli studiosi e promotori dell’Eugenetica come Yuri Filipchenko e Nikolaj Kotsov ebbero successo sotto la guida di Lenin, furono invece annientati da Stalin che addirittura abbracciò il lamarkismo in funzione anti-darwinista per mezzo di Trofim Lysenko. Stalin incamera quindi l’elemento cosmico-etnocentrico, che si esprime – secondo le sue logiche- in chiave anti-britannica e anti-imperialista, ma è bene riprendere dopo il discorso, secondo le inerenze delle pubblicazioni di Wells , una insieme allo stesso Stalin, Marxism vs Liberalism (H.G. Wells & Stalin, 1933) che ha senza dubbio influenzato molto il romanzo Shape of Things to Come (Wells, 1934). Per ora potremmo limitarci ad aggiungere che sarebbe inutile negare che l’intervista/Saggio dedicata a Stalin e il romanzo distopico dell’anno successivo siano due pubblicazioni estremamente collegate e comunicanti, in cui reclama una significativa parte di protagonismo la politica – soprattutto economica – di Franklin Delano Roosevelt sul quale Wells sembrerebbe in apparenza esprimersi ambiguamente, soprattutto nei toni dell’intervista a Stalin.

Se questo tipo di analisi sono possibili già da Lenin e Stalin, i toni del discorso crescono dove lo slancio genericamente innovatore e più precisamente riformista prende forma al di fuori dei “fedeli” applicatori del marxismo. E’ stato certamente sempre dovuto alle contingenze storiche, ad esempio, anche il panafricanismo di Thomas Sankara, che segue la stessa logica di “contraccolpo patriottico e identitario-etnocentrico” utile a contrastare i sistemi coloniali e neocoloniali occidentali e in particolare anglosassoni, contando che tuttavia Sankara, nonostante l’innegabile influenza di Castro e Rawlings; nonchè la parziale influenza iconografica del Guevara, è stato sempre fedele al cattolicesimo romano e ha sempre disprezzato il “culto della personalità” innegabilmente presente in tutti gli applicatori del marxismo. Su tutto il principio di variazione, innovazione e riformismo del socialismo appare sempre una risposta derivativa dal senso di “Kosmos”, ovvero cosmica o cosmpolitistica che vive in apparente contraddizione con gli stimoli etnocentrici, patriottici o quantomeno identitari, ma questi due fattori in realtà sono reciprocamente stimolanti e complementari ed è stato essenzialmente William Morris a produrre questo insegnamento oggi inascoltato.

I poeti tardo-vittoriani nel contesto epico-romantico e del Gothic Revival, hanno trasmesso il loro cosmopolitismo poetico espresso anche nell’utopismo, che ha avuto un rigetto di sfiducia verso l’imperialismo e il colonialismo, funzionale a forgiare un concetto di uguaglianza che non prevaricasse lo sviluppo dell’individualità e delle scelte individuali “estetico-creative” quotidiane da assumere in libertà, ma che assumesse al contrario il ruolo abilitante come base di partenza per quest’ultima. Eppure non è escluso da tutto ciò il rientro antimodernista, isolazionista, identitario ed etnocentrico. L’ipotetico autonomismo rappresentato in forma monarchica in La Fonte ai Confini del Mondo, e l’ipotetico federalismo utopista in Notizie da Nessun Luogo richiamano sensibilmente un etnocentrismo sassone. Sebbene l’etnocentrismo, in William Morris, sia molto più elusivo e latente rispetto agli esempi che stiamo portando come quello di Bakunin, perfino in House of the Wolfings, dove di certo è presente il germanismo norreno, si trova una rappresentazione di una società suddivisa in “Houses“, gestite da leader che vengono chiamati “Warduke“, ma quest’ultimi, più che ricordare gli Hersir e gli Jarl vichinghi, richiamano di gran lunga di più gli Huskarl sassoni “protettori della casa”. D’altro canto anche l’interessantissimo intellettuale dal forte accento patriottico Robert Blatchford, brillante giornalista  influenzato da Morris, membro della Art and Crafts e della Lega Socialista, nonchè strenue oppositore dell’eugenetica, ha affermato che il suo socialismo non derivava da Marx, ma era “nativo dell’Inghilterra” e da ricercare nelle rivolte di John Ball, che William Morris aveva non a caso riproposto in forma di romanzo, per la precisione Un Sogno di John Ball del 1888. Il romanzo fantastico di Morris fu pubblicato un anno prima di Un Americano alla Corte di Re Artù di Mark Twain che ne riprende il tropo del viaggio nel tempo a ritroso sino all’epoca medievale, mostrandosi tuttavia antitetico nella raffigurazione del medioevo. I toni poetici e lirici del Morris sono all’opposto di quelli disillusi e ironici, utili a raffigurare un medioevo barbaro dalla visione illuministica per Mark Twain. Il romanzo di John Ball si accorda bene con le idee e le suggestioni espresse In Merrie England da Thomas Blatchford che sostiene addirittura che le vecchie ballate di Robin Hood come quella di William Langland corrispondono per i sassoni alla “propria saga arturiana”.

Blatchford è un personaggio che rappresenta piuttosto bene il patriottismo acceso che la Lega Socialista e la Art and Crafts erano in grado di ospitare senza tuttavia entrare in conflitto con il cosmopolitismo poetico che differenzia il suo riflesso del “cosmicismo materialista” di Bakunin, che si proietta – come abbiamo abbondantemente detto – anche sul panslavismo in antitesi al pangermanismo. Entrambi tuttavia sono esplicativi nell’esprimere Il bilanciamento tra “individualità-Kosmos” e “Identità-Etnocentrismo” sicchè considerabili come la reazione alla nuova veste che l’Inghilterra aveva scelto per l’egemonia globale da sostituire a quella vecchia dell’imperialismo, ed è quella del cosmopolitismo neoliberale internazionalista, darwinista ed eugenetico, contraddistinto dall’esigenza di un controllo globale accompagnato dal suo volume retorico progressista inclinato a riplasmare la popolazione mondiale in termini “selettivi” secondo concetti che formarono una religione scientista, e una mentalità scientocratica per naturale conseguenza. Questa mentalità era principalmente instillata dalla sinistra socialista scientifica britannica dell’area marxista e fabiana, che ha brillantemente preceduto Himmler battendolo di gran lunga in esperienza. Alcuni nomi sono stati già citati e relativamente approfonditi, come Hubert Bland, Sidney Webb, Beatrice Webb (fondatori della Fabian Society e così di vari club e istituzioni) Annie Beasant (Occutista ed esoterista legata ai fabiani e al partito laburista), Charlie Bradlaugh (Parlamentare dei liberali, fondatore della National Secular League e della Lega Malthusiana), George Bernard Shaw (Scrittore e socialista fabiano), Edward Aveling (amante di Eleonor Marx, membro dei Socialdemocratici, della Lega Socialista e infine del Partito Laburista Indipendente), Marie Stropes (Paleontologa, femminista e accesa promotrice dell’eugenetica), Havelock Ellis (Medico e riformatore sociale progressista), Herbert G. Wells (scrittore, socialista e fabiano), Thomas Huxley (Filosofo, Biologo e fondatore della Royal Society), John Burdon Sanderson Haldane (genetista e marxista irriducibile) e perfino uno degli idoli e pilastri assoluti del “sovranismo”, compreso quello italiano: il controverso John Maynard Keynes. Si potrebbe proseguire all’infinito la lista di importanti uomini di sinistra che hanno accettato di buon grado l’eugenetica, arrivando a fare testa coda anche verso la destra in soggetti come John Amery o Lord Alfred Milner.  A questi nomi corrispondono i loro innumerevoli Think Thanks “contro-elitari” e comunicanti tra loro di cui abbiamo parlato, e in seguito Julian HuxleyAldous Huxley hanno mantenuto viva la fiamma di una torcia che – in fin dei conti – era stata accesa dal loro nonno.

Per tornare tuttavia all’esempio di Thomas Sankara, senza purtroppo poter citare il vastissimo elenco di risultati incredibili che ha ottenuto con le sue riforme, tutte chirurgicamente smantellate da Blaise Compaorè una volta che Sankara stesso fu assassinato, è abbastanza facile notare le sue manovre sulle piccole attività produttive nelle riforme Touf-Touf che privilegiavano l’artigianato alle macchine di produzione. É praticamente impossibile che non tornino in mente le posizioni riguardanti le macchine di lavorazione che William Morris espresse anche nella recensione scritta sul The Commonweal nel parlare delle idee nel romanzo utopico-fantascientifico di Edward Bellamy. Anche in Sankara come si è ben visto appaiono tutti i connotati di questa linea, ma oltre alla sua visione ammirevolmente patriottica, la sua rivalutazione dell’artigianato e dei piccoli centri produttivi, la posizione identitaria ed etnocentrica panafricanista, Sankara aveva un progetto di alto profilo sia verso l’impresa privata che nello sguardo internazionale sempre controllato, affinché non si imponesse sulla sovranità popolare. fu addirittura aperto a investitori stranieri svizzeri o in generale occidentali che manifestarono l’intenzione di associarsi sia con i privati o il governo Burkinabe. Lo sguardo internazionale in piena coesistenza con un patriottismo etnocentrico rende la visione “riformista-rivoluzionaria” di Sankara tra le meno dottrinarie e le più lucide e popolari mai avvenute.

Non è un caso che la combinazione di “interesse nazionale con sguardo internazionale” ricordi anche un riformista per eccellenza come Bettino Craxi che ha innegabilmente influenzato Tony Blair, ed espresso anzitempo risposte verso il degrado della globalizzazione quando la società non era pronta ancora neanche alle domande stesse su di essa. La cosa va ben oltre il suo slancio riformista; la sua rottura con il marxismo-leninismo, o la sua radicazione ad alcuni concetti di Proudhon, poichè riguarda una visione internazionale di certo improntata verso zone che rientrano nella tradizione delle relazioni italiane come la Libia,  ma non meno altre come il Medio Oriente, i Balcani occidentali, e l’area Sub-Sahariana. Questa condotta, dalla quale non si possono certo escludere gli immensi meriti dell’allora ministro De Michelis, consisteva, tra le altre cose, nella ricerca di un dialogo con il mondo arabo, ma anche ad una tendenza di fondo che vedeva un meritorio slancio dell’approccio agli esteri italiano sempre presente, basti vedere le relazioni con Ungheria, ex Jugoslavia e Austria nella Quadrangolare. Quella di Craxi è stata una visione che va ben oltre alla creazione di un liberal-socialismo innovativo, di un “sovranismo” e di un riformismo che rompe con il marxismo per mezzo di riflessioni sul vecchio socialismo utopico-libertario, in quanto essa ha raggiunto l’interpretazione dello spirito di un popolo per adattarsi a ciò che derivava dalla caduta del Muro di Berlino, anticipandone i pericoli mortali per condurre una nazione ad essere una potenza regionale, e certamente i suoi progetti di relazione con il mondo arabo non escludono affatto intuizioni che Benito Mussolini aveva già avuto, e riflessioni che Silvio Berlusconi, pur in formato ridimensionato, cercherà di proseguire dopo, soprattutto con la Libia. Sia Sankara che Craxi, con sguardo odierno, – tutto considerato, compresi i difetti – sono stati essenzialmente dei leader incriticabili, eppure per il primo, che fu assassinato, Amnesty International, Oxfam, OCSE, Freedom House, ebbero in serbo una campagna diffamatoria ritenendolo un pericolo per i diritti umani, comportando il ritorno del Burkina Faso alla povertà e al degrado dopo che Blaise Campaorè smantellò ogni sua singola riforma; per il secondo, “l’emergenza corruzione” di Tangentopoli suggerita dai media stranieri e accolta da quelli interni, favorita dai comunisti italiani che ancora insultano Craxi nella tomba,  nonchè ,di concerto, l’azione decisiva della magistratura, ha condannato l’italia alla progressiva irrilevanza internazionale dalle sue aree d’influenza, e la sua conseguente sostituzione dalle altre potenze neocoloniali occidentali nelle suddette aree, o da stati come ad esempio la Turchia avvezzi ad usare i flussi migratori come arma di destabilizzazione e ricatto. L’immigrazione trasformata ad “emergenza a tempo inderminato” è un fenomeno non estraneo all’eugenetica e all’ingegneria sociale, ed è parte di una visione cosmopolita post-moderna e discrepante, insinuata al basso tramite l’emergenza umanitaria di immigrati diasporici per cause principalmente di interesse politico-militare, e dall’alto per mezzo del cosmopolitismo di alto profilo accademico e scientifico. Si può dire che Thomas Sankara, vittima della cospirazione mortale di Francia, Stati Uniti, Liberia e i movimenti vari che trovavano raccordo in Blaise Campaorè ha fortunatamente avuto una rivalutazione. Anche per Craxi sono iniziate a circolare alcune voci che revisionano la sua immagine infangata soprattutto per pubblicizzare qualche trasmissione, documentario, o in futuro magari un film – giusto per tirare ad indovinare – eppure il popolo non percepisce questi fatti come gravi crimini e l’informazione rimane piuttosto carente e “wellsianamente stilizzata” come d’altronde è avvenuto per Ernesto “Che” Guevara e molti altri soggetti, che rappresenta probabilmente un caso del tutto a sé stante.

Sappiamo bene che la figura, ad esempio di Ernesto “Che” Guevara è sempre stata molto amata sia da tutta la platea della sinistra globale che da quella parte di pubblico generalista senza particolari o consapevoli preoccupazioni sociali. Sul secondo caso non è necessario soffermarsi, in quanto la T-Shirt, la tazza o un poster di Ernesto Guevara rappresenta un qualcosa di “identificante e proponibile” nelle interazioni sociali di qualsiasi tipo, che sia una festa con gli amici sino ad un concerto o un evento politico, e la sua natura diventa simile pertanto ad una maglietta di Jim Morrison o Bob Marley, ad una serigrafia di Andy Warhol o ad una T-Shirt di qualsiasi band o personaggio del cinema. Il primo caso invece è più complesso in quanto è perfettamente plausibile che la “platea di sinistra” più consapevole, sia riluttante ad escludere dalla propria retorica e dal proprio “immaginario da comunista” quella risonanza romantica e drammatica di un rivoluzionario vittorioso, impegnato in più di una “Foreign War” e infine morto in nome della libertà combattendo eroicamente il fascismo boliviano dopo aver affrontato quello congolese. Ciò però non cambia il fatto che Ernesto Guevara c’entri assai poco con tutti i più fedeli applicatori del marxismo, rappresentando qualcosa di assolutamente diverso, talvolta addirittura antitetico, sia da un punto di vista della visione politico-economica che perfino nella dimensione culturale-individuale. Non si può negare tuttavia che all’interno dell’universo marxista esistano dei soggetti che hanno fatto ben più che una presa di coscienza della questione, per alcuni anzi la cosa appare addirittura un’ovvietà:

Per noi marxisti-leninisti è chiaro come il sole che il pensiero, l’opera, la vita e la figura di Ernesto Guevara, detto “il Che”, non hanno nulla a che spartire col marxismo-leninismo-pensiero di Mao, con la rivoluzione socialista e col socialismo. Non è così per tanti giovani che ancora adesso scendono in piazza sotto la bandiera del guerrigliero argentino e indossano con orgoglio le magliette con sopra stampata la sua effige. Per essi Guevara è un modello di rivoluzionario, l’esempio da imitare e da seguire. In ciò favoriti e incoraggiati dal PRC e dai gruppi trotzkisti che hanno tutto l’interesse politico a deviare le nuove generazioni di rivoluzionari dalla via maestra dell’Ottobre. è necessario, perciò, da parte nostra dire fino in fondo ciò che pensiamo di Guevara, sollecitati in tal senso anche da alcuni giovani comunisti del PRC, per aiutare i giovani autenticamente rivoluzionari a farsi un’idea corretta e di classe di Guevara per non sprecare le loro fresche e importanti energie dietro insegne che non portano alla rivoluzione socialista e al socialismo, e che la pratica ha dimostrato essere simboli dell’individualismo, dell’avventurismo e del trotzkismo. Rispetto a Guevara, come del resto a qualsiasi personaggio storico, bisogna avere un atteggiamento scientifico e materialistico, non inficiato da idealismo e misticismo, men che mai da sentimentalismo vissuto come “passione durevole”, secondo una parola d’ordine del PRC. Bisogna sempre analizzare la realtà con una visione di classe, attenersi ai fatti, fare un bilancio critico e autocritico dell’operato confrontandolo con l’esperienza storica e rivoluzionaria del movimento operaio internazionale e tenendo presente gli insegnamenti del marxismo-leninismo-pensiero di Mao. Noi siamo d’accordo con Mao quando afferma che 
“noi non crediamo a niente altro se non alla scienza, ciò significa che non bisogna avere miti. Sia per i cinesi che per gli stranieri, si tratta di vivi o morti, ciò che è giusto è giusto, ciò che è sbagliato è sbagliato, altrimenti si ha il mito. Bisogna liquidare i miti”
Usando questa chiave materialistica e di classe, poniamoci allora alcune domande su Guevara, senza farci condizionare dalla sua immagine fisica  […] non a caso tanto pubblicizzate dai trotzkisti e dai neorevisionisti per colpire l’immaginazione e i sentimenti dei giovani rivoluzionari in modo da far passare in secondo piano le questioni politiche ed ideologiche. (Di Giovanni Scuderi, Presidente del Partito Marxista-Leninista Italiano, tratto da Il Bolscevicho, n° 36 ottobre 1995)

Che piaccia o no la lettura puristica e organica del pensiero marxista, l’analisi espressa sopra appare intellettualmente onesta e piuttosto impeccabile. Per un pensatore marxista, è naturale estromettere il guevarismo dal socialismo essenzialmente attraverso una chiave di lettura anti-trotzkista , ma non si può non riconoscere che il Guevara abbia sempre avuto una sua costruzione individualistica completamente addossata “all’io” e non finalizzata ad una lettura dell’individualità in chiave sociale, come termine ordinante del concetto di uguaglianza che è stato un dispositivo in differenti forme per Bakunin, Kropotkin o Morris, o anche, nel caso della destra, di un individualismo titanico come per il Fascismo e il Nazionalsocialismo che tuttavia era funzionale anche all’esaltazione della retorica dello stato e dell’etnia. Questi bilanciamenti alla base sia del socialismo che della destra sociale sono del tutto estranei al pensiero e alla figura generale di Ernesto Guevara. Se utilizzassimo le chiavi filologiche – fin troppo autoreferenziali – delle ideologie comuniste diremmo semplicemente che Guevara è rimasto nella sua dimensione anarcoide, individualista, trotzkista e borghese, risconoscendo i suoi “fallimenti” in Congo e Bolivia per aver anteposto “le sue verità” – come egli stesso amava dire – e la “Guerriglia” ad una rivoluzione proletaria programmata. Questa sentenza andrebbe più o meno bene a qualsiasi comunista. Ma anche volendo totalmente disinteressarsi dagli argomenti auto-riflessi, e autoreferenziali del marxismo non si potrebbe negare comunque che il guerrigliero argentino abbia in realtà abbracciato Josè Martì come suo “nume tutelare” e riferimento personale, rimanendo altresì sempre piuttosto avaro verso il “pantheon” composto da Marx, Lenin, Mao e simili, se non in qualche rara e pleonastica esternazione. Guevara sembra in realtà condizionato da un cosmopolitismo para-religioso e samaritanista evocativo di pretese simili a quelle di Gandhi o Madre Teresa, che tuttavia evolve in un avventurismo romantico animato da uno stoicismo fatalista garibaldino, cosa del tutto estranea alla logica del programma rivoluzionario del marxismo-leninismo. Tutto ciò che anima le sue azioni sembra del tutto estraneo non solo al mondo del socialismo scientifico e dell’area più stretta del marxismo, ma anche a qualsiasi identità politica. Guevara inizierà ad avere preferenze programmatiche dopo la sua visita in Jugoslavia e dopo aver approfondito il socialismo revisionista di Tito, che, ammetterete, non è esattamente l’idolo del marxista fedele.

Cercare di seguire una linea di personalità significative nel campo dell’innovazione e del riformismo nel socialismo o nella destra sociale può portare tuttavia – come si è visto – a digressioni troppo impegnative, è bene quindi tornare al punto in cui si era arrivati e considerare che il peso di William Morris su tutto ciò che è innovativo e riformista è stato – tutto considerato – enorme e simile a quello di Bakunin, poichè la sua focalizzazione sul concetto di “uguaglianza” e “scelta individuale” obbliga il socialismo a riflettere sulla propria “genetica” ideologica. Una seconda osservazione è notare che l’equilibrio tra l’elemento cosmico e quello etnocentrico è l’incarnazione di una reazione all’eugenetica e al tentativo di plasmare un principio di “popolazione globale” da parte delle elìte anglosassoni atee progressiste e libertarie.

Se si rinuncia al sempre comodo rifugio del falso anticonformismo, dell’ipocrisia e dell’oscurantismo, cose che appartengono all’intellettuale e “l’artista” odierno; e tenendo a mente tutto ciò che si è detto su Himmler, pur ovviamente condannabile per molte ragioni, e pur ritenendo incontestabile il fatto che il nazismo abbia effettivamente incluso l’eugenetica nei suoi programmi,  il nazionalsocialismo di Hitler è una destra sociale, sicchè un socialismo di estrema destra fortemente influenzato dal militarismo di stampo prussiano, e focalizzato sull’identità pangermanista e patriottica. Sarebbe ovviamente irrazionale non sottolineare la sua incontestabile radice etnocentrica, ma è essenziale distinguere un’ideologia che intende conservare il sangue germanico da quella che invece adotta metodi di selezione usati per piante e animali sull’uomo; che inventa di sana pianta etnie per fini di controllo sociale, al fine di miglioramento della razza umana intesa come “gregge globale”, e che cerca in tutti i modi di alimentare e mantenere vivo il colonialismo usando talvolta i flussi migratori come arma e “cuneo geopolitico”. Non essendo un regime focalizzato sul colonialismo, il Nazionalsocialismo non ha avuto una genesi ideologica rapportata realmente con l’eugenetica e neanche con il “darwinismo religioso” galtoniano-huxleyano-wellsiano, come effettivamente non vi è il bisogno di farlo nel panslavismo stalinista dove addirittura non vi sono – almeno in questo campo – neanche le condannabili ambiguità del nazismo, dato che, come si è visto, lo stalinismo si è opposto direttamente al darwinismo con il lamarkismo. La tradizione revanscista hitleriana e l’arianesimo era rivolta ad aumentare una “massa critica” tedesca in stati che il Fuhrer riteneva “teutonici” e per quanto egli abbia ovviamente preso spunto dal fascismo mussoliniano si scorge nel suo pensiero pangermanista una radice simile al socialismo britannico concepito da Blatchford; un patriottismo socialista ed etnocentrico, che prende le distanze dal patriottismo dinastico asburgico-viennese e si posiziona e si esprime da una idealizzazione “spartana”, Volkgeist e “folk” del movimento Volkish, per poi diramarsi in una sintesi che scaturisce tra una sorta di variante non monarchica del nazionalismo cavalleresco romantico del tutto reminiscente a Lord Alfred Tennyson; e dall’altra parte, una specie di variante del socialismo religioso di Frederik Denison; anche se più neopagano che cristiano, e con il sensibile tratto del militarismo prussiano e dell’esaltazione burocratica – che lo si ammetta o no -di stampo puramente socialista in aggiunta. Dei sentori che si sono evidenziati anche prima. Sarebbe ovviamente assurdo negare che Hitler abbia avuto posizioni del tutto anticlericali, ma si è altresì scagliato a ben vedere anche contro l’ateismo. Occorre inoltre far presente che Hitler pretese terre sottratte a minoranze tedesche – come ad esempio il Corridoio di Danzica – e auspicava una soluzione diplomatica a lui favorevole dopo l’occupazione della Polonia. Ma per l’inghilterra, tuttavia, era troppo importante e irrinunciabile la guerra, anche perchè la Germania nazionalsocialista aveva stipulato un commercio indipendente con Argentina e Venezuela, sfuggente, autonomo e contrastante per gli interessi della finanza globale della City of London, di Wall Street o delle Banche Svizzere. Assolutamente incontestabile e comprovato è che la Banca d’Inghilterra finanziò il nazismo acquistando il suo oro rubato, e non meno fecero le banche svizzere che acquistarono i lingotti d’oro che i nazisti saccheggiarono agli “amici francesi” , come ammettono d’altronde gli stessi svizzeri della Commissione Bergier. Ma pur ammettendo come vero, il fatto che la Germania Nazista non sia realmente peggiore dei “diversamente nazisti” anglo-americani, occorrerebbe precisare due cose non da poco che devono essere aggiunte ai discorsi precedenti sulle circostanze della morte di Himmler: Anche membri dell’elite americana stessa – oltre a svizzeri e inglesi – furono finanziatori del nazismo, e Prescott Bush,  padre e nonno dei due Bush più famosi che furono entrambi presidenti, fu processato e condannato per tradimento per questa ragione, sotto l’amministrazione Roosevelt ai sensi del Trading with Enemy Act, avendo finanziato i nazisti e quindi il nemico dello stato. Non meno, occorrerebbe far presente, che Allen Dulles, fondatore della CIA, salvò un gran numero di nazisti nell’Operazione Graffetta, portandoli negli Stati Uniti, trattandoli in guanti bianchi e mettendoli a capo di progetti come quello per la Bomba Atomica e in tutta evidenza anche nelle intelligence militari, dal momento che furono sfruttati i quadri della Gestapo per le future strategie contro l’Unione Sovietica nella Guerra Fredda, e non c’era di meglio che i Nazisti per applicarli. Oppure, si potrebbe scorciare tutto il discorso semplicemente ammettendo che forse una parte del nazismo era già fedele a Londra sin dal principio, e che una competizione, se non una rivalità tendente all’odio tra Francia e Germania è sempre stata piuttosto vantaggiosa per Londra, così come lo poteva essere un polo tedesco in funzione anti-sovietica; e che il dilagare indipendente e autonomo dell’azione di Hitler fu una questione sfuggita di mano ai “gestori anglosassoni”. Come abbiamo visto, Hitler non si è realmente espresso in termini positivi sul darwinismo e l’eugenetica, l’arianismo nazionalsocialista più che essere in funzione di un suprematismo globale o di una razza, che in termini huxleiani potremmo definire “Alpha superiore”, è stato totalmente in funzione pangermanistica , sicchè tutt’altro che post-moderna o darwinista, ma più atavicamente verso un “protezionismo antroplotico”, etnocentrico e valoriale, e da questo deriva certamente anche la sua visione sul colonialismo ben lungi dall’essere vicina a quella guglielmina del Secondo Reich.

Lo stato tedesco non ha alcun diritto di cimentarsi in una politica coloniale, ma piuttosto dovrebbe riunire i suoi figli, tedeschi e austriaci in uno stato comune […] Non siamo noi uguali a tutti gli altri tedeschi? non abbiamo tutti un’unica appartenenza?… (Adolf Hitler, Mein Kempf)

 

 

Quasi tutte le fonti confermano che il precedentemente citato Robert Blatchford sia stato uno strenue oppositore dell’Eugenetica, nonchè giornalista e nazionalista patriottico di infiammate convinzioni. Come accennato, Blatchford proveniva proprio dalla Art and Crafts e dalla Socialist League di William Morris, condivideva con quest’ultimo molte convinzioni di carattere patriottico e conservatore (in senso generale del termine), tuttavia – contrariamente a morris – egli era piuttosto incline al materialismo ateo. Il “Clarion-man” era inoltre molto stimato dal grande scrittore e pensatore cattolico G.K. Chesterton, legato a lui da una bizzosa e litigiosa – ma tuttavia sincera – amicizia che spesso convogliava alle disfide scritte a colpi di articoli e invettive, talvolta divertenti e scherzose, altre volte piccate e impermalosite, come la nota Blatchford Controversy, svoltasi tra le pagine del The Clarion e il Daily News; ovvero giornali dove rispettivamente scrivevano i due intellettuali. Tutti noi conosciamo molto bene Chesterton – ben noto anche nell’ambito pop – come scrittore dei gialli di Padre Brown e appassionato saggista e biografo di Charles Dickens, ma molti non danno importanza al fatto che era conservatore con una base iniziale socialista come Blatchford, ma differente poi nello sviluppare una sua idea politica ed economica sideralmente distante dal socialismo,  ma soprattutto nell’essere profondamente e irriducibilmente cristiano e fu anche lui una voce di grande forza contro lo scientismo , l’eugenetica e il “darwininismo religioso”, basti vedere, tra le tante cose, la pubblicazione Eugenetica e altri malanni. William Morris, dal canto suo, è stato precursore incontestabile di questa battaglia condotta dai due summenzionati, verso la quale il marxismo forniva per ovvie ragioni ben poco aiuto. Tutt’altro, esso appariva – come è naturale che sia – piuttosto incline allo scientismo. In fondo – come si è già considerato – è Marx stesso a discriminare in maniera paradigmatica il socialismo scientifico da quello utopico, escludendo tutti eccetto quello americano di Edward Bellamy, iperstatalista e urbanizzato, totalmente ateo, internazionalista, del tutto privo del genuino fondo ecologista rintracciabile sia in Morris che in Bakunin, più incline inoltre a rappresentare un popolo come un ammasso di nullatenenti che sereni e felici svolgono le loro funzioni-ingranaggio nel meccanismo dello stato, ma per approfondire questo, senza dilungarci, rimandiamo al breve articolo su Morris e Bellamy di circa un anno fa e quello più recente sul post-modernismo e le distopie. In questa breve ricostruzione ci sono due fatti interessanti. E’ inevitabile riconoscere in Tolkien il più diretto erede culturale-letterario di Morris, in quanto egli ha portato a completezza definitiva, arricchito e proseguito le grandi tradizioni Fantasy da lui iniziate. Ma da un punto di vista sociale, politico ed economico anche Chesterton ha ampliato ed emulato alcune istanze del Morris. L’ autore dei famosi gialli di Padre Brown fu contrario alla sopracitata Guerra Anglo-Boera – mentre Robert Blatchford la appoggiò – ed ebbe più forza rispetto a Morris di affermare la sua fede cristiana. Sarà utile tuttavia affrontare anche questo discorso sul finale, per ora, è necessario considerare che un secondo aspetto importante è che, tale formazione di tutti i sopracitati Think Tanks e associazioni di vario tipo in accompagnamento a apparati burocratici, riviste e assetti istituzionali composero l’ariete darwinista e scientista funzionale allo scardinamento e alla secolarizzazione dell’identità religiosa, folk e spirituale dei popoli britannici e occidentali, pertanto d’una conquista e colonizzazione dello spirito e della cognizione collettiva delle persone portata a compimento anche grazie alla zelante “religione dell’ateismo”.

Ovviamente risulterebbe sterilmente provocatorio definire come religione l’ateismo se viene considerata religione solo la relazione tra l’uomo e il divino. La cosa diventa tuttavia congrua allorchè l’ateismo, l’agnosticismo e il nichilismo, più che religioni, vengano intesi come paradigmi “dogmatico-clericali”, che riconoscono in una scienza sfrenatamente imprenditoriale, capitalista e unica fonte di verità il suo tempio di credenze e superstizioni con cui imporre sul popolo sacrifici e privazioni; nella propaganda scientista il suo sacerdozio e nel bipolarismo da un lato, e il moralismo libertario progressista dall’altro le sue chiavi esegetiche. Considerando questi aspetti è facile comprendere che la logica bipolare del bene opposto al male che anima certamente il monoteismo,  ben fraternizza con quella nichilistica e scientista dell’ateismo – basata sulla sopportazione della rinuncia presente per l’orizzonte liberatorio del “bene futuro” – risultando invece del tutto incompatibile con la più prismatica e multi-prospettica logica del paganesimo e del politeismo, maggiormente propensa a considerare caos e ordine in uno scontro multipolare piuttosto che Bene contro Male in un’arena bipolare. La sensibile sfumatura di differenza risiede, tra le altre cose, in una differente ottica futurologica. Nel paganesimo, il futuro è visto come il miglioramento basato sulle conquiste del presente e della radicazione e conservazione di ciò che si possiede, non escluse le ataviche tradizioni. Non sarebbe facile in questa mentalità contemplare un “reset” o riprogrammazione esistenziale, ma nel monoteismo, come nello scientismo e nella tecnocrazia, lo stesso futuro è visto come una promessa di libertà e benessere basate sul sacrificio del presente; sul rendersi pronti alla rinuncia e su un mito, quello del pragmatismo che si oppone all’idealismo e all’analisi profonda, che porta sicchè alla fine a sottomettersi all’utilitarismo e al disimpegno, a preferire il breve e sommario all’approfondimento, quindi anche alla contingente emergenza e alle incombenze “difficili ma necessarie”;  e nessuna come la regina delle istituzioni tecnocratiche, l’Unione Europea, sostiene questo tipo di bias cognitivo essendo una tecnocrazia essenzialmente atea, basata esclusivamente sulla burocrazia il cui adempimento consiste nel rallentare gli stati nazionali mediante i suoi vincoli burocratici, e sull’induzione ad una serie di rinunce “dure ma dovute” per mantenere “responsabilmente” i suoi parametri – maastricth/Lisbona – che in verità non sono mai stati votati da nessun parlamento, essendo stati anzi respinti in Irlanda e Olanda. Questo ci ha pertanto condotto ad un pericolo di uscita dalla linea evolutiva della civiltà e dallo spirito repubblicano e democratico avvicinandoci de facto alla dittatura. Nella logica di sacrificare il presente per riscattare il futuro l’ateismo e la tecnocrazia sono del tutto simili al monoteismo e completamente opposti al paganesimo e in generale al politeismo. Non si può certo negare – ammetterete – che la democrazia e l’evitamento del pericolo della dittatura siano più preservabili nella multipolarità di equilibri e poteri che non nel bipolarismo. Tuttavia, questa non è affatto una squalifica assoluta verso il monoteismo, in fondo quella di Gilgamesh è una saga nell’ambito del politeismo, eppure – come detto sopra – un “reset sociale” è stato condotto dai suoi dei. Si potrebbe certamente dire, ad esempio, che i Vichinghi siano stati i guerrieri pagani per eccellenza e che Wotan con il suo “occhio solo” guardava la realtà per mezzo di “memoria” e “veggenza”, ovvero i due corvi Huninn e Muninn, elementi sincroni e simbionti che davano visione posteriore e anteriore ad un futuro di conflitto tra ordine e caos e il risultato che ne scaturiva nella società era una condotta di compiacenza rivolta agli dei che abbracciava valore e onore e che, senza dubbio incoraggiava talvolta gesta avventate, aggressive sia nell’intraprendenza bellica che nell’esplorazione, o sacrifici di natura “eroica”, ma non invogliava a sacrifici della propria condizione stabile per un benessere vulnerabile e pericolante del proprio futuro. Eppure, anche i vichinghi hanno agito secondo logiche utilitaristiche non certo meno della “concorrenza saracena” o dei regni cristiani.

Si potrebbe essere certamente d’accordo quindi nel sostenere che nel politeismo in generale, la visione è rimessa ad un equilibrio multipolare che divide il potere degli dei in sfere di influenza, che conduce una battaglia in termini di ordine contro caos ancor più che bene contro male, utile a fissare dei punti di equilibrio funzionali a proteggere l’ordine contro l’avanzata del caos e della tenebre primordiale che desiderano il ritorno pangeico al brodo primordiale. Nella realtà più stretta l’effetto è quello di indurre alla conservazione e alla sacralizzazione degli elementi singoli della natura, e non a due contrastanti elementi di polarità – bene e male – che invece finalizzano la concezione della natura come apparato di sostegno subalterno all’uomo, in una visione antropocentrica che svilisce il valore della natura e della sacralità delle componenti ambientali. Il Druido, nei Celti che abitavano l’attuale Gran Bretagna, così come il Vigobrete, equivalente figura nei Celti continentali, legalizzava la caccia solo in ristretti segmenti dell’anno, preservava boschi e molte specie animali quando considerati sacri, senza ovviamente voler trascinare il discorso in lidi ingenuamente neo-pagani dove si tende erroneamente a rappresentare il paganesimo come una sorta di hippismo all’antica esoterico e all’acqua di rosa. Ma nel monoteismo, al contrario, similmente alla tecnocrazia atea, nulla è più sacro e preservabile, se non un unico concetto “eletto”.

Nel caso del monoteismo; il concetto “eletto” è in linea di massima un dio cosmico e intangibile, che tutto vede e tutto controlla come una “microspia” nascosta dietro gli arredi della stanza dove l’anima riflette: vale a dire La Coscienza. Una “spia” in grado di vedere ogni cosa, dai propri atti impuri a quelli di cospirazione verso il potere costituito dell’autorità.

nel secondo caso invece, nell’ateismo e nella tecnocrazia, il concetto eletto è quello del “progresso”, regolato da una scienza clericale, basata sullo stesso controllo esercitato dal succitato “Dio onnivedente e cosmico”, in gravissimo conflitto con la democrazia e sempre bulimicamente affamato di cambiamenti, ripristini e “rivoluzioni”; nonchè su una logica bipolare che porta inevitabilmente i popoli ad uno stato di competizione nevrotica e di emergenza, ricatto morale e vulnerabilità. Non esiste alcuna differenza sociale tra Ateismo e Monoteismo, quantomeno prendendo a riferimento quello evangelico e giudaico, tralasciando – almeno su un piano ideale – quello islamico , cattolico, celtico-irlandese (che è tuttavia sempre riferito al cattolicesimo romano) e ortodosso, che maggiormente sono distesi a sovrapposizione del paganesimo  e che necessiterebbero, bisogna ammettere, di un’analisi meno sbrigativa. La dimostrazione nella realtà pratica e moderna è che in effetti, il Multipolarismo – in senso esteso del termine, e non necessariamente soltanto riferito alle grandi potenze e ai pilastri geopolitici – è stato compiuto da soggetti cristiani.

Per rimanere su uno dei protagonisti di oggi, le forme proto-socialiste antimoderne ipotizzate da William Morris sono lambite da una concezione multipolare di fondo e Morris non era affatto pagano. Lo Zar Alessandro II ha esplicitamente parlato e agito in funzione del multipolarismo – come da lui stesso dichiarato a Wharton Baker – ed era cristiano, e se guardiamo alla stretta attualità, chi ragiona più di ogni altro oggi in senso multipolare è la Russia e il suo presidente Vladimir Putin, e di certo anch’egli è incontestabilmente cristiano. A questo proposito non si può certamente omettere il fatto che Putin, abbia trovato un pensiero multipolare di entità maggiore anche dallo stimolo della pressione costante del blocco euro-atlantico  e dell’espansionismo aggressivo della NATO. La pressione della NATO sul “perimetro” dei paesi ex sovietici ha due effetti sostanziali ed entrambi figli del pensiero multipolare: il primo, si potrebbe definire informalmente “macro-multipolare” ed è l’effetto che vede la Russia sempre più favorevole a dare fiducia alla Cina e a sfiduciare l’interlocutore europeo dal suo compito – mai adempiuto – di prestigio, vale a dire un polo “fltro” che perde sempre più rilevanza nel suo ruolo intermedio tra blocco eurasiatico e il blocco atlantico, poichè non più in grado di offrire una interlocuzione affidabile con la Russia. Il secondo effetto, che definiamo quindi “micro-multipolare” è la tendenza della Russia a sostenere indipendentismi, autonomie, federalismi e regionalismi, massimo esempio dei quali nel Donbass e in Moldavia, e il discorso varia per ovvie ragioni in Bielorussia. Alexander Lukashenko – piaccia o no la sua gerontocrazia – è indiscutibilmente il più autorevole e deciso avversario al mondo di quel fenomeno che – prendendo a prestito le parole di Naomi Klein – è identificabile come “dottrina degli Shock”. [16] Questo rende certamente la Bielorussia – oltre all’Ucraina – un soggetto molto pericoloso e potenzialmente nel mirino del complesso del potere occidentale composto principalmente da alta finanza e industria delle armi, un apparato che è in grado di stimolare in maniera molto autorevole sia la NATO che la difesa e gli esteri degli Stati Uniti che spesso scavalcano le leadership della Casa Bianca, dai quali è palesemente disallineata. Tutto ciò rimane sopito se ad avvicendarsi è un presidente soddisfatto o piegato da queste condizioni, ma le cose – come in parte avvenuto in passato – potrebbero assumere una trasformazione se dovesse salire un presidente diverso intento a dare un ruolo alla Casa Bianca negli esteri che non sia il dettato di seconda mano di grandi aziende come Lockheed & Martin, Boing, e molte altre, ripetuto dal Pentagono. Donald Trump , che ha ormai da tempo annunciato la sua candidatura, potrebbe rispecchiare queste caratteristiche. Ma qui non esistono tuttologi e per noialtri, che di politica e geopolitica ben poco ne sappiamo, limitandoci – tanto per rimanere in tema risorgimentale- ad andare un po’ “alla garibaldina”, abbiamo sentito il bisogno di rivolgere la domanda ad una voce esterna e più sicura, ovvero quella di Andrea Turi, non solo autore del bellissimo libro “Ellada 2013: La Crisi della Grecia raccontata dai suoi cittadini” (2013) ma anche Analista di Politica Internazionale e collaboratore del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo. Per uno che ha analizzato la crisi greca così capillarmente darci questo parere dovrebbe essere un gioco da ragazzi, e a lui abbiamo sottoposto tutte queste questioni:

Il discorso effettivamente potrebbe funzionare. Ma visto che si è arrivati in fasi così avanzate, già che ci siamo, andrò ancora più a fondo, in aggiunta ad una piccola precisazione. Per quanto riguarda il primo, il discorso si può avanzare ancor di più riflettendo sul Multipolarismo. La posizione dello Zar Alessandro II di cui parli potrebbe essere alla alla base, ma senza dubbio è ancora, almeno in parte, una visione multipolare basata su una logica di potenza dove l’ambito militare precede quello economico. Questo ci porta alla “piccola correzione” osservando che, un pensiero “multipolare” è in realtà precedente a Putin. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica è tornata una logica multipolare per cercare un equilibrio e non essere schiacciati e in questo senso, a mio avviso il nome più importante da fare è Evgenij Maksimovič Primakov, Primo Ministro e Ministro degli Esteri nel governo Eltsin, che possiamo considerare – se non il fautore assoluto – il rifondatore di questa logica.  I primi tre pilastri della “dottrina Primakov” sono: fermare l’espansione NATO ad est; riprendere egemonia sui paesi esteri vicini; tessere una relazione proficua con Cina e India. E’ Primakov che ipotizza una ricerca delle relazioni con India e Cina, e questo comporta un cambio del paradigma della politica russa che abbandona la competizione auspicando la cooperazione, e trovando d’altronde sponda con i cinesi. Così facendo le relazioni diplomatiche si sono evolute, anche se va considerato che la Cina, fino agli anni ’80 ha una visione sostanzialmente chiusa e senza un reale pensiero della politica estera. Con Primakov, a mio avviso, il concetto è più avanzato del basilare “multipolarismo” e arriva ad una dottrina “Multi-vettoriale” e “Multi-Livello” in quanto il “polo” è comunque un qualcosa che esercita attrazione, e che può provocare conflitto, lacerare, strappare, è difficile ritoccare i suoi schemi senza provocare scompensi e squilibri. Nella multivettorialità ipotizzata da Primakov invece la diplomazia e le relazioni internazionali apparentemente più complesse, si evolvono verso un’ efficacia maggiore, diventando più agili e meno “pericolanti” da un punto di vista geopolitico. Ad alleanze economiche basate su interessi convergenti e di reciproco beneficio possono corrispondere alleanze militari intersecate ma non necessariamente speculari a quelle economiche. La multi-vettorialità pensata da Primakov prevede una flessibilità degli accordi che può adattarsi meglio agli interessi dei paesi che partecipano alle relazioni. Ovviamente parlare oggi di multipolarità, come fanno quasi tutti gli analisti geopolitici sui media specialistici e nei media alternativi non è sbagliato in linea generale, anche perchè il giornalismo di oggi parla soltanto di una politica estera unipolare o bipolare. Se noti quasi tutta l’analisi giornalistica si concentra su Washington e sull’opinione che gli Stati Uniti (e l’occidente tutto) hanno di tutto l’ambito degli esteri, e non dedica mai una sufficiente area di informazione e dibattito verso qualsiasi dinamica che abbia interessi indipendenti, autonomi, e non includano per forza le linee di pensiero, le opinioni e gli interessi di Washington. Il tutto quindi è condotto e narrato in una maniera molto autoreferenziale e questo fa si che i cittadini non abbiano un’informazione realistica. Ma è una matassa che andrebbe sbrogliata in ambito accademico prima e conseguentemente in ambito mediatico. Questa grave “crisi informativa” che esiste in occidente non è da sottovalutare, i cittadini potrebbero trovarsi a contatto con problemi specifici e adottare soluzioni sbagliate per curarli. Quando c’è una grave crisi informativa, è sempre dietro l’angolo il pericolo di una grave crisi democratica e nell’ambito delle libertà personali, lo insegna la storia.

Conclusioni

In queste conclusioni lo scopo è quello di portare a compimento concreto numerosi discorsi che nelle due parti precedenti sono stati introdotti. Per fare questo si è rivelato necessario articolare in quattro punti che saranno indicativamente seguiti nella conclusione:

  • 1. L’impegno in politica di Trump ha riportato uno scenario simile a quello di fine ‘800 e inizio ‘900, sollevando la più grande preoccupazione per le elite internazionali che corrisponde a quella di una cooperazione tra USA e Russia come è effettivamente avvenuto tra Lincoln e lo Zar Alessandro II; Russia e Cina; e tra Stati Europei, Germania su tutti e Russia; ed è per questo che ritorna il pericolo di sconvolgimenti mondiali (come le due guerre) e il pericolo secessionista negli USA, che potrebbero essere sfruttati per far saltare il banco.
  • 2. L’Emersione definitiva di una “religione” tecnocratica e scientifica che accompagni gli “Sconvolgimenti globali” del punto 1 con la retorica progressista e “dell’ateismo religioso”, ovvero la rinuncia per un bene superiore promesso nel domani. Inoltre, come negli USA potrebbe tornare il secessionismo, allo stesso modo, nel mondo potrebbe scoppiare un profondo scontro generazionale e etnico.
  • 3. Il Sovranismo: questo punto è collegato ad entrambi i punti precedenti, e non è certo una scoperta dell’acqua calda essendo un fatto già assodato da tempo. Lo sviluppo del sovranismo è la naturale evoluzione – nonchè fattore sovrapposto – all’equilibrio di un elemento “Kosmos” con quello “Etnos” con cui tutti i principi di innovazione e riformismo del socialismo hanno cercato di combattere il “programma globale” dell’eugenetica e del Governo unico mondiale
  • 4. Una transizione tecnologica violenta verso il digitale, la post-industria, l’automazione, le criptovalute e quindi valute digitali in concorrenza tra loro, l’intelligenza artificiale e la virtualità aumentata. Alcuni disegni per certi versi presentano caratteristiche simili alla rivoluzione industriale soprattutto nel segmento della seconda metà dell’800

Tutti e quattro punti vertono infine ad una unica direzione, vale a dire una similitudine generale al contesto ottocentesco e una transizione sociale, un reset sostanziale con gravi pericoli per la democrazia causati da possibili sconvolgimenti globali. Per sostenere una cosa del genere non serve essere dei geni. Solo osservando la bolla speculativa che regge il sistema economico occidentale appare piuttosto palese la presenza di una colossale crisi che è senza precedenti, e questa in fin dei conti – quella economica – è solo una delle tante angolazioni osservabili.

Precedentemente si è cercato di ricostruire sinteticamente come le “Contro-Elite” (divenute poi Elite Progressiste) di Huxley e Wells, soprattutto dopo la seconda parte della rivoluzione industriale e la Prima Guerra Boera si sono organizzate in numerosi pensatoi e club, accompagnati da reparti intellettuali e istituzionali per creare una nuova politica mondiale finalizzata ad un controllo unipolare assoluto riferito a due mete ideali: un governo unico mondiale e una “religione scientista eugenetica e atea”. Il lavoro di Thomas Huxley, Hubert Bland, John B.S. Haldane, i Coniugi Webb, George Bernard Shaw, Herbert G. Wells, Halford J. Mackinder, Alfred Milner e molti altri è sintetizzabile in questi due progetti, ma per realizzare il primo occorreva fare i conti con la Russia e altri stati protezionistici ritenuti “rivali”; per la seconda bisognava invece fronteggiare il tessuto identitario, religioso e folk del popolo, nonchè i patriottismi e i nazionalismi che si andavano formando e che venivano accusati di essere “egoisti e autocratici”; elementi che erano da estirpare poiché incompatibili con una religione scientifica e con una mentalità molto simile al neocosmopolitismo progressista odierno. Appare piuttosto chiaro – a prescindere dalla propria ideologia – che queste siano dottrine religiose con “lettura futurologica” e non vere e proprie teorie politiche per l’ applicazione pratica. E’ utile ribadire che la loro applicazione porta il popolo ad un perenne stato emergenziale e un falso concetto di uguaglianza che sarà erosivo per la democrazia, ed è proprio lo stato bipolare di iper-vigilanza il principio dal fattore “Dr Jekyll/Mr Hyde” che sarà decisivo a prosciugare la libertà e il dibattito pubblico.

Per portare a compimento il primo dei due summenzionati obiettivi – il controllo della politica mondiale – occorreva un cambio evolutivo dalla vecchia “proto-geopolitica” di stampo talassocratico dei corsari elisabettiani. Non che questa sia superata, ben inteso, esiste tutt’ora la visione del controllo mondiale del libero commercio – ovvero la globalizzazione – attuata con il controllo dei mari per mezzo delle flotte, ma vi era il bisogno di sviluppare una angolazione in più. Il Geografo, politico, diplomatico, esploratore e scalatore Halford J. Mackinder , amico di Herbert G. Wells e membro di alcuni dei numerosi club e pensatoi precedentemente menzionati, si trovò a considerare che i concetti del corsaro, navigatore e poeta Sir Walter Raileigh – “Chi possiede il mare, possiede il commercio mondiale; chi possiede il commercio, possiede la ricchezza; chi possiede la ricchezza del mondo possiede il mondo stesso” – non erano più il solo riferimento quando lo Zar Alessandro II diede slancio allo sviluppo ferroviario già approntato dallo Zar Nicola, e così fu utile creare una nuova “materia”, la Geopolitica. Deve essere chiara anzitutto una cosa: nel rendersi conto dei significativi limiti di chi scrive, potrebbe essere utile – nel nostro piccolo – dare una definizione di geopolitica e non certo perchè si ha la pretesa di sentenziare qualcosa dato che chi scrive non è affatto un analista geopolitico, ma dal momento che sono sempre di più gli opinionisti a riferirsi a questa materia per ogni più disparata argomentazione, talvolta sovrapponendola alle normali relazioni internazionali, altre volte usandola come sinonimo di diplomazia, è bene chiarire una definizione del tutto personale al solo e unico scopo di indirizzare bene il nostro ragionamento e rendersi comprensibili agli amici lettori.

Se si volesse definire la Geopolitica in una maniera utile a queste nostre riflessioni, e senza alcuna pretesa di essere esatti o esaustivi, la si riconoscerebbe come l’insieme di tutte le ragioni ataviche di esistenza e sopravvivenza di uno stato, un regno o una nazione, le quali sono certamente influenzate dalla radice profonda della sua storia etnica e territoriale, ma non meno da altri fattori più pragmatici come il posizionamento geografico, le risorse più abbondanti e quelle invece più carenti che per ovvie ragioni ne decideranno vantaggi e bisogni. Tuttavia, la strategia della geopolitica di un ipotetico stato è determinata anche da un altro fattore ulteriore, vale a dire il tipo di desiderio a cui quest’ultimo ambisce in relazione alla storia. Se una nazione desidera semplicemente “custodire” il proprio territorio verso una vita media di alta qualità, sarà certamente orientato al commercio, al risparmio, al ragionamento sulle relazioni di “vicinato” per mezzo di traffici e commerci utili a favorirle, e a tradizioni monolitiche e capillari che in senso ampio potrebbero essere anche -nel prendere esempi a caso – la cucina, l’artigianato o lo sviluppo di prodotti tipici, agricoli o “piccole abitudini” rinomate o insuperabili. Se  invece, diversamente, una nazione, un regno o uno stato desidera lasciare un segno nella storia avrà probabilmente tradizioni di natura più grande, maggiori squilibri e delle afflizioni perpetue che conducono – che lo si voglia o no, quale che sia formalmente la sua forma di governo – alla sua dimensione imperiale.

Sperando che la sopracitata “definizione di Geopolitica” possa essere minimamente soddisfacente, occorre dire che la materia diventa straordinariamente poliedrica nel risvolto odierno, includendo molte altre scienze e forse perfino quella primeva di Mackinder, in un certo senso, era già finalizzata ad instaurare una serie di strategie su ogni ambito – militare, diplomatico, economico, industriale, propagandistico, filosofico, sociale, letterario, culturale – per contenere o prendere il controllo dell’ Europa orientale affinchè “nell’Isola Mondo” non si spezzasse la catena di controllo imperiale inglese per mezzo del vigore tellurico della strategia russa. I riferimenti del corsaro Sir Walter Raleigh vengono pertanto rivoltati in differente maniera attraverso la creazione da parte di Mackinder del concetto di “Heartland“:

Chi controlla l’Europa orientale comanda l’Heartland, chi comanda l’Heartland comanda il world island, chi comanda il World Island comanda il mondo stesso

Da questo fatto scaturiscono alcune riflessioni sensibili, ovvero che esistono di fatto “due geopolitiche” in quanto una – che non è chiamata con questo nome – è antecedente alla nascita della Geopolitica odierna, l’altra è l’attuale Geopolitica che Mackinder creò – e non si può negare – totalmente in funzione russa. In fondo, sin dagli Antichi Romani esisteva la propaganda bellica, la guerra asimmetrica, il controllo del mare per un mercato “globale” o la pressione estorsiva economica attraverso l’egemonia tributaria, ma è nelle fasi tardo-vittoriane che nasceva un volume di strategie multidisciplinari che conscientemente si prefiggeva lo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’unipolarità per mezzo dello scontro tra blocchi innescato dall’influenza insinuante sui “pivot”, o “perni geografici“. Una seconda considerazione è che sebbene Mackinder concentri il suo “postulato” sul prendere il controllo dell’Europa Orientale per esercitare di conseguenza controllo dilagante “a macchia d’olio” dell’Eurasia (World Island) è già insita in lui una introvertita politica di contenimento dell’espansione tellurica russa. Se volessimo attualizzare a tutti i costi il discorso certamente anche la strategia cinese della Belt and Road initiative entrerebbe di prepotenza in queste considerazioni, contando inoltre che quest’ultima è stata ipotizzata dal primo ministro dell’impero russo Sergeij Witte.  Non è un caso che la diretta evoluzione di Mackinder sia, per sommi capi, la concezione geopolitica di Nicholas J. Spykman che sostituisce con l’elemento del “Rimland” il concetto mackinderiano di “Heartland” tenendo presente come filosofia principale il punto di vista del “contenimento”.

Chi controlla il Rimland governa l’Eurasia; Chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.
Gli stati sono sempre impegnati a frenare la forza di qualche altro stato […] gli stati sono interessati solo a un equilibrio che sia a loro favore. o meglio; non un equilibrio, ma un margine generoso è il loro obiettivo. Non c’è vera sicurezza nell’essere forti quanto un potenziale nemico; c’è sicurezza solo nell’essere un pochino più forti. Non c’è possibilità di azione se la propria forza è completamente controllata; c’è una possibilità per una politica estera positiva solo se c’è un margine di forza che può essere usato liberamente. Qualunque sia la teoria e la razionalizzazione, l’obiettivo pratico è il costante miglioramento della posizione di potere […] L’equilibrio desiderato è quello che neutralizza gli altri stati, lasciando lo stato d’origine libero di essere la forza e la voce decisiva.
I fatti di localizzazione non cambiano. Il significato di tali fatti cambia ad ogni cambiamento nei mezzi di comunicazione, nelle vie di comunicazione, nella tecnica della guerra e nei centri del potere mondiale, e il pieno significato di un dato l’ubicazione può essere ottenuta solo considerando l’area specifica in relazione a due sistemi di riferimento: un sistema di riferimento geografico da cui deriviamo i fatti di localizzazione e un sistema di riferimento storico in base al quale valutiamo quei fatti. [17]

In apparenza le due scuole di pensiero appaiono in antitesi, e per ovvie ragioni non è certo errato considerarle tali secondo molte angolazioni logiche. Ma le diversità di questi due pensieri opposti e speculari sono dovute ovviamente alle differenze storiche del periodo e quelle geografiche dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. In Mackinder – sebbene aderente al progressismo “contro-elitario” wellsiano – si rende palese una mentalità inveteratamente imperialista e colonialista che esprime la “russofobia britannica” – che ben poco invidia al maccartismo – in termini di competizione imperiale anti-zarista. Per esser chiari: per mackinder il problema era soffiare allo zar il controllo dell’Europa orientale per controllare di conseguenza il mondo intero e non vanificare il sogno di un futuro unipolare. Nella logica di Spykman si parla invece direttamente di “contenimento” e pressione sul blocco di espansione poichè la matchpolitik/Power Politic ottocentesca si era già trasformata nel Soft Power che prenderà forma definitiva dopo le guerre mondiali, ma ciò non toglie, naturalmente, che la Realpolitik non possa mai cessare di esistere in nessuna epoca, a prescindere dalle vesti retoriche e strategiche più consone lungo il corrente periodo storico. La mentalità di Spykman sarà ancora più “tellurico-centrica” di quella di Mackinder, diventando inoltre la più diretta e seminale sostanza della Guerra Fredda che influenzerà in tutta evidenza la politica dell’Amministrazione Truman e del suo ispiratore principale, George Frost Kennan, che è un soggetto del tutto spykmaniano. Non sarà diverso John Foster Dulles nell’Amministrazione Eisenhower, che prosegue quella linea dalla quale si riconoscono le sorgenti dell’eterna nevrosi “da guerra fredda” che caratterizzerà per sempre la politica estera americana che, per quanto feconda – e non lo si nega affatto – di raffinate menti strategiche e geopolitiche; di sottili studiosi di guerra psicologica, tecnologia bellica, profiling e propaganda, non sembra in grado di concepire un mondo diverso se non quello basato su un primitivo e bipolare scontro di blocchi di potere. A tale raffinatezza strategica corrisponde sicchè una debolezza politica straordinaria. A ben guardare, anche l’evoluzione successiva della geopolitica dopo le fasi Raleigh-Mackinder-Spykman – identificabile nel pensiero di Zbigniew Brzezinski – segue la logica bipolare di Spykman-Kennan-Truman-Dulles, salvo descriverne applicazioni specifiche ancor più capillari – come ad esempio l’Ucraina – nel campo di una grande scacchiera con due giocatori definitivi.

“La questione cruciale qui […] è la futura stabilità e indipendenza dell’Ucraina. […] I politici americani devono affrontare il fatto che l’Ucraina è sull’orlo del disastro: l’economia è in caduta libera, mentre la Crimea è sull’orlo di un’esplosione etnica favorita dalla Russia. Entrambe le crisi potrebbero essere sfruttate per promuovere la rottura o la reintegrazione dell’Ucraina in un quadro più ampio dominato da Mosca. È urgente ed essenziale che gli Stati Uniti convincano il governo ucraino, attraverso la promessa di una sostanziale assistenza economica, ad adottare riforme economiche a lungo ritardate e assolutamente necessarie. Allo stesso tempo, dovrebbero essere disponibili assicurazioni politiche americane per l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina…” (*) [18]

Si potrebbe quindi sintetizzare il tutto dicendo che per il corsaro elisabettiano Sir Walter Raleigh la preoccupazione era il controllo globale di un mondo concepito alla sola maniera “insulare” per mezzo della flotta, prevedendo pertanto l’utilizzo delle navi militari per la salvaguardia di quelle mercantili e l’uso dei pirati o dei corsari per i fini più “asimmetrici”. Questa idea così britannica, talassocratica ed elisabettiana non è certo diversa dalla globalizzazione vista dagli strateghi militari statunitensi ove tutto ciò che comprende i contenuti dell’istanza della globalizzazione è, in fin dei conti, subordinato al controllo di tutti i mari per mezzo della flotta per il controllo commerciale, e di certo non è stato diverso per gli Antichi Romani dopo aver sconfitto Cartagine e assunto il controllo di un mercato unificato mediterraneo. Anche Halford J. Mackinder – e chi più di lui, che addirittura è locutore della formula “isola mondo” – concepiva il mondo come risposta ad una interiore e incancellabile esigenza “insulare”, ma la sua “nuova geopolitica” si forma prendendo contezza dello sviluppo ferroviario della Russia, della sua potenziale – e inevitabile influenza Est-Europea, baltica, transnistrica e asiatica-minore e del crescente slancio della Germania, oltre che del “pericolo” di una focalizzazione della politica commerciale mondiale sul piano tellurico, pertanto la sua preoccupazione non si limitava alla sola flotta imperiale, ma anche al controllo dell’Europa orientale per controllare di conseguenza “tutta l’isola-mondo”. Spykman prima e Brzezinski dopo, trovandosi nella strategia degli USA e non dell’Inghilterra imperiale, capirono che la storia imponeva di svolgere al rovescio il pensiero di Mackinder e che l’egemonia andava perseguita non dilagando a macchia il proprio dominio dopo aver anticipato la Russia sul controllo di un “pivot” geopolitico “nell ‘Heartland”, ma al contrario, applicando “fasce di contenimento” attorno a stati “non allineati” (nella logica del “Rimland”) e certamente “essere un impero senza poter essere un impero” in una fase storica “progressista” ha comportato il passaggio dalle Power Politics al Soft Power, all’uso variegato di strategia e non certo solo quello della diretta azione militare, ma maggiormente orientata a far uso maggiore della propaganda e dell’informazione, ed in questo soggetti come Roger Mucchielli o Gene Sharp sono certamente tornati utili nel corso della storia. Ma soprattutto, è stato necessario ragionare su un dominio globale economico con una politica basata sul dollaro sia nell’ampiezza d’uso che nel suo deficit verso i propri subalterni.

A questo proposito si arriva ad un discorso delicato, poichè è bene chiarire che la condotta degli Stati Uniti dopo la Prima Guerra mondiale è sempre stata la stessa e continua ad essere tutt’ora la medesima, ovvero utilizzare il dollaro come base, investire all’estero ma fare in modo che tutto ritorni nelle casse del tesoro degli Stati Uniti e la candidatura di Donald Trump avviene in una fase dove ci si rende conto che gli investimenti non stanno tornando affatto negli Stati Uniti.

Trump sembrerebbe rappresentare quella parte del popolo americano che nonostante la disinformazione dilagante, pervasiva e militarizzata dei media nazionali e globali  si è resa conto che la catena di trasmissione dell’egemonia del dollaro si è spezzata; che gli Stati Uniti stanno investendo e prestando soldi a paesi che poi tuttavia acquistano componenti, materie prime e prodotti vari in Cina e in India; che non si può di nuovo orientarsi verso la guerra fredda o la guerra effettiva – cosa che sarebbe probabile nel momento che il dollaro andasse incontro ad una erosione, che è drammaticamente in corso – ma che al contrario sarebbe più consono smettere di basarsi su un sistema globalista neo-imperiale dove la delocalizzazione, l’outsourcing, la guerra perenne, l’accoglienza di immigrati e le produzioni dislocate sono una Weltanshauung necessaria, ma che ha reso gli stati deboli da un punto di vista della sicurezza, del benessere psicofisico del popolo e dell’aautosufficienza, e quindi cercare condizioni di pace, soprattutto con la Russia e con la Cina, ritirare progressivamente le truppe dal medio oriente (e non solo) e dare rilancio alla produzione e al mercato interno. Ciò che in modo spregiativo viene definito nei media globali come “pericolo di isolazionismo e autocrazia (ma guarda un po’) che ci sarebbe nel caso di una vittoria di Trump” deve essere tradotto in realtà con un fatto più reale, vale a dire che una parte del popolo americano si rende conto che al momento è impossibile frenare l’espansione della Cina e che si può tornare a valorizzare il mercato interno e la produzione territoriale. O se si vuole metterla più semplicemente, il popolo inizia ad essere arcistufo di vivere in perenne stato di emergenza, e ne ha le tasche piene di vedere il “monopartito” seppellire gli umori interni sotto il tappeto e rimandare i problemi a causa di una “emergenza superiore” che è sempre un grande nemico esterno verso il quale compattarsi e mobilitarsi in guerra con l’aiuto di Londra, del blocco NATO e della sempre più irrilevante e sottomessa Unione Europea.

Molti certamente risponderebbero in obiezione che – soprattutto negli Stati Uniti – non è certo un leader o un presidente a fare realmente la differenza sulla politica estera, soprattutto se questo è incarnato da una profilo proveniente dall’imprenditoria, e certamente esistono sacrosante ragioni per concordare con questa affermazione, tuttavia , senza volersi illudere troppo, per tutto paradosso, è possibile ritenere la situazione abbastanza disperata da poter conservare un minimo di insperato ottimismo anche in virtù di considerazioni basilari varie e piccoli segnali sparsi. Tanto per essere concreti e sintetici; se Trump dovesse vincere potrebbe realizzarsi una distensione con la Russia che manterrebbe il suo strapotere diplomatico. Sarebbe forse anche possibile vedere una pressione mediatica verso l’inarrestabile Cina ma soltanto finalizzata a vincolare quest’ultima a vari accordi, stimolando l’aiuto della Russia per sancirli lealmente, e a tal proposito si tiene conto anche della scadenza del New Start che cadrebbe proprio sotto l’ipotetica amministrazione Trump. E’ bene inoltre tenere a mente degli interessi della Cina – paradossalmente – sono quelli di finanziare il debito americano per prolungarne l’agonia e tenerne in piedi l’economia e non arrivare sicchè ad un conflitto armato. Non ci vuole certo un genio per capire che se la Cina mettesse in circolo il debito americano – che continua ad essere da lei acquistato – il dollaro crollerebbe troppo rapidamente, l’economia degli Stati Uniti collasserebbe e ci si troverebbe davanti all’obbligo di scendere in guerra con conseguenze imprevedibili e negative per entrambe le potenze. Erodere l’area del dollaro è ovviamente nel pieno interesse della Cina e della Russia, ma non certo in questo modo e di sicuro non con queste tempistiche. Sarebbe maggiormente plausibile pensare che entrambe le potenze vogliano seguire la crisi americana e il suo declino senza forzarne i tempi.

Provando invece ad immaginare una vittoria di Hillary Clinton e della sinistra, più che pressione sulla Cina per coinvolgerla insieme alla Russia in un accordo sul nucleare si cercherebbe di contenerne la crescita cinese sfruttando la retorica dell’ecologismo, della nuova sensazione del “green” e del cambiamento climatico, cosa che non starebbe in piedi vista l’indiscutibile, e per ora insostituibile centralità del gas e del petrolio. Il dialogo mediatico si concentrerebbe unicamente sull’allarme climatico e sulle “colpe” della Cina, questo innescherebbe proteste ecologiste pianificate a tavolino in zone come Hong Kong che potrebbero mettere sotto pressione il governo cinese da un punto di vista mediatico, dando la scusa agli USA per interferire sia su Hong Kong che su Taiwan nel caso, ad esempio, le repressioni fossero troppo dure. Pertanto si imporrebbe lo scenario di piena guerra fredda e lo stimolo al potenziamento del settore bellico, come è negli interessi delle aziende come Lockheed & Martin, Raytheon Tech e molte altre, che esercitano pressione sul pentagono per produrre continuamente armi pesanti per i “clienti” come la NATO e la Difesa, e sono inoltre in mano a banche d’affari e fondi speculativi nemici naturali dei soggetti come Trump. Se proprio ci si vuole togliere il dubbio basta svolgere una ricerca sui proprietari di queste aziende.

Una ulteriore considerazione è la constatazione del fallimento assoluto della globalizzazione in senso generico del termine e la crescente debolezza e inefficacia della geopolitica del dollaro, che richiede una brutalità sempre più rapace e violenta per essere mantenuta, tenendo anche conto che per ovvie ragioni, la geopolitica del dollaro è strettamente collegata – essendone il motore primo – alla globalizzazione stessa. Le conferenze di Seattle (1999) e quella di Cancun (2010) ad oggi, si può dire tranquillamente che non abbiano portato a nulla. Il mercato globale è comunque soggetto a costi e tempi di trasporto e le catene di trasmissione e approvvigionamento globale potrebbero essere costrette ad accorciarsi viste anche le zone in cui si concentrano le prossime “guerre democratiche” degli Stati Uniti, ovvero la Russia, per mezzo ovviamente dell’Ucraina come dimostrano la rivoluzione arancione e i fatti del 2014, oppure incoraggiando e aggravando l’immaginario collettivo russofobico – condivisibile o meno decidete pure voi – di Romania, Moldavia e Paesi Baltici; e in seconda battuta la Cina, per mezzo di Hong Kong, Taiwan, Birmania e lo Xinijang. Pakistan, Sry Lanka e il Sud-Est asiatico potrebbero interessare oltre alla Cina anche l’India in base a come si svilupperanno i suoi rapporti internazionali e certamente, i paesi del gruppo BRICS come Brasile, Venezuela e Sud Africa non sono estranei a questi discorsi e ancor meno a quelli del dumping del dollaro. Gli Stati Uniti hanno lavorato e continuano a lavorare intensamente affinchè il mondo sia depresso verso un sottosviluppo diffuso, gestito da monopoli o oligopoli, dittature amiche o clienti; stati fantoccio anch’essi clienti e ricattati; stati falliti, disastrati o quantomeno in grave pericolo di finire in default, come effettivamente sembrano avviarsi ad essere perfino gli stessi stati europei. Non esiste – tra gli stati maggiori della UE – una nazione realmente in crescita e di questo certo si possono trovare ben altre cause più ineluttabili che la semplice corruzione e inefficacia dei governi, e non sarebbe forse del tutto corretto spiegarsi il tutto scaricando la colpa unicamente sugli USA. Gli stati nazionali sono sempre più lontani dall’autosufficienza alimentare nel territorio, come quella dei cereali – tanto per fare un esempio – e si riforniscono in latifondi delocalizzati all’estero spesso in paesi sottosviluppati e soggetti a pericoli di guerra, di ritorsioni terroristiche o emergenze di vario tipo e ciò rende possibili delle recrudescenze pericolose nelle difficoltà delle linee di approvvigionamento che oggi sono solo ipotizzabili, ma che le probabili guerre o crisi potrebbero provocare. Tutto ciò avviene poichè gli Stati Uniti sono ormai irreparabilmente affidati nella politica estera a oligarchie di creditori dell’alta finanza che hanno pieno interesse a mantenere l’egemonia del dollaro, sebbene in questi anni stiano rivolgendo il loro sguardo (il più delle volte forse anche con timore) verso la criptovaluta. Il fatto che Trump, già da molto tempo prima di candidarsi faccia esternazioni come “gli Stati Uniti devono smettere di essere il poliziotto del mondo e smettere di occuparsi di questioni lontane dal suo territorio” potrebbe far certamente capire dove possa dirigersi la sua visione, considerando anche che la scadenza del new start – come già ripetuto – cadrà proprio nel segmento del suo eventuale primo mandato. Vi sono ragionevoli motivi per pensare che se dovesse vincere, la sua amministrazione potrebbe essere orientata – oltre al deciso ritorno “all’isolazionismo”; o più corretto dire alla produzione e al mercato interno – ad una relazione amichevole con Putin, e ad un tentativo di vincolare la Cina ad un accordo sul nucleare. Si mette ovviamente in conto che restano tante,…troppe incognite, essendo ancora troppo presto per capire come potrebbe essere Donald Trump, come quella riguardante la seconda grande ossessione degli Stati Uniti, la Germania; e come si orienterà la politica verso il Venezuela, l’Iran e l’Ucraina, ma la possibilità di una relazione amichevole tra Stati Uniti e Russia risveglia certamente i fantasmi dei vecchi tempi tardo-vittoriani.

E’ utile considerare a questo proposito che pochi anni dopo la fine della Guerra di Crimea della quale sopra si è fatto qualche ricorso, ovvero nel breve arco di tempo che va  dal 1861 al 1863 lo Zar Alessandro II e Abramo Lincoln trovavano piena sinergia con l’emancipazione e quindi l’eliminazione dello schiavismo e la cosa irritava non poco l’Inghilterra che, nutriva già assoluta diffidenza per gli Stati Uniti settentrionali che ambivano ad uno sviluppo tecnico ed economico autonomo e protezionistico e ad una modernizzazione dell’economia. La stessa Inghilterra era interessata invece a rapporti con gli Stati Uniti meridionali, più inclini alla ruralità e a crescere con l’assistenza britannica continuando a produrre cotone, prodotti agricoli e merci fatte dagli schiavi ed esportate verso il Regno Unito.

In sostanza, gli Stati Uniti meridionali non erano rivali del Regno Unito, bensì assolutamente complementari, contrariamente agli Stati Uniti del Nord che invece iniziavano a metterne in discussione almeno in parte la posizione di Leadership, diventando presto una potenza temibile come la Germania o altri stati talvolta definiti – come si è ampiamente ripetuto – “egoisti e autocratici”. Lord Salisbury che fu tre volte primo ministro sul finire dell’800 fu abbastanza chiaro a riguardo:

Ovunque ha prevalso la democrazia, il potere dello Stato è stato usato in una forma o nell’altra per depredare le classi abbienti a beneficio dei poveri. ( tratto dalla rassegna di  Bilancio e il disegno di legge di riforma, 1860)
Il fatto veramente notevole che dev’essere dedotto dalla condotta degli Stati del Sud è il vero allarme con cui guardavano al funzionamento della Democrazia. … Avevano agito in collaborazione con uno per settant’anni. Lo avevano visto maturare anno dopo anno fino al pieno sviluppo della supremazia della mafia. … Decisero deliberatamente che la guerra civile, con tutti i suoi orrori e con tutti i suoi rischi peculiari per se stessi come proprietari di schiavi, era un male più lieve dell’essere arresi alla giustizia o alla clemenza di una Democrazia vittoriosa. Non spetta all’Europa contestare l’esattezza del loro giudizio. (da Democrazia alla prova, 1861)
Gli Stati del Nord America non possono mai essere nostri amici sicuri perché siamo rivali, rivali politicamente, rivali commercialmente…. Con gli Stati del sud, il caso è completamente ribaltato. La popolazione è un popolo agricolo. Forniscono la materia prima della nostra industria e consumano i prodotti che da essa produciamo. Con loro ogni interesse deve portarci a coltivare relazioni amichevoli, e quando è iniziata la guerra sono tornati subito in Inghilterra come loro naturale alleato […] (Da un discorso alla camera del 1861)
[…] Il Nord sta combattendo senza una causa sentimentale, senza la vittoria di una “civiltà superiore”. Combatte per un oggetto di guerra antichissimo e volgare, per ciò che la Russia si è assicurata in Polonia, ciò a cui l’Austria si aggrappa in Veneto, ciò che Napoleone cercava in Spagna. È una lotta per l’impero, condotta con una sconsideratezza della vita umana che può essere stata paragonata nella pratica, ma non è mai stata dichiarata con uguale cinismo. Se negli americani rimane un po’ di vergogna, la prima revisione che faranno nella loro costituzione sarà quella di ripudiare formalmente la dottrina ormai esplosa enunciata nella Dichiarazione di Indipendenza, secondo cui “i governi traggono i loro giusti poteri dal consenso dei governati”. (Da Gli Stati Uniti come Esempio, Quaderly Review, 1865)

Lord Salisbury o se preferite, Robert Gascoyne Cecill III Conte di Salisbury, è stato primo ministro per i conservatori in alternanza con i complessi mandati del più volte citato William Ewart Gladstone, ma soprattutto occupò la carica alla fine ultima dell’età vittoriana e l’inizio di quella edoardiana, assumendo un ruolo sensibile nella Seconda Guerra Boera che – abbiam capito – è un fatto insospettabilmente decisivo per il cambio di mentalità inglese, organizzato da Wells, Galton, Mackinder, Rhodes, e ovviamente dai fabiani; gli estremisti darwinisti e filo-eugenetisti; progressisti atei e i “fascisti liberali e illuminati” come Amery e Milner che di certo non hanno avuto grandi difficoltà a lavorare insieme a molti marxisti e socialisti fabiani (che poi confluirono tutti nei laburisti).

Quando Abramo Lincoln chiese aiuto alla Russia – quale unica potenza rimasta amica degli Stati Uniti -scrivendo una lettera al ministro Aleksandr Michajlovič Gorchakov e allo Zar Alessandro II,  si erano già esplicitate le minacce dell’Inghilterra di una azione militare congiunta con la Francia contro gli Stati Uniti del Nord. La Russia mantenne la parola, dacchè dopo la Battaglia di Gettysburg, inviò la sua marina negli USA proteggendo l’unione e impedendo che Inghilterra e Francia intervenissero a favore del Sud e della secessione. Se la Russia non fosse intervenuta l’Inghilterra avrebbe potuto infliggere con la Francia una dura azione punitiva congiunta a favore degli stati del sud, per rovesciare Lincoln, proseguire con lo schiavismo e portare a compimento la secessione allo scopo di essere l’unica “potenza-arbitro” del sistema economico e commerciale. Non siamo così ingenui da pensare che il sostegno alla sovranità degli USA da parte dello Zar ai tempi di secessione sia mosso soltanto da affetto o da samaritanismo disinteressato. Sarà lo stesso Alessandro II a confidare a Wharton Barker infatti che la Russia intervenne a favore degli USA poichè la ladership unica della Gran Bretagna al sistema economico e mercantile avrebbe al lungo andare danneggiato anche la Russia stessa. Per esser chiari, lo Zar, ha difeso la sovranità degli Stati Uniti per difendere la multipolarità raggiungendo effettivamente una posizione non dissimile da quella più attuale di Vladimir Putin, che parla già da tempo di multipolarità, e che scopriamo – come visto in precedenza – esser ancor prima promossa da Primakov sotto il governo di Boris Eltsin.

Anche in questo tratto scaturisce certamente una non secondaria riflessione. Lo Zar Alessandro II aveva ben compreso che gli Stati Uniti, regressi a stato rurale e agricolo dopo la Guerra d’Indipendenza con gli inglesi erano essenzialmente sorretti da un sistema basato sulla schiavitù e che un nuovo sistema economico era necessario per abolirla, quindi sostituirla con una nuova economia ed impedire la secessione. Le proposte di Lincoln venivano tanto disprezzate dall’Inghilterra quanto apprezzate dallo Zar e dalla Russia. Hamilton federò il debito trasformandolo in credito produttivo ridistribuito alle banche locali e nazionali e quindi creando un sistema economico modernizzato per sostituire l’altro – quello schiavile, s’intende – voluto invece dall’Inghilterra, che dal canto suo aveva tutti gli interessi ad indurre gli Stati Uniti a proseguire con una economia schiavistica che garantiva merci a costi bassi, materie prime come il cotone da lavorare e da rivendere anche agli stessi statunitensi una volta trasformate in merci lavorate (come sottolineava Lord Salisbury stesso), mantenendo i temibili Stati Uniti ad uno stato di regresso, subalterno e rurale. Pertanto, il mantenimento della manovalanza degli schiavi mal qualificata avrebbe garantito la secessione, l’egemonia talassocratica inglese e un controllo soddisfacente sugli Stati Uniti. Non si può non riconoscere che la politica economica di Hamilton e il pensiero di Lincoln, uniti a quella dello sviluppo ferroviario di Alessandro II  – i cui meriti vanno tuttavia condivisi con Nicola I – abbia creato i presupposti di un’era di cooperazione che si stava espandendo verso quello che – senza alcuna retorica – avrebbe portato ad un mondo multipolare di equilibrio e di probabile pace, in un effetto positivo che stava inducendo perfino alcune tra le dinastie monarchiche a compiere una illuminata e onesta auto-analisi, ma la base di tutto è senza dubbio la relazione degli Stati Uniti e Russia che si espandeva attraverso la formazione delle ferrovie volute dallo Zar. E’ utile ricordare che già negli anni ’40 dell’800, George W. Whistler fu nominato sovrintendente della Ferrovia San Pietroburgo-Mosca dallo Zar Nicola. Più avanti, negli anni ’70 e ’80 dell’ottocento, il senatore William McKinley esprimeva l’intesa con Otto Von Bismark. Più tardi ancora, ad esempio, Sergeij Witte (che fu Ministro dell’Economia ed in seguito Primo Ministro dell’Impero Russo) dopo aver studiato l’unione doganale tra Russia e Germania, ipotizzò perfino una istanza di precursione per la Nuova via della Seta, che attirò in termini positivi l’attenzione e la stima di Sun Jat-Sen. Il mondo stava realmente cambiando verso una cooperazione multipolare che trova effettivamente una similarità con i concetti precedentemente espressi riguardo a Primakov, ma anche con alcuni dei concetti di William Morris sui quali precedentemente si è entrato in dettaglio. Giunti a questo punto sarebbe opportuno esaminare il destino di questi protagonisti e – senza voler trascinare il tutto in territori cospirazionistici – osservare attentamente quanti omicidi e colpi di stato sono avvenuti per riportare il mondo su un modello economico predatorio ed egemonico gestito totalmente da oligarchie di redditieri, a cavallo di un apparato retorico pseudo-filantropico e moralistico-libertario, da sostituire alla Power Politic imperialista-colonialista nelle forme, ma non certo nelle sostanze. Nel riflettere a riguardo occorre iniziare la considerazione già includendo sia il tentativo di assassinio su Abramo Lincoln nel Complotto di Baltimora abilmente sventato dal detective scozzese Allan Pinkerton; sia nei fatti avvenuti all’alba della Seconda Guerra Boera, attraverso gli Uitlanders nel tentato colpo di stato nella Spedizione Jameson, macchinato da Cecil Rhodes. Da tutto ciò, si può certamente passare a considerare gli omicidi (e stavolta non solo tentati) dello stesso Lincoln e di William Mc Kinley, nonchè quelli degli Zar come Alessandro II, ucciso dai nichilisti russi precursori e collegati al Partito Socialista Rivoluzionario; o Nicola II, assassinato in maniera efferata dai bolscevichi, in uno sterminio familiare successivo ad una penosa e crudele detenzione, e così da una serie numerosa di fatti nei quali i soli a guadagnarci – sia nell’immediato che nel futuro – furono i club elitari (o contro-elitari) apolidi anglosassoni alle prese con il tentativo di egemonia mondiale e dell’unipolarismo, poichè il bipolarismo, soprattutto in uno scenario come quello di due grandi blocchi che si confrontano in qualcosa di simile alla Guerra Fredda è sempre e necessariamente emergenziale e transitorio verso l’unipolarismo a prescindere dalla sua durata e dall’inemicizia delle due parti in causa,  contrariamente – ammetterete – ad un mondo multipolare dove è maggiormente probabile costituire condizioni di equilibrio diffuso e pace.

La cooperazione che si stava formando tra Stati Uniti, Germania, Cina, Russia e che si apprestava perfino a crescere non solo nella propria entità già consolidata, ma anche verso altri paesi era ovviamente  – e ben si è capito – qualcosa di molto avverso a soggetti come Herbert G. Wells e i suoi commensali dei vari club, che intendevano unificare il mondo liquidando senza ripensamenti proprio la forza vitale di questi slanci identitari e nazionali ritenuti “egoisti e autocratici”. Era proprio questa conformazione di stati che faceva sorgere nello scrittore di fantascienza e in chi condivideva le sue idee quell’approccio contraddittoriamente contro-elitario – che in seguito diventerà “diversamente elitario” – verso le vecchie elite di alto rango vittoriane e cristiane. Proprio come si è detto per Lord Salisbury a riguardo della Guerra di Secessione, bisogna riconoscere a Wells il merito d’esser stato davvero chiaro e inequivocabile nella sua opera “simil-biografica” dal titolo Experiment in Autobiography (1934):

“L’innegabile contrazione della prospettiva britannica nell’inizio del decennio del nuovo secolo è quella che ha esercitato molto la mia mente… A poco a poco, la fiducia nella possibile leadership mondiale dell’Inghilterra è stata sgonfiata dallo sviluppo economico dell’America e dall’audacia militante della Germania. Il lungo regno della regina Vittoria, così prospero […] aveva prodotto abitudini di indolenza politica e sicurezza a buon mercato. […] quando la sfida di questi nuovi rivali si è aperta ci ha tolto il fiato subito. Non sapevamo come affrontarla…”

Per il “vecchio Huxley”, Wells, Mackinder e tutti gli altri; così ossessionati dal darwinismo religioso, il malthusianesimo, il controllo delle nascite e l’eugenetica; dal promuovere un controllo privato da monopolio o oligopolio delle risorse prime come terra e acqua; dalla estirpazione di ogni credenza e religione; dalla riprogrammazione dell’immaginario collettivo della storia, memoria e mito; e non certo per ultimo, dai presupposti per un governo unico mondiale; era necessario liquidare l’identità dei popoli e degli stati nazionali che essendo propensi ad un innalzamento del proprio orgoglio resistente e patriottico rendevano la diffusione del “darwinismo estremista” non poco ostacolata, così come si dimostrò egualmente inefficiente la Società delle Nazioni di cui Wells fu membro prominente, organizzatore e promotore della prima ora. Un caso emblematico di “rappresaglia” contro questi soggetti dal patriottismo così “renitente” si può certamente considerare in un saggio come Open Conspiracy (1928), le cui riflessioni erano già state anticipate nel romanzo Il Mondo di William Clissold (1926) , e che è punto di culmine importante nella produzione letteraria di Wells, nonchè un traguardo finale del suo pensiero. Questo saggio sociologico, teologico, politico e sociale sembra comunicare in maniera molto forte non solo con il vecchio saggio teologico God the Invisible King (1917) e con la già menzionata storia di William Clissold, ma anche con i romanzi con presenza di riflessione religiosa usciti non a caso poco prima, vale a dire Mr. Britling Sees It Through (1916) e l’Anima di un Vescovo (1917). In quest’ultimi scritti Wells introduce le riflessioni di God the Invisible King che sembrano voler umanizzare e rendere fallace dio attraverso articolate riflessioni. Le idee del saggio e dei due romanzi “osmoticamente compenetrati” trovano epilogo circa dieci anni più tardi proprio con Open Conspiracy dove Wells ripudia del tutto dio e la religione in via ufficiale. A ben guardare, quella per Dio e la religione di ogni tipo in generale, in Wells sembra quasi essere un’ossessione nevrotica, ma tralasciando le riflessioni del tutto interiori dell’autore , In Open Conspiracy convergono gran parte dei “programmi wellsiani” elencati in parte anche sopra, con un linguaggio che in verità, solo convenzionalmente chiamiamo “saggistico” essendo in realtà una comunicazione in forma di manifesto, con caratteristiche da programma politico espresso in una forma fortemente dottrinaria. I temi affrontati riguardano il pacifismo, la propaganda, i controlli medici e biologici da fare sulle popolazioni per il superamento del pericolo di epidemie; la gestione economica della proprietà e il Welfare State. Ma non meno vi si trova la sua vecchia ossessione di sostituire la bibbia con una sorta di omologa opera in versione darwinista, atea e scientista, creata con l’intento di ridisegnare tutta la storia, la morale e il mito secondo stilemi demagogici e materialisti, oltre che inverosimilmente svilenti. In Open Conspiracy Wells è puntuale nel chiarire la sua critica verso le elite vittoriane cristiane e le loro “Vecchie fedi […] poco convincenti, inconsistenti e insincere” chiarendo bene inoltre il bisogno di una “[…] nuova fede nel mondo che attende ancora l’incarnazione in formule e organizzazioni che abbiano una reazione efficace sulle questioni umane nel loro insieme“. Questa perpetua e mitomaniacale velleità non ha abbandonato Wells neanche nelle fasi della senescenza, e non nasce – nè si ferma – certo con Open Conspiracy, poichè si reperisce già ai tempi di Anticipations (1901) e Mankind in the Making (1903) ma soprattutto in una delle opere principali , Outline of History, serializzata a partire dal 1920, e terminata nelle opere successive che completano una sorta di trilogia in collaborazione con il figlio – G.P. Wells – e con Julian Huxley (nipote di Thomas e fratello di Aldous) nelle opere The Science of Life (1930), The Work, Wealth and Happiness of Mankind (1931). Si trovano tuttavia numerosi punti di questa particolare espressione sociologica, scientista e “para-religiosa” nella produzione letteraria di Wells, basti vedere la raccolta di saggi in World Brain (1938) dove lo scrittore di fantascienza, attraverso il concetto di “cervello mondiale” porta i suoi dogmi ad una sintesi hegeliana assolutistica, che era stata già predisegnata molti anni prima nel romanzo di fantascienza dove appare un cervello gigante “centrale” che comanda un popolo di inquietanti alieni insettiformi. Il romanzo in questione dal titolo I Primi Uomini sulla Luna (1911), ha ispirato piuttosto vistosamente Robert Heinlein in Fanteria dello Spazio (1959). In questo contesto risultano importanti anche quei saggi meno elucubrativi dove Wells collabora – tra i tanti – con soggetti come James Bryce per promuovere la Lega delle Nazioni, antesignana dell’ONU, tra le varie raccolte di articoli e saggi brevi emergono due pubblicazioni: The Idea of a League of Nations (1919)The Way to the League of Nations (1919).

Herbert G. Wells non ha certamente mancato di rappresentare in una forma caricaturale e svilente dei soggetti che nella sua visione incarnavano le caratteristiche peggiori, egoistiche e autocratiche – parole oggi assai reiterate proprio perchè care alle scrittore in oggetto – degli stati nazionali inclini al patriottismo.  Quest’ultimi, generalmente radicati al cristianesimo e visti come ostacolo per la Lega delle Nazioni, la religione scientifica e la prospettiva di un governo unico mondiale sono stati più volte presi in considerazione talvolta per mezzo di una raffigurazione della deriva autoritaria in un contesto distopico come ne Il Risveglio del dormiente, altre volte nella satira o nel dramma sentimentale come avviene invece in romanzi come il già citato Mr. Britling Sees It Through (1916), Mr. Blettsworthy on Rampole Island (1928), The Autocracy of Mr. Parham (1930) o anche The Bulpington of Blup (1932). In questi romanzi appare spesso una componente abilmente spesa da Wells, talvolta anche ben nascosta, che richiama di frequente caratteristiche di personaggi come Otto Von Bismark o Guglielmo II di Prussia; Lo Zar Nicola e il suo discendente Alessandro II; il presidente francese Sadi Carnot (in carica dal 1887 al 1894) o il ministro degli interni dell’Impero Russo e Segretario del Gran Ducato di Finlandia Vyacheslav von Plehve (entrambi assassinati, il primo da un anarchico italiano, il secondo da un militante del Partito Socialista Rivoluzionario). Talvolta, questi personaggi dipinti in maniera sgargiante e sopra le righe da Wells, oltre che politici, sono anche imprenditori che fanno impresa da soli, “uomini soli al comando” – come direbbe un giornalista odierno – dall’attitudine prepotente. Wells restituisce – come accennato – il suo assioma che conduce puntualmente ad una raffigurazione autarchica e plutocratica di quei soggetti che generano una sorgente di potere non subalterna, pertanto indipendente, contrastante, alternativa da quella del potere che lo scrittore giudica benevolo che è sempre incoronante verso elite scientifiche o economiche di stampo internazionalista. In contrasto con questo fatto tuttavia lo scrittore inglese fu ammiratore di Stalin – almeno prima di rimanerne deluso – e in maniera minore di Lenin. Si ritiene corretto puntualizzare che più che un estimatore, Wells è stato in verità – almeno per quel che appare – un circospetto scrutatore del bolscevismo, dando l’impressione d’esser quasi in attesa di capire se quest’ultimo potesse essere in grado di affrancarsi dal principio marxista, riformarsi e di operare un mutamento sociale di alto livello similmente alle idee del socialismo di stampo fabiano al quale poteva somigliare da un punto di vista burocratico, e al socialismo “nel modo anglosassone di intendere la parola” come lo stesso Wells sottolineava più volte nel parlare con Stalin. Tale impressione veniva già confermata da uno dei commenti finali in Russia in the Shadows (1921) dove Marx viene definito “monumentalmente pedante” ma al tempo stesso viene sottolineato che bisogna “comprendere e rispettare le professioni e i principi dei Bolscevichi per fare un “intervento utile” in Russia, affinché il suo collasso sociale non trascini con sé la civiltà occidentale“. [19] Forte di una fama incrementata dalla pubblicazione del sopracitato Outline of History, e grazie anche all’intercessione del suo vecchio amico e grande scrittore russo Maksim Gorkij, H.G. Wells incontrò Lenin per porgli domande e scrivere a riguardo. Lo scrittore inglese non si pone in maniera ostile al bolscevismo, sembra anzi osservarlo con rispetto ma al tempo stesso anche in una maniera sghemba e indagatrice. In Russia in The Shadows viene senza dubbio elogiato il pragmatismo dei Bolscevichi e di Lenin, ai quali viene riconosciuto il merito di aver reagito al “più grande collasso sociale” senonchè, i due elementi, in special modo Lenin vengano al fine liquidati come i fattori che “hanno spogliato ormai anche l’ultima pretesa della rivoluzione russa di essere qualcosa di più di una lunga era di esperimenti sociali“. Anche rispetto all’interessantissima opera del 1942;  Modern Russia and English Revolutionaries, sulla quale non ci dilungheremo avendone parlato nell’articolo su Noi di Evgenij Ivanovič Zamjatin, l’entusiasmo di Wells è crescente nella particolare pubblicazione riguardante Stalin rispetto alla sua intervista a Lenin. Uno degli aspetti interessanti di Wells è che la sua bibliografia, sia nella parte narrativa, che in quella giornalistica, propagandistica e saggistica, ancor più da La Guerra dei Mondi in poi è estremamente comunicante nella sua interezza, ma anche nel suo essere quasi suddivisa a “grappoli”, ovvero gruppi di opere che appaiono particolarmente comunicanti, come si è visto nel precedente caso di Open Conspiracy, che giunge a compimento di un “grappolo” di testi che ne anticipavano le riflessioni. Appare piuttosto chiaro – seguendo questa logica – che Marxism vs Liberalism (Wells e Stalin, 1934) , circostanza dove Wells – dopo Thomas e Julian Huxley, Lord Bryce, JBS Haldane e molti altri – aggiunge anche Stalin alle sue importanti “collaborazioni” , sia in comunicazione con quella che forse è la sua distopia principale The Shape of Things to Come (1933), uscita quasi contemporaneamente alla “chiacchierata” con Stalin. La visione di Wells in The Shape of Things to Come riguardante Roosevelt appare contrastante con quella che lui sembra far emergere in Marxism vs Liberalism. Nella pubblicazione riguardante Stalin, le ragioni di fondo che animano ogni intervento sono essenzialmente due, da una parte quella riguardante una diffusione definitiva del socialismo in generale nel mondo, dall’altra, se Roosevelt possa essere mai il veicolo di questa diffusione che dovrebbe iniziare con il New Deal. Wells ha scelto Stalin per dare queste risposte che non si possono descrivere senza un paio di considerazioni basilari.

Un qualsiasi critico dello stalinismo – che provenga dalla sinistra o no – può riconoscervi la tirannia e il fallimento causati da Stalin stesso in quanto uomo e leader con umane lacune, altri potrebbero addurvi in aggiunta anche il fallimento della sua dottrina, nella quale si trovano secondo gran parte degli storici molte criticità. Si può altresì considerare semplicemente Stalin, come conseguenza originata ovviamente da Lenin in quanto suo precursore, posto tuttavia che Lenin prese le distanze dal populismo russo anti-zarista, riconducibile ai termini turgeneviani del “nichilismo”, mentre Stalin, diversamente, è emerso nutrendosi di quel sostrato riconosciuto dagli storici come “populista” per eccellenza e ritenuto precursore dei rivoluzionari ottobrini. Se invece teniamo conto soltanto delle definizioni più neutre e meno giudicanti, esistono voci e opinioni che pur condannando l’uomo, assolvono la dottrina stalinista salvandone alcune parti. Occorre tuttavia essere onesti, se per Hitler è possibile dire genericamente che “qualcosa non torna” in quanto si riesce difficilmente a conciliare due cose in conflitto come quello che sembra un suo rifiuto verso il darwinismo e il settore dell’eugenetica himmleriana che invece lo promuove; per Stalin il discorso appare invece piuttosto chiaro. Laddove scientisti e promotori dell’eugenetica russi, come Yuri Filipchenko e Nikolaj Kotsov, ebbero ammiratori in occidente nonchè successo e man libera sotto Lenin, la situazione risultò invece diversa sotto Stalin che ha avversato così tanto l’eugenetica del “darwinismo religioso” da abbracciare addirittura il lamarkismo in funzione anti-darwinista. Nelle aree di propaganda internazionalista e liberale vengono pedissequamente riproposte lucrative e fin troppo facili “mostrificazioni” di Stalin e di Hitler senza tuttavia indagare in queste zone nebulose con serio impegno. Affermare ciò non vuol dire ovviamente simpatizzare Stalin e Hitler, bensì rendersi conto che di un giudizio morale e attualizzato se ne può fare ormai a meno e che sarebbe più costruttiva una analisi distaccata e contestualizzata. D’altro canto, anche negli spazi marxisti, si viene a contatto con una efficace capacità di disinformazione e di seminare confusione. Talvolta viene detto che Filipchenko e Kotsov diffusero le teorie durante lo zarismo il che è comprovatamente falso, in quanto entrambi – oltre ad essere troppo giovani – furono arrestati nel tardo zarismo mentre al contrario sbocciarono professionalmente durante la guida di Lenin per poi venire annientati invece da Stalin che – come detto – apprezzava molto Jean Baptiste de Lamark, ma soprattutto apprezzava il lamarkista più significativo che la storia ricordi: Trofim Lysenko. La “passione” di Stalin per Jean Baptiste De Lamark e Trochym Denysovic Lysenko ovviamente è inquadrabile – più che per una vocazione scientifica – come risposta al “darwinismo estremista” proveniente dall’Inghilterra. Questo spiega – almeno in minima parte – il perchè H.G. Wells, dapprincipio ammiratore di Stalin, che fu stimato dal maestro della fantascienza per il suo anticlericalismo persecutorio, estirpatore e stragista verso il popolo ortodosso; e per il suo colossale burocratismo che trovava un apparente alter ego in versione occidentale nel fabianesimo, rivalutò in negativo il leader georgiano. La già menzionata pubblicazione Marxism vs Liberalism (1934) , che appariva a doppia firma (H.G. Wells & Stalin) è una lunga intervista piuttosto singolare, dove Wells “ausculta ma non ascolta” Stalin che invece risponde con pazienza, punto per punto, e in maniera piuttosto solida allo scrittore e divulgatore scientifico britannico. I recensori hanno sempre avuto la tendenza a commentare questa intervista asserendo che Wells ponesse domande secondo le prospettive dell’umanità intera e di tutti i ceti sociali. In realtà, se proprio vogliamo dirla tutta, Wells appare focalizzato esclusivamente nei panni di dirigenti, figure specializzate, tecnici e burocrati che lui dipinge come potenziali fautori del “miracolo” di portare un socialismo e una giustizia sociale nel mondo, per mezzo della loro competenza prestata alla politica. Non c’è dubbio che Wells ammirasse in Stalin la mentalità burocratica, atea e anticlericale, ma nell’intervista lo stesso Wells sembra assumere toni benevoli verso Roosevelt del tutto fittizi, per indurre Stalin ad esporsi esprimendo un giudizio e una valutazione su Roosevelt e sul suo “livello di socialismo”. Stalin riporta costantemente alla realtà Wells, mettendo – volontariamente o meno – in luce l’ambiguità di un intellettuale che da un lato esprime l’auspicio di un sopravvento socialista su un sistema finanziario al crollo come quello occidentale, ma dall’altro si augura anche che la transizione del “reset” sia portata avanti da burocrati che rappresentano lo strato intermedio in ogni settore tra popolo e “gestori mondiali”. A prescindere dall’antidarwinismo stalinista che già di per sé potrebbe rappresentare un punto di inconciliabilità, la visione di Wells e quella di Stalin non riescono ad incontrarsi poichè il primo, dalla mentalità che verte al socialismo fabiano, vede nel burocratismo e nel socialismo dei mezzi per portare a compimento un reset finanziario e una riprogrammazione della società su scala globale; il secondo invece concepisce un burocratismo che pur essendo egualmente pervasivo ed estremo come quello fabiano, è visto come condizione direttamente organica al centro del potere, nonchè situazione stabile e definitiva su scala “regionale” ed etnocentrica, il presupposto è quindi diverso e lo scontro delle due visioni verrà al pettine, poichè Stalin appare basato unicamente sul concetto di “socialismo in un solo paese” senza operare astrazioni, ovviamente, sulla “Rivoluzione permanente” che è un concetto di paternità marxista ma privilegiato in fin dei conti dai trotskisti. Wells insisterà reiteratamente nel porre Roosevelt come destinato allo stesso punto di arrivo di Stalin, mentre Stalin – pur elogiando il coraggio e la capacità del presidente americano – non lascerà passare nessuna delle affermazioni dell’intellettuale inglese. Eppure, solo un anno prima, nella distopia The Shape of Things to come, Wells sembra avere idee completamente diverse su Roosevelt rispetto a quelle sott’intese che affiorano nei suoi interventi insieme a Stalin. Non è poi molto difficile cercare di arguire il reale pensiero di Wells su Roosevelt, ma prima arrivare a questa conclusione che di certo interessa anche il romanzo The Shape of Things to come, si rendono necessarie alcune considerazioni.

Dopo gli effetti positivi del taylorismo l’Amministrazione Harding successiva alla presidenza di Woodrow Wilson era alle prese con una recessione, dovuta in parte anche a cause residue inerenti al conflitto mondiale appena trascorso. Certamente Harding non è stato un eroe, la sua politica aveva un’impronta fortemente clientelare e spesso in odore di corruzione, ed egli rispondeva senza dubbio agli interessi dei magnati del petrolio e dei gruppi influenti dell’Ohio. Tuttavia non si può negare che Harding tentò di mettere in atto alcune manovre per contenere la crisi che non era ancora di dimensioni incontrollabili. Nel ritorno da un viaggio in Alaska il presidente Harding si ammalò di polmonite e il suo vicepresidente Coolidge lo sostituì. Per quanto Harding non fosse certo la perfezione, con il successore presidente degli Stati Uniti Calvin Coolidge la situazione cambiò; e non esattamente per il meglio. Quest’ultimo insieme ai dirigenti di JP Morgan (famiglia di bancari con i quali lo stesso Coolidge era imparentato) si avvalse in maniera diversa rispetto ad Harding dei servigi di Andrew Mellon. Sotto l’Amministrazione Harding , Andrew Mellon era Segretario del commercio, ma fu poi spostato alla Segreteria del Tesoro quando  Calvin Coolidge salì alla guida degli USA. Il milionario magnate dell’alluminio e fondatore della MN Bank Andrew Mellon, insieme al presidente Coolidge e i suoi parenti nella JP Morgan & Co. gonfiarono la crisi con manovre utili a dilatare le bolle speculative che poi esplosero nella Grande Depressione. In altre parole vi fu un eccessivo ricorso al credito, proporzionale all’assenza di limiti e regole per le attività speculative e per gli investitori, furono infatti deregolamentate le banche, ogni investimento sull’economia reale venne fermato ed inoltre Mellon e i suoi collaboratori configurarono schemi di prestiti a dir poco vantaggiosi per speculatori e brokers. Furono inoltre applicate politiche di austerity sul popolo, sia prima che dopo un richiamo al pagamento a tutti gli speculatori e brokers che avevano accumulato debito che arrivava a 5,7 miliardi nel 1928. Da notare che gli speculatori furono richiamati al pagamento immediato dopo che la crisi fu alimentata e gonfiata a dovere. Questo comportò ovviamente l’esplosione della bolla finanziaria, nessuno poteva pagare quei debiti senza comportare il crollo dei mercati e come sempre avviene durante le crisi, alcune persone “privilegiate” ne beneficiarono ricevendo prima le informazioni. Tra coloro che si sono arricchiti con la crisi della Grande Depressione vi era Prescott Bush, padre di George H.W. Bush (Presidente dal 1989 al 1993) e nonno di George W. Bush (Presidente dal 2001 al 2009); fondatore della Banca Commerciale legata ad interessi tedeschi Brown Brothers Harryman e condannato in seguito per tradimento ai sensi del Trading With the Enemy Act per aver finanziato attività colluse con il nazismo. Nel 2007 la BBC riferì che secondo le indagini della Commissione McCormack-Dickstein, Prescott Bush partecipò al complotto che portò al colpo di stato fallito di Smedley Butler e del Bussiness Plot. Nel libro “Facing the Corporate Roots of American Fascism” il giornalista socialista John Spivak scrisse che a suo modo di vedere, la Commissione delle attività antiamericane volle fermarsi all’incriminazione dell’estrema destra di Smedley Butler, non andando fino in fondo pur essendo chiaro che vi fossero altri collaboratori dietro il Business Plot. La crisi iniziata nell’ottobre 1929 portò al fallimento di moltissime banche e si diffuse anche in Europa,  oltre che comportare ovviamente il crollo dei prezzi, confische di proprietà dei cittadini, suicidi, disoccupazione e, tanto per non farsi mancare nulla, una crisi dell’oro provocata dall’uscita dal Gold Standard da parte di Londra nel 1931 che aggravò notevolmente la difficoltà degli Stati Uniti durante la Grande Depressione.

Il dilagare inarrestabile della Grande Depressione creò l’opportunità per i vertici del potere finanziario di consegnare definitivamente il potere alle banche centrali con la creazione della “Banca dei Regolamenti Internazionali”, appoggiata dalla Società delle Nazioni e dall’Inghilterra che annunciarono nella Conferenza Economica di Londra che era necessario combattere la crisi istituendo una Banca Centrale madre per le altre banche centrali. Questo piano tuttavia trovò una durissima opposizione di Roosevelt, alla quale si aggiunse quella della  controversia di Hugenberg.

Il tanto interessante quanto ambiguo Alfred Hugenberg, si oppose in maniera parimenti forte a quella di Roosevelt proponendo inoltre un piano coloniale per la Germania verso Africa e Europa Orientale come reazione alla Grande Depressione. In quel periodo, Paul Von Hindenburg era Presidente della Repubblica di Weimar e Kurt von Schleicher occupava il posto di cancelliere. Si ritiene utile far menzione di questi soggetti che hanno vissuto il complesso periodo transitorio della Repubblica di Weimar verso il Terzo Reich non certo per ricchezza di cronaca, bensì perchè è innegabile che il blocco Von Hindenburg-Von Schleicher-Hugenberg rappresentò una fortissima opposizione al progetto mondiale della Banca dei Regolamenti internazionali voluto principalmente da Londra e la Società delle Nazioni. Occorre ricordarsi che questo fu l’anno in cui Von Schleicher subì il colpo di stato da parte dei Nazisti che portò Hitler all’ascesa, così come anche Roosevelt – guarda caso – fu coinvolto non solo in un attentato nel 15 febbraio, ma anche dal summenzionato tentativo di colpo di stato del Business Plot operato ufficialmente dall’estrema destra. Ci sono molte ragioni per credere che per l’Inghilterra, liberarsi di Kurt von Schleicher, fu certamente un gran sollievo, ma il respiro esalato per tale sollievo non fu altrettanto profondo dal momento che fu Roosevelt – pur rimasto essenzialmente l’unico oppositore – a mandare all’aria i piani della Conferenza Economica di Londra già a partire con l’Emergency Banking Act. Questi fatti ovviamente potrebbero dare adito alla supposizione che Londra possa esser stata contenta nel lasciar man libera a Hitler se non addirittura – ragionando su un piano completamente ipotetico, ben inteso – parte attiva nel “colpo di stato soft”. In fin dei conti Hitler ha de facto compiuto il lavoro sporco di far cadere Von Schleicher. Non si ritiene tutto ciò impossibile, ma nel fare queste considerazioni , prima che si prenda la decisione sulla cosa in cui credere, occorre tuttavia tenere presente degli aspetti impossibili da ignorare.

Il primo è che Kurt von Schleicher, durante il suo tempo nella Repubblica di Weimar, giocò una delicatissima partita fatta di compromessi, intrighi e accordi segreti; tentennamenti, macchinazioni e giochi di sponda tra i Hitler e i suoi Nazionalsocialisti, Von Hindenburg e i suoi nazionalisti, i monarchici e centristi moderati di Heinrich Bruning, e vi è stata più di una occasione in cui egli non disdegnava affatto l’appoggio di Hitler e dei Nazisti. Un secondo aspetto da considerare è che Alfred Hugenberg, al quale nessuno nega il comportamento meritorio in occasione della Conferenza economica di Londra, oltre ad essere promotore del colonialismo africano, appoggiò sensibilmente Hitler e fu ministro dell’agricoltura e dell’economia con Hitler al potere, salvo poi essere licenziato – per motivi non attinenti alle nostre questioni-  ma conservando un posto d’onore come “ospite” del Reich. Un ulteriore fatto incontestabile è che Hitler – che sia stato aiutato o meno da Londra e dai cartelli finanziari internazionali per rimuovere un avversario scomodo come Von Schleicher – ha operato una distruzione del signoraggio bancario e della speculazione finanziaria non certo meno decisa di quella di Roosevelt e che ha ben pochi eguali nella storia.

Nella assoluta disperazione di una Germania in rovina dopo Il Trattato di Versailles, sottoposta ad obblighi di risarcimento alle nazioni partecipanti in guerra; alla speculazione sul Marco Tedesco e l’inflazione, oltre che alla Grande Depressione che giunse ad infierire dal “contagio” americano verso il Vecchio Continente e all’umiliazione delle condizioni della sconfitta, Hitler e i Nazional-Socialisti giunsero al potere. In breve tempo, il ministero dell’economia del Terzo Reich fu teatro di due licenziamenti, il primo già citato di Alfred Hugenberg ritenuto troppo istrionico e divisivo, il secondo, Kurt Schimitt, inviso a molti industriali ebbe problemi di salute e gli fu indicato un lungo riposo. Hitler, non del tutto soddisfatto del suo operato ne approfittò per licenziarlo, fu quindi sostituito da Hjalmar Schacht , già amministratore della Banca di Dresda durante le ultime fasi dell’Impero Prussiano; Presidente della Reichbank e Responsabile Economico nella Repubblica di Weimar, nonchè tra i fondatori del principale Partito di centro-sinistra, il Partito Democratico Tedesco. Pur non condividendo molte idee del Nazional-Socialismo, Schacht era fortemente avverso dalla pesante condizione imposta da Versailles e oltre ad una convenienza di fondo che non si deve certo spiegare, il revanscismo hitleriano fu senza dubbio un motivo del suo avvicinamento

“Il Trattato di Versailles è un ingegnoso sistema di provvedimenti che hanno per fine la distruzione economica della Germania.“

Non che Hjalmar Shacht sia un personaggio poi così considerato nei media principali e negli alt-media italiani, ma è possibile ipotizzare già un argomento di opposizione a questo discorso. La stragrande maggioranza degli opinionisti o divulgatori del mainstream o della contro-cultura direbbe che Shacht è pur sempre appartenente all’Estabilishment, in fondo si incontrò in passato con JP Morgan – aggiungendo tuttavia che strinse la mano anche a Roosevelt stesso – e nondimeno proveniva da una scuola di pensiero di liberalismo classico che permeava il Partito Democratico Tedesco nel quale lui è “nativo”. Ma se occorre a tutti i costi metterla proprio su questi piani anche il riferimento più monolitico del sovranismo (italiano e non solo) , John Maynard Keynes era un fabiano, spesso entusiasta per le idee e le opere di Herbert G. Wells , nonchè promotore dell’eugenetica e direttore della British Eugenics Society, eppure al contempo salutò l’opposizione di Roosevelt alla Conferenza Economica di Londra come “Magnifica“. Si potrebbe aggiungere anche che Roosevelt stesso aveva come Advisor principale James Paul Warburg, membro di quella famiglia – Gli Warburg Dal Banco, si intende – sovente definita come “famiglia braccio-destro” o ancor peggio “i valletti” dei Rothschild, eppure questo non impedisce di riconoscere che l’azione di Roosevelt nella circostanza della Grande Depressione fu quanto di più opposto al centralismo bancario delle oligarchie finanziarie, e fu ammirevole anche grazie alla mediazione dello stesso Warburg con le controparti nella Conferenza Economica di Londra. Allo stesso modo, immaginiamo che sarebbe una bella lusinga per il proprio ego velleitariamente intellettuale poter dire che Kurt von Schleicher e il colonialista Alfred Hugenberg – dei quali non si contestano certo le eccellenti capacità e gli indiscutibili meriti nelle circostanze descritte – siano stati la “parte dei buoni” insieme a Roosevelt, sistemando Hitler la dove sta meglio, alla parte malvagia del tavolo della storia, come agente quantomeno lasciato libero se non addirittura aiutato da Londra e dai vertici del potere finanziario, e di certo non è assurdo sospettarlo. Tuttavia la realtà mostra anche altre evidenze. Ciò che ha fatto Hitler – che piaccia o no – è qualcosa di assolutamente avverso ai cartelli finanziari con ben pochi eguali nella storia e in una maniera ancor più decisiva delle meritorie manovre roosveltiane. In fin dei conti l’operato di Hitler e Shacht è del tutto simile a quanto fecero Lincoln e  Roosevelt, e a quanto farebbe l’italia oggi se potesse stampare denaro e applicare una politica keynesiana sul proprio deficit. Ciò è incontestabile a prescindere dal fatto che Hjalmar Shacht sia stato, o non sia stato parte dell’Estabilishment.

Quanto sarebbe bello – e come non capirvi – poter disegnare una bella mappa più conveniente possibile che divida i buoni dai cattivi, che posizioni coloro che ci sono antipatici nel posto che gli spetta e che si giustifichi sempre quelli che invece ci sono “simpatici” secondo anche quanto ci è più comodo in base alle nostre attività sociali, frequentazioni e convinzioni ma – ahinoi! – si teme purtroppo che tutto, nella realtà, sia molto più asimmetrico di quanto si creda. A ben vedere perfino lo scenario elettorale al tempo finale della vita di Weimar, soprattutto nell’ambiente marxista si presenta in modo piuttosto illogico secondo il modo di ragionare “dell’intellettuale medio”. 

Pur tenendo conto del significato delle violente lotte di strada e nei Pub che tumefacevano le facce degli esponenti giovanili del nazismo e del comunismo, e non certo dei capi e fondatori di partito, i due partiti di sinistra massimalista: il Partito Social Democratico (al tempo marxista, oggi di centro-sinistra)e Il Partito Comunista Tedesco (quello che fondato anni prima da Rosa Luxemburg, tanto per intenderci) non hanno fatto molto per fermare l’ascesa di Hitler che anzi, ha avuto gioco piuttosto facile. Al tempo Hitler era molto più focalizzato sulla soppressione del bolscevismo che sull’antisemitismo eppure, nel 1932, il Partito Comunista Tedesco, al tempo diretto ad Ernst Thalman, si alleò con i nazisti per organizzare lo sciopero finalizzato al collasso della Repubblica di Weimar. Da considerare inoltre che nel Novembre del 1932 i consensi del Partito Social-Democratico erano attorno al 20%, quello del Partito Comunista Tedesco al 16%, mentre i Nazional-Socialisti di Hitler al 33%, il resto era distribuito tra Partito Democratico Tedesco (Centro Sinistra Liberale), Partito Centrista Tedesco (Moderati cattolici) e i vari restaurazionisti monarchici. La scelta strategica del Partito Comunista Tedesco fu quello di emarginare i Social-Democratici ed emanare un programma elettorale dove tutti i partiti furono considerati fascisti (compresi quelli di sinistra massimalista) prevedendo che Hitler al potere sarebbe imploso nell’esacerbare la lotta di classe all’estremo, perdendo quindi credibilità e aprendo la strada verso una rivoluzione che avrebbe portato una Germania Sovietica. Ma ciò non è avvenuto, Hitler è stato in tutta evidenza più capace di quello che credevano gli analisti del KPD e altrettanto evidentemente la loro percezione del Nazional-Socialismo non è stata esattamente come la immaginiamo, è bene quindi proseguire il discorso su Shacht senza il bisogno di riferirsi necessariamente alle sue conoscenze o fedeltà all’Estabilishment anglo-tedesco.

Per risolvere una situazione senza uscita a causa delle imposizioni del Trattato di Versailles, che avrebbe visto soccombere la Germania sotto i colpi della speculazione, degli obblighi e dei debiti, Hitler e Shacht decisero di compiere un passo decisivo, iniziando un progetto ambizioso di ristrutturazioni pubbliche, strutture contro allagamenti e calamità, strade, case, ponti e infrastrutture di ogni genere, fissando un costo ipotetico e accompagnando il tutto con la creazione di Certificati Lavorativi del Tesoro. Questa sorta di banconota non inflazionata non fu fissata con il controvalore dell’oro, bensì semplicemente basata sul valore di cambio di tutto ciò che genericamente possedesse valore, perfino anche come attestato di rilascio in cambio di un lavoro svolto. I biglietti venivano spesi per beni e servizi e misero in moto il motore economico tedesco.

Per ogni marco che viene stampato, noi abbiamo richiesto l’equivalente di un marco di lavoro svolto o di beni prodotti“.

Il cuore di questo meccanismo deve la sua efficacia al fatto che i biglietti stampati erano obbligazioni ufficialmente rilasciate dalla “società di ricerca metallurgica“, funzionando come ricevuta di scambio ma anche come una moneta fiscale, in grado di stimolare il mercato interno e il flusso di investimenti e liquidità senza il bisogno di possedere oro o debito, anche perché nessuna banca era disposta a fare credito al Terzo Reich. Il risultato di queste operazioni resero la Germania una potenza mondiale in 5 anni, e ne bastarono solo due per riassorbire quasi tutta la disoccupazione nel tessuto sociale tedesco. L’efficacia del lavoro di Shacht fu incrementata – nonostante il boicottaggio internazionale inflitto alla Germania – anche dall’economia del riarmo voluta da Hitler, dalla severa regolamentazione imposta sulle banche e dall’applicazione del baratto che fu intrapresa per aggirare le banche internazionali. A ben vedere, le soluzioni adottate da Hitler e Shacht non furono molto diverse dai Greenbacks di Abramo Lincoln e dalla manovra della Corporazione per la ricostruzione finanziaria di Roosevelt. Sebbene quindi dapprincipio – si potrebbe ipotizzare – l’Inghilterra potesse forse ritenere positivo l’abbattimento dello scomodissimo Von Schleicher  e creare un nemico all’Unione Sovietica, l’imprevisto slancio della Germania del Terzo Reich diventò di gran lunga una delle peggiori paure di Londra.

Grazie alla resistenza di Roosevelt, il blocco di potere della Conferenza economica di Londra capitolò e il presidente degli Stati Uniti poté quindi mettere in atto il New Deal per mezzo di alcune manovre decisive come la nomina di Ferdinand J. Pecora a capo dello U.S. Securities and Exchange Commission. La Commissione Pecora portò alla sbarra moltissimi criminali, lobbisti e speculatori di Wall Street e da queste operazioni derivò il New Glass Steagal, con il quale Roosevelt operò una separazione tra Banche Commerciali e Banche di Investimento, con una conseguente applicazione separata di regolamenti. La Federal Reserve fu messa in condizioni di controllo e regolamentata, e al contempo Roosevelt sviluppo un sistema creditizio alternativo, svincolato dai controlli bancari e dall’oro, piuttosto simile al sistema MEFO creato da Hitler e ai Greenbacks di Lincoln, il quale prese il nome di Reconstruction Finance Corporation. Ciò permise agli Stati Uniti di disporre di liquidità senza bisogno di oro o debito e da questo derivò la possibilità di avviare la costruzione di edifici, infrastrutture e opere pubbliche. Roosevelt portò a compimento un lavoro incredibile con risultanti di assoluta efficacia, che riportarono in vita banche e imprese e comportarono un elevato riassorbimento della disoccupazione. A prescindere dal  pensiero sul New Deal in generale, sul trovarvi difetti o meno o dal riconoscere alcune lacune sul tempismo di Roosevelt di alcune scelte – sebbene sia più facile scegliere i tempi giusti dal divano di casa – bisogna onestamente ammettere che non passò giorno, ora o minuto in cui il leader democratico non fu avversato da attriti esogeni e di riflesso anche interni. Come Lincoln venne minacciato dagli Inglesi con l’esacerbazione del secessionismo, come d’altro canto anche la germania fu boicottata da tutti i commerci, esclusa da ogni credito e schiacciata sotto le vessazioni del Trattato di Versailles anche Roosevelt ebbe costantemente attriti e palle di piombo incatenate alla caviglia, basti pensare ai contrasti creati dallo stesso Ufficio di Bilancio nell’amministrazione Roosevelt, riguardo alla decisione di uscire dal Gold Standard, o con la chiusura prematura del Civil Works Administration. Ancor più significativi furono gli attacchi direttamente provenienti dal Wall Street e dalle banche newyorkesi che diminuirono l’erogazione di prestiti in fasi sensibili della ripresa dalla crisi; o anche facendo scendere i prezzi dell’acciaio, o mettendo sotto pressione Roosevelt con critiche mediatiche pretestuose o addirittura, con il già citato tentativo di colpo di stato del Business Plot.

Per tornare più direttamente al nostro discorso, la politica economica di Hitler-Shacht e quella di Roosevelt hanno raggiunto un risultato simile per un altro aspetto inerente alle “nostre” questioni. Entrambe sono la causa della grande crisi mondiale che Herbert G. Wells ipotizzò nel suo “romanzo distopico” The Shape of Things to Come.

La natura di Shape of Things to come come romanzo distopico è del tutto particolare, se non unica, sia vista da un punto di vista letterario che da quello puramente sociale. Anzitutto l’opera è la manifestazione più compiuta del “Mondo Primario Predittivo” dello stile socio-distopico wellsiano, sebbene questo abbia avuto raffigurazioni già precedenti, in piena risposta al Mondo Misterico verniano, al Mondo Secondario morrisiano, al Mondo Planetario Burroughsiano e,  anche al Mondo Perduto a cui Howard una consistenza iconica e definitiva negli anni venti. Si potrebbe dire in linea generale che Wells abbia ispirato Aldous Huxley e che sia stato un suo precursore nonchè una delle sue più significative influenze. Non ci sarebbe stato nessun Huxley e nessun Orwell da citare senza Wells. Tuttavia The Shape of Things to come – che è la distopia “regina” di Wells – arriva due anni dopo Brave New world e da un punto di vista stilistico-letterario appare decisamente in ritardo rispetto alla portata innovativa generale di Wells sulla fantascienza. Più che una vera e propria distopia, Wells scrive un romanzo fondato su un autocompiacente e suggestivo pessimismo, composto da uno zeitgeist profeticamente opinionistico, “tuttologico” ed elucubrativo. La distopia di Huxley da un punto di vista stilistico appare superiore, maggiormente “mitescente” e sottile nell’esprimersi come una vera distopia in quanto storia – non semplicemente pessimistica – ma di antitesi speculare all’utopia, lasciando quindi l’interpretazione ambigua “a contrasto”. Questo è ciò che realmente rende distopico un romanzo letterario. In questo, William Morris ha anticipato senza dubbio entrambi gli scrittori di una sessantina di anni, sempre che non si includa nel merito anche Samuel Butler in Erewhon sul quale tuttavia si dovrebbe fare un discorso diverso. Sebbene Storia della Pianura seducente (1890) sia stato inserito tra i migliori romanzi Fantasy da Michael Moorcock – ad esser onesti – questo è assai lontano dall’essere un romanzo perfetto. Appare ben visibile che il romanzo sia stato scritto su un’idea inizialmente cestinata che doveva essere il terzo atto della “Saga degli Wolfings” per poi venire sfruttata per Story on a Glittering Plan. Nulla di sconvolgente naturalmente, molti scrittori, vedasi R.E. Howard , hanno più volte deciso di destinare ad usi diversi storie inizialmente cestinate. Tuttavia l’opera si dimostra meritoria di aver predisegnato la distopia in senso stretto del termine intesa come “contrasto in antitesi” con l’utopia sfociante all’interpretazione ambigua. Il protagonista del romanzo di Morris, Halbithe, affronta nella Landa degli Immortali un contrasto distopico/utopico dove l’agio, l’immortalità e la serenità consistono anche in uno svuotamento e nullatenenza sia materiale che valoriale. Morris risponde a Loocking Backwards 2000-1887 di Edward Bellamy non solo con Notizie da Nessun Luogo, ma anche con Storia della Pianura Seducente poichè è proprio in questo romanzo ch’egli riesce a spiegare il fondo ambiguo di essere sereni ma nullatenenti, di essere inconsapevoli nel ridursi ad ingranaggio di qualcosa di controllato dall’alto; di una serenità che tuttavia è accompagnata da una quiete debilitante sia nella materia che nei sentimenti, e appare significativo anche il modo di parlare del Re della Landa, che parla di bellezza, uguaglianza e di pace ma “con un tono troppo accattivante per essere contraddetto“. William Morris ci suggerisce pertanto di contraddirlo. Lo scrittore esprime in una ambientazione fantastica-medievale, per mezzo di un patema estetizzante una retorica e una filosofia dal doppio fondo. La differenza tuttavia tra Morris e i distopisti è che in Storia della Pianura seducente, la distopia di contrasto viene creata interamente nei contenuti del suo pensiero letterario e umano, rimanendo pertanto nella sua natura critica, simbolica ed estetica. I casi di Brave New World (Huxley, 1932) ; The Shape of Things to come (Wells, 1933) e 1984 (Orwell, 1949) ,al contrario rappresentano manifestazioni perfette di romanzi commissionati dall’esterno, svolti innegabilmente bene, da autori eccellenti, ma non autoctoni al mondo letterario. Nei tre grandi “baronetti” della distopia viene espressa una narrativa di anticipazione basata sul riferimento dei progressi della scienza e sui “programmi predittivi” e ben sappiamo che tutti e tre – contrariamente a Morris – hanno largamente fatto uso di informazioni provenienti dagli apparati governativi e da varie consorterie e club. Questo fenomeno non è iniziato con loro e non terminerà con loro, e a riguardo si potrebbero citare decine e decine di esempi. La gittata futurologica di Wells, Huxley e Orwell è decisamente elevata ma innescherà un ricorso eccessivo nella fantascienza alle ipotesi futurologiche basate sugli sviluppi tecnici e militari, comportando un assottigliamento della predizione al futuro sino agli apici negativi odierni dove i romanzi distopici sono addirittura “socialmente arretrati” e “in ritardo” rispetto ai tempi della realtà, basti vedere le opere del Realismo Isterico o delle correnti del post-modernismo – e non solo fantascientifico – a partire dalla fine degli anni ’80 di autori come Ellis, Wallace, Palanhuk o Eggers, che parlano – giusto per esemplificare una parte irrisoria del loro paradigma – di capitalismo e liberismo classico in un mondo che già da tempo ha attraversato il “reset” finanziario.

Tralasciando tuttavia le questioni prettamente letterarie, estetiche e stilistiche, si deve ovviamente riconoscere che The Shape of Things to Come è un romanzo distopico di altissimo interesse per mille altre ragioni – delle quali una è già stata poco sopra anticipata – che vanno oltre a quella più ovvia, ovvero la precisione dell’approssimazione predittiva delle dinamiche della Seconda Guerra Mondiale e di altre crisi future esposte nel 1933, oltre a tutte le altre più capillari di natura tecnologica. La crisi economica mondiale che avviene nella storia del romanzo è causata dalle economie non aurifere di Hitler e Roosevelt, con puntuali accenti sul New Deal e sull’economia del riarmo. Wells sottolinea con incisione quella che lui – in contrasto a quanto dirà poco dopo a Stalin – ritiene una politica fallimentare, vale a dire quella rooseveltiana. Un accanimento particolare nel percorso che “parte dalla distopia ma arriva alla bellezza e all’utopia” dello “stato mondiale” viene riservato ovviamente alla religione;… ma immagino che non avevate nessun dubbio a riguardo.

Il destino più infausto – neanche a dirlo – viene “gentilmente” regalato al cristianesimo e soprattutto alla Chiesa Cattolica Romana che viene soppressa da uomini della classe media – compresi anche quelli iscritti al partito fascista e comunista- costringendola a trasferire la sua sede in Irlanda a “suon di affondi – metaforici – di forcone” , dove tuttavia vi saranno comunque sollevazioni contro il papa. Perseguitata vieppiù anche in Irlanda, l’ultima e relittuale pletora di chierici si stabilirà ancor più debole di prima a Pernambuco, ma la luttuosa ascesa dell’ultimo papa – un pontefice brasiliano di pelle nera – preluderà l’uccisione del santo padre stesso e la fine della chiesa cattolica al simbolo della lapide del papa nero. Il romanzo sarà più “benevolo” con il buddismo, il protestantesimo e altre religioni la cui fine viene solo menzionata per mezzo di una annotazione di cronaca. Ma ovviamente viene chiarito che nessuna di esse sopravviverà. La fine dell’islam sarà portata a compimento da una elìte incaricata composta  quasi totalmente da americani ed europei eccetto un cinese e un africano e:… “non un solo arabo” come sottolineava George Nasser in un suo commento sul romanzo. I “gestori elitari”, una volta stabiliti a Bassora decidono dopo una riunione di estirpare l’Islam per mezzo di operazioni ibride militari, propagandistiche e linguistiche. Torna a fare capolino uno dei vecchi pallini di Wells, ovvero una “neolingua” anglofona semplificata a poche centinaia di vocaboli che viene imposta a danno della lingua araba. Già in World Brain e in Open Conspiracy Wells aveva approntato questa sua idea che lui auspicava alla diffusione mondiale, e nel vedere gli usi espressivi utilizzate oggi dalle persone sui vari social come Twitter, Facebook, o You Tube, un piccolo brivido scorre lungo la schiena. Oltre a ciò, lo scrittore di fantascienza suggeriva un’enciclopedia globale che fosse una fonte unica per tutti gli uomini, affinchè le le menti degli individui rimangano aggrappati ad una visione edulcorata della storia, della religione del mito, altrimenti – dice il Wells – i nostri problemi rimarranno sempre.

“…senza un’enciclopedia mondiale per tenere assieme la mente degli uomini in qualcosa di simile a una interpretazione comune della realtà, non c’è speranza di nient’altro che una mitigazione accidentale e transitoria dei nostri problemi”

 

Non c’è dubbio che dopo aver letto Wells venga naturale stare attenti al comportamento dei contributori di Wikipedia. Ma battute a parte, proseguiamo pure con la panoramica religiosa di Shape of Things to Come, completando con l’Ebraismo che terminerà invece a causa dell’antisemitismo rimasto in forma residuale ma diffusa. Vi saranno pogrom e operazioni di sterminio in tutta Europa, Russia, America e Africa. Il tutto avviene sullo sfondo di virulente pandemie; sollevazioni popolari continue; una criminalità sempre più intraprendente e una crisi economica epocale causata – come detto – da Hitler e Roosevelt dapprincipio per poi dilatarsi a dismisura con inarrestabili esplosioni di bolle speculative negli anni che seguono, mentre una dittatura “benevola” – così descritta dall’autore – composta da una elite di gestori illuminati, educatori, psicologi, scienziati e genetisti, che osservano dall’alto dei loro velivoli tecnologici ascende al potere, laddove invece i governi e gli stati nazionali capitoleranno uno dopo l’altro a causa delle inarrestabili disdette della crisi.

Sono molti i motivi che rendono questo romanzo singolare. Si è già menzionato il dettaglio su Roosevelt e il New Deal nonchè l’incontestabile efficacia predittiva di alcuni particolari futurologici sia macroscopici che capillari. A questo si potrebbe aggiungere il fatto che Shape of Things to Come rappresenta davvero una parte integrante del nucleo creativo fondamentale che ha profondamente precostituito la New Wave. Sarà impossibile non notare venature che faranno tornare alla mente scrittori come Anderson, Heinlein, Ellison, Brunner e molti altri. Ma vi sono altri due aspetti piuttosto interessanti. Sebbene Wells non “infierisca” sui protestanti, designandone una fine soltanto “annotata” cronisticamente , la fine dell’Ebraismo e del Sionismo comportano il fallimento dello stato mondiale ebraico che agiva in modo indipendente e parallelo, in tutta evidenza posizionato nella narrazione come un’entità rivale – e non consustanziale – della elite illuminata di Gustav de Windt, personaggio che inoltre ha vistosamente ispirato Hari Seldon di Isaac Asimov nel Ciclo della Fondazione. Un secondo aspetto da sottolineare è che – come accennato precedentemente – questo romanzo in realtà non è una distopia. Il suo Zeitgeist viene promanato in modo plumbeo, religioso e veggente, trasmettendo l’inclinazione “tuttologica” e lo zelo impettitamente ateo di Wells, ma la distopia è in realtà transitoria ed è soltanto il segmento che condurrà a scenari simili alle utopie come A Modern Utopia e altre disseminate nella produzione letteraria dello scrittore. Wells descrive l’abolizione delle classi saltando il “passaggio marxista” della dittatura del proletariato, preferendo una raffigurazione di una classe operaia che beneficia di una azione “inclusiva” – immagino che questa espressione vi dirà qualcosa – più simile ad un processo come la “mobilità sociale” che comporrà uno strato di esecutori e tecnici sottoposto a quello della “Elite gestionale”, queste figure tecniche sono quasi legate tra loro nei ragionamenti ad uno stimolo da “mente alveare” che lascia intendere una sorta di “transumanesimo etereo”. Inoltre vi è anche un dettaglio che rende Shape of Things to Come diverso. Per la prima volta Wells ipotizza e descrive un superamento della classe dei “dittatori benevoli” della sua elìte tecno-socialista chiamata in questo caso “i dittatori dell’aria“, e in altri modi negli altri romanzi. Dopo un centinaio di anni la consolidata oligarchia subirà un colpo di stato “soft” (non sanguinoso) dove i Dittatori dell’Aria saranno mandati in pensione e onorati in un evento che porterà l’utopia finale ad essere realtà per mezzo di una elìte definitiva di “Polymaths“.

Se dovesse capitare – come è logicamente possibile – di leggere Uomini come Dei (1923)The Dream (1924) prima di leggere The Shape of Things to come, si giungerebbe ad una disattenta conclusione, ovvero quella che vedrebbe i due romanzi come frutto di una fase dove Wells prenda in considerazione l’anarco-socialismo per un riadattamento nelle forme tipiche del suo pensiero. Mai conclusione – e lo si ammette onestamente – fu più ottusa e aridamente politologica. Solo dopo aver letto la vicenda di Gustav De Windt, si capisce che la natura diversa di quei due romanzi non è dovuta ad un tentativo di ipotizzare nella fiction un anarco-socialismo bakuniano convertito alla forma “wellsiana”, ma è semplicemente la raffigurazione dei “poliedrici” (ovvero i Polymaths) di Shape of things to come già avvenuta e compiuta. Da notare infatti che nei due romanzi, il mondo utopico non è al futuro ma in parallelo, come d’altronde avviene anche in Un Utopia Moderna, sfruttando un meccanismo simile ad un romanzo “Portal Fantasy“. 

Alla luce di questi fatti e di tutte le riflessioni che si è cercato di produrre si può dire che la possibilità di un mondo multipolare che va oltre alla semplice cooperazione economica, unione doganale e sviluppo ferroviario, che paventa una cooperazione tra Russia e Stati Uniti come in tutta evidenza stava avvenendo; Russia e Germania; e Russia e Cina è ciò che preoccupava maggiormente le elite progressiste britanniche allora, e i loro filantropici eredi ora, e parrebbe quasi che l’onda della Brexit, il trumpismo, il sovranismo possano essere segni di un egemonia terminata e delle scarse possibilità di sopravvivenza dell’attuale ordine mondiale basato sul debito. Ovviamente, non illudiamoci, la sconfitta delle Elite neo-wellsiane non garantisce affatto la salvezza dei popoli europei poichè non è certa la posizione del progetto globale della Cina. Mentre la Russia appare a tutti gli effetti un polo esistenziale caratterizzato da tutto ciò che l’occidente progressista e decadente non riesce ad essere, la Cina appare egualmente centralista somigliando maggiormente ad un competitore nello stesso campo da gioco piuttosto che una reale alternativa al globalismo.

I mass-media occidentali – soprattutto quando si parla degli Stati Uniti – alimentano verso il popolo la percezione di un bipolarismo puramente cosmetico composto da una destra liberale in contrasto con il suo mr hyde, ovvero la sinistra liberale. Più che mai oggi questo non rappresenta affatto la realtà. La candidatura di Trump – della quale in realtà si vociferava da anni nei gossip d’oltreoceano – ha “stanato” da subito questa visione fittizia basata su un sistema di “ombre sul muro” proiettate dalle narrazioni comunicative mediatiche, e costretto molte persone a distogliere lo sguardo dal “gioco delle ombre” della disinformazione dei notiziari e dei quotidiani e puntarlo sul mondo reale. L’elettorato odierno americano – a ben guardare – è diviso in modo “contro-riflesso”. La reale ripartizione consiste nel fatto che i democratici godono ovviamente dell’appoggio della sinistra liberale più elitarista, filistea, classista e “aristocratica”, ma anche dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. Per esser chiari su questi due “attori”, per la prima, si parla di un estrema sinistra militante o attivistica, come gli Antifascisti americani, varie fazioni sedicenti antirazziste o anche gruppi come il Black power, Black Panther, associazioni come quella degli abortisti e molte altre aggregazioni prezzolate pseudo-umanitarie di dissenso controllato o terrorismo suburbano. La seconda invece corrisponde ad un estrema destra evangelica, protestante e “simmonsiana” che invece alimenta anche l’area straussiana e neocon. Tuttavia, il cuore del progressismo americano è rappresentato dall’elìte dei proprietari delle aziende come Boing, Raytheon Tech, Lockheed & Martin, General Dynamics, ovvero corporazioni che appaltano le forniture all’esercito americano e alla NATO delle armi pesanti, a lunga gittata e ad alta tecnologia di tutti i comparti di guerra su larga scala, ed esercitano pressione sul pentagono poichè vitalmente vincolati all’interesse di alimentare la “geopolitica del dollaro” sul piano globale. Un’erosione del dollaro significherebbe mettere in pericolo la globalizzazione e questo costringe le summenzionate aziende – delle quali certamente Lockheed & Martin è una possibile leader/frontman – a tenere salda la sottomissione dell’Unione Europea che viene utilizzata come arma burocratica, economica, retorica e mediatica, e al tempo stesso ad utilizzare la NATO e gli Stati Uniti per tenere sempre vivi conflitti in varie zone che per motivi diversi rappresentano “pivot geopolitici”.

Ora; qui è necessario puntualizzare una cosa. Quale che siano le nostre convinzioni – euroscettiche o unioniste – ci si potrebbe mettere d’accordo se l’Unione Europea assolvesse effettivamente il suo compito, ovvero quello di assurgere come polo intermedio “di prestigio”, presente da un punto di vista geopolitico, ma anche esercitante di una concorrenza insistente alle aziende americane e inglesi , e non meno russe e cinesi, soprattutto nella tecnologia, nell’economia, nella farmacologia, nell’informatica, nella comunicazione, e sfruttare i suoi brevetti e la sua retorica preferenziale – che è essenzialmente kantiana – per prendere una posizione sul campo economico globale e bellico; in special modo sui vari conflitti con potenzialità di escalation. Tenere fede a questo compito avrebbe potuto – nonostante le gravi lacune della UE – tacitare anche l’animo del più estremista euroscettico ma ciò non avviene affatto e Bruxelles è in realtà sempre e costantemente inadempiente su tutto, penetrata da ogni ingerenza che proviene dal mondo anglo-americano, e si mostra pertanto costantemente sottomessa a Londra e Washington. La retorica kantiana prediletta dai burocrati europei è spesa in maniera del tutto volgare, poichè Kant , e Alexander Marc che cerca raccoglierne l’eredità – in fin dei conti – privilegiava una visione federalista finalizzata ad un’ottica multipolare. Appare sicchè oscenamente ipocrita l’impalcatura retorica degli dei burocrati esecutori dell’eurozona che oggi sono a tutti gli effetti da considerare degli eversivi.

Da notare infatti a questo proposito che l’Unione Europea non rappresenta affatto un “polo intermedio” ma è anzi un aggregato di disastri finanziari gestiti in maniera tremolante similmente ad una “partita a Shangai” che è giocata da burocrati centralisti di stampo fabiano che tengono sotto controllo i malcontenti popolari con una retorica “para-religiosamente atea” wellsiana dell’emergenza del debito, e con l’altra mano, producendo denaro (con strumenti vari come il Quantitative Easing) per rasserenare i mercati finanziari. L’ Unione Europea è utilizzata semplicemente come un’arma economica, burocratica, politica e morale allo scopo di permettere alle aziende come le sovracitate Lockheed & Martin e simili di mantenere l’egemonia del dollaro, anche perchè la valuta europea è uno strumento – come si è ben visto – totalmente fallimentare e che si prepara ad essere divorato dal dollaro quando le esigenze lo imporranno. Le armi usate per mantenere vivo il globalismo internazionalista e la geopolitica del dollaro che è agli sgoccioli, non sono ovviamente solo quelle direttamente belliche della NATO e della Difesa degli USA che, anzi, entrano in campo solo negli ultimi – e decisivi – “dieci minuti della partita” per esacerbare il caos finale, né soltanto quelle burocratiche, economiche e moralizzatrici della UE, bensì anche le armi mediatiche, umanitarie, parastatali, accademiche, insurrezionaliste rappresentano un qualcosa di molto importante per esercitare la pressione del Soft Power su stati “non allineati”. Basti pensare al ruolo che assolvono Amnesty International, Save The Children, Le varie ONG, le università, le società di consulenza come Oxford Analityca, le associazioni no-profit e i movimenti di protesta di “scuola Mucchielli-Sharp”, e infine le fazioni armate di stampo insurrezionalista quasi sempre perfettamente ben accostabili al “fascismo illuminato e liberale” wellsiano. Tutto ciò costituisce una forza d’appoggio per i Democratici o quantomeno per il grande “monopartito” composto dalla sinistra dei DEM e dalla destra liberale neocon di stampo straussiano che infiltra indifferentemente sia democratici che repubblicani. La cosa importante è capire che le aziende come Raytheon, Lockheed & Martin e altre che non abbiamo nominato, che esercitano pressione sul pentagono sono in mano a azionisti, proprietari di vario tipo e Stakeholders che appartengono alla finanza speculativa: Black Rock Inc, Vanguard Group, Fondo Wellinghton e altre banche, fondi speculativi e istituti finanziari Anglo-Americani e Anglo-Ebraici.

Al contrario, l’elettorato odierno repubblicano, che tuttavia sarebbe più corretto definire ad oggi “Trumpiano” è composto da molti imprenditori, spesso di discendenza irlandese, scozzese o imprenditori ebrei maggiormente legati all’economia reale; dai conservatori cattolici e dalla minoranza dei conservatori pagani ben distinti dai neo-pagani di stampo hippy o post-moderno; e infine anche dai socialisti di sinistra di stampo nazionalista costituiti per una larga parte da neri e ispanici di origine messicana. Quest’ultimi sono almeno in parte influenzati da Eugene V. Debs che senza dubbio ha incamerato anche alcune influenze dallo stesso William Morris pur divergendo su molti aspetti.

Per essere totalmente pragmatici e corretti è bene prendersi la briga di specificare che questa forza è senza dubbio spalleggiata anche da aziende come esempio le industrie di armi rivolte al civile come Smith & Wesson o Colt, oppure da aziende come Johnson & Johnson, Industrie chimiche Koch o altre compagnie dei più vari ambiti o banche. I vari “nientologi” e “intellettuali medi” potrebbero a questo punto ovviamente obiettare che tali soggetti sono corrispondenti a industriali “autocrati ed egoisti” (!) o da “uomini soli al comando”, e certamente questo non si può negare del tutto, non stiamo certamente parlando della piccola fiammiferaia e neanche di santi benedetti, ma questi sono anche geneticamente nemici della finanza speculativa e si presume che questo fatto debba pur contare qualcosa.

I contenuti di Trump che sembrano protesi al mercato interno e alla produzione territoriale, al disingaggio verso gli obblighi esteri e “all’isolazionismo” potrebbero lasciar supporre che egli voglia spendere il suo tempo in politica per rendere gli Stati Uniti una nazione come nella visione di Lincoln e Roosevelt e non necessariamente un’entità neo-imperiale e questo aumenta le possibilità di un mondo multipolare.

Il paradigma progressista e post-moderno di ogni contenuto politico, giornalistico, culturale e artistico è invece ormai unicamente concentrato sul deformare la realtà e produrre pericoli emergenziali che non servono soltanto a sottomettere il popolo, renderlo vulnerabile al punto che siano i cittadini stessi a rinunciare alla libertà e alla dignità per essere protetti da pericoli “inevitabili” quasi implorando misure burocratiche “dure ma necessarie”, ma anche a creare una Hive Mind collettivizzata, semplificata, fatta da un immaginario semantico caricaturale e non esiste di meglio che una dottrina para-religiosa e scientista per realizzare questo. Per quanto siano numerose le variazioni, il tema rimane sempre quello para-religioso ed emergenziale:

L’emergenza del debito, l’emergenza dell’islamismo, l’emergenza del fascismo, l’emergenza delle epidemie, l’emergenza climatica, l’emergenza dell’inquinamento, l’emergenza del nazismo, l’emergenza dell’antisemitismo, l’emergenza dell’omofobia, l’emergenza della transessual-fobia,  l’emergenza del maschilismo, l’emergenza del femminicidio, l’emergenza delle dittature “simil-Putin”, l’emergenza del complottismo, l’emergenza delle fake-news e molte altre innumerevoli, tra i quali quella degli Alieni che Herbert G. Wells paventava in forma romanzesca.

La strategia consiste nel far comparire una persona “presunta esperta” in uno show televisivo o su un palcoscenico credibile (premi letterari, giornali autorevoli) e usare la sua drammaturgia – non si è detto “dramma”, noterete – o le sue presunte conoscenze per comunicare al popolo che bisogna adattarsi per un bene futuro, anche a costo di compiere un grande sacrificio. Non importa se questo soggetto, tenendo conto del lungo elenco di emergenze sopracitate, sia uno scienziato, un attore, un medico, una donna maltrattata da un marito maschilista o un giornalista censurato da un “malvagio dittatore” come Putin, quel che conta è che chi oserà contraddirlo sarà da quel momento in poi automaticamente stigmatizzato come eretico. Un fenomeno del genere è sicuramente appartenente più ad una liturgia religiosa globale che non alla scienza o ad una reale competenza in un paese democratico. 

Diversamente dalla morale, nella scienza è vitale che sia in discussione l’attributo della “Verità” perchè questa non diventi religione, come la scienza è effettivamente oggi e Wells può essere assolutamente soddisfatto.

La scienza si basa sul metodo sperimentale e su una serie di esperienze che, analizzate in laboratorio sono poi elette a stadio di sviluppo di una teoria che diventa legge tramite la politica. La politica decide che un tumore diventa asportabile chirurgicamente , ad esempio, da una data massa di cm di ampiezza in poi, tale decisione sarà senza dubbio soggetta ad uno studio e all’ingerenza dell’industria chemioterapica, e non rappresenta la verità assoluta. In Germania e a Cuba, ad esempio, i tumori sono asportabili in sala operatoria a differenti grandezze rispetto all’Italia e alla Gran Bretagna, ma non per questo i tedeschi e i cubani sono sprovvisti di verità o anti-scientifici e non per questo i morti di tumore sono maggiori, tutt’altro, basta avere il coraggio di controllare le statistiche.

Sostenere una presunta verità scientifica assoluta sotto la quale piegare la morale e la democrazia è una forma di clericale tautologia e una dannosa manipolazione in grado di tramutare una scelta politica in una verità scientifica. Lo Zeitgeist può creare una Weltanshauung, ma non necessariamente deve pervenie al “Gagenwärtig”. Ciò può solo portare la società ad un regresso distopico. Non è in fin dei conti diverso il concetto secondo il filosofo Paul Karl Feyerabend.

Nella contestazione intitolata Contro il metodo, il filosofo esaminerà le argomentazioni di Imre Lakatos e definirà la propria formulazione come basata sul suo dissenso contro il metodo alla base della scienza, contestando fin dalla concezione kantiana di scienza intesa come convergenza di verità, arrivando a discutere poi la filosofia della scienza e la nozione stessa di verità. Ciò che esprime Feyerabend è in realtà assolutamente razionale e condivisibile allorchè viene chiarito che non si può affermare come portatrice di verità nessuna scienza e che l’attributo della verità è altresì assegnato dalla politica laddove regna il bisogno o l’interesse di imporla. L’intellettuale austriaco si serve – tra le altre cose – dell’esempio sulla dissonanza che per molto tempo ha regnato tra la teoria della relatività e quella dei quanti  domandandosi:

[…] Se queste due teorie confliggono tra di loro, come possiamo affermare che la fisica dica la verità? possiamo in realtà raccontare solo un’infinità di storie raccolte nelle prove in laboratorio, ma della verità che cosa possiamo dire?(Paul K. Feyerabend) [20]

Nell’osservare all’interno dell’opera di Feyerabend, un Imre Lakatos incarnare in maniera così ferrea i concetti derivati da un ultra-positivismo tecnocratico viene in mente che perfino Gustave Flaubert, in Madame Bovary, per quanto sia ovviamente incline al positivismo di August Comte e per quanto tenda ad incarnare in Emma Bovary tutti i falsi miti (o almeno ritenuti tali dai positivisti) del tardo romanticismo non esprime certamente giudizi leggeri per la rampante borghesia positivista che esce in realtà malconcia, ad un secondo livello di lettura scavato sotto a quello di superficie, da una storia come quella di Madame Bovary.

..Gli scienziati lavorano meglio se sono al di fuori di ogni autorità, compresa l’autorità della ragione..” [21] (Paul K. Feyerabend)

Sarebbe certamente utile rendersi conto che ogni risoluzione contro ognuna delle emergenze e degli zeitgeist della religione post-moderna wellsiana-huxleyana sarà un salasso al corpo già anemico della democrazia e comporterà pesanti rinunce alle proprie libertà sulla promessa clericale di un “bene superiore” che non ha nulla di reale o scientifico e che, probabilmente, non curerà mai la malattia e non ridarà mai quella libertà “futura” che progressivamente, ad ogni “incombenza superiore” si perderà. Dovrebbe essere ormai chiaro che questi processi comunicativi appartengono ad una retorica tautologica e para-religiosa, e ciò lo insegnano le politiche eterodirette dell’Unione Europea, o i fatti postumi all’11 settembre dove il potere tecnocratico ha approfittato di una emergenza terrorista per cercare di erodere le libertà individuali. tutto ciò mette in pericolo la democrazia già pesantemente offesa con il Trattato di Lisbona. Se questo non è evidente è probabilmente perchè la società odierna – e su tutti i filistei e fasulli intellettuali – è ormai irrimediabilmente disimpegnata su tutti i livelli, rassegnata all’utilitarismo e serenamente espropriata dei propri vincoli etici.

I contenuti delle campagne elettorali dei  partiti progressisti e liberali che, per comodità, riuniamo nel paradigmatico esempio del Partito Democratico americano, non sono ovviamente gli unici segnali della “religione ateista e scientifica” e della transizione sociale simile a quella della rivoluzione industriale, eugenetica, darwinista nell’Inghilterra di fine 800. Al contrario sono molti i segnali,  talvolta nascosti in punti insignificanti della nostra quotidianità. Sopra, abbiamo chiarito il discorso sulla retorica “dell’emergenza presente per il bene futuro”; l’altro aspetto è quello di un incremento incredibile dello sviluppo della robotica, dell’intelligenza artificiale, dell’automazione e delle valute digitali.

Nascono ogni giorno divulgatori su You Tube e nei vari blog, spesso detti “influencer, youtuber,  advertiser (e via discorrendo)” che propinano libri (ovviamente con loro codici sconto amazon) e consigliano come dedicarsi al trading, al broking, come svolgere comunicazione pubblica, cosa fare con la crisi e che spiegano davanti alle loro webcam riprendendosi nelle loro camerette piene di scatole degli “Unboxing” cosa sono i Bitcoin, cosa sono le criptovalute e come si è sviluppato il mito di Satoshi Nakamoto, oltre a svolgere “perfettamente” ovviamente, l’attivita di politologi, statisti, tuttologi, letterati, conduttori televisivi, intrattenitori, comici e spesso il tutto riunito addirittura in una singola persona. Questi soggetti, che imitano sbiaditamente la televisione su You Tube sono anch’essi del tutto religiosi e adempiono ad un culto tecnocratico diffondendo metodologie comunicative manipolative. Non serve certamente un genio per capire che tali personaggi di You Tube, contraddistinti da una tangibile nullità sociale e culturale,  non possono assolutamente spiegare al popolo come condurre una tempestosa e violenta transizione, quella della rivoluzione digitale, che interesserà la sanità, il lavoro e l’industria, e di certo non può farlo il sottoscritto, poichè nessuno può farlo neanche si trattasse di Umberto Eco o Alessandro Barbero. L’unica cosa che può aiutare un libero pensatore e cittadino di una nazione ad affrontare ciò che verrà è osservare la storia e la realtà senza il disimpegno e la faziosità nevrotica che i mass media tecnocratici, manipolativi e manichei instillano giorno dopo giorno nella mente dei popoli. Certamente Massimo D’Azeglio, William Morris e Herbert G. Wells hanno affrontato complessi momenti di “Reset” e capire il loro pensiero può fornire una angolazione della visione generale essendo quest’ultimi soggetti ideali. La storia tuttavia non è certo l’unico sentiero utile per una comprensione della realtà, fortunatamente sono molti i modi possibili. A ben vedere, soggetti come Dostoevskij o Soloviev non ci regalerebbero certo una visione meno “predittiva” e comprensibile. Curioso tuttavia – a proposito di vie alternative – che sia proprio il bravo scrittore di fantascienza Vernor Vinge – personaggio che in queste fasi finali sarà utile citare – a spiegare il maniera sintetica tutto il fenomeno odierno:

“Così tanta tecnologia…Così Poco Talento” 

Risaputo è che il nome fittizio Satoshi Nakamoto (Fantomatico inventore delle Criptovalute) nasconda una equipe “ignota” di personaggi intenti a portare avanti gli sviluppi della cybereconomy. Alcuni gossip dell’internet riconducono lo pseudonimo nipponico a personaggi come Adam Back, Bill Gates, Elon Musk, Mark Zuckerberg, Craig Steven Wright, ovvero nella maggior parte dei casi dei frontmen, o per meglio dire degli “Avatar”, per ben che vada dei talentuosi imprenditori, e non si nega certo che molti di loro lo siano, ma nel peggiore delle supposizioni essi potrebbero essere dei soggetti essenzialmente indebitati, coinvolti nei club elitari per svariate cause; legami famigliari, affiliazioni universitarie, aiuti finanziari, ricatti di varia forma; comandati quindi a bacchetta, compratori del ruolo prestigioso di “geni della tecnologia” o “Nerd che ce l’hanno fatta da soli” a ricordo di molti film anni ’80. Ma tale ruolo lusinghiero del “Nerd che ha avuto successo” è acquistato con la moneta della sottomissione assoluta e totale, soprattutto negli investimenti da portare avanti e il discorso si estende anche oltre ai “nerd imprenditori”. Potremmo stupirci infatti fino ad un certo punto per Blue Origin, Space X e molti altri marchi su cui investono soggetti come Gates, Bezos o Musk, ma ben più incomprensibile è che taluni debbano necessariamente investire in settori, ad esempio, come quello farmacologico o dei vaccini, assumendosi rischi incredibili e finendo in gineprai legali da cui ovviamente vengono sempre salvati, ma che ne compromettono l’immagine irreversibilmente. Non è quindi difficile dedurre che gli investimenti dei soggetti come Zuckerberg, Gates, Musk, soprattutto riguardanti la farmacologia e i vaccini, siano totalmente eterodiretti e strumento indicativo per capire la loro sottomissione assoluta.

“È degno di nota il fatto che la risposta a ogni tragedia o minaccia pubblica nell’America moderna sembra implicare un invito ai cittadini a rinunciare a una parte maggiore dei loro diritti” [23] (Vernor Vinge)

Sulla Criptovaluta e la Cyber-Economy la situazione è senza dubbio piuttosto ambigua. Ci vorrebbero competenze profonde di cui certamente non si dispone per stabilire come – poichè è certo che lo sarà – la criptovaluta sarà legata alle implicazioni che avranno le tecnologie postume al 4G come ad esempio il 5G, il 6G e la Realtà Virtuale “Aumentata”, che probabilmente non arriveranno prima del 2020 o anche oltre, e di cui ben poco si sa almeno nelle fonti comuni di informazione. La Criptovaluta fa il suo ingresso nella storia ben prima di Satoshi Nakamoto e all’ambiente informatico moderno, bensì affondando le radici negli ambienti Punk e Anarchici degli anni ’80 come quelli di Tim May e la sua Electronic Mailing List.  Già nel 1981, Vernor Vinge pubblicava il romanzo True Names (Uscito in Italia per la editrice Nord) dove la criptovaluta e il cripto-anarchismo venivano descritti e profetizzati, nonchè collocati come metodo possibile per sfuggire alle tecnocrazie di stati che avrebbero nel futuro imposto dittature basate sulla sorveglianza tecnologica del singolo cittadino. L’intromissione “senza mandato” nella privacy dei cittadini ha scatenato – secondo questa visione – nei punk americani e parte di quelli britannici l’impegno nel cercare un sistema economico decentralizzato e impossibile da tracciare dai sistemi bancari centralizzati.

Circa otto anni più tardi rispetto al romanzo di Vinge, nel 1989, la rivista The Economist, di proprietà della famiglia Rothschild, pubblicava la copertina dedicata a “Phoenix”, una ipotetica valuta globale nata dalla fine del dollaro e del sistema monetario in generale. Se adottassimo , come in uso nel gergo economico, la metafora del “cigno nero” per indicare la crisi, capiremmo già cosa serve per creare quelle ceneri dalle quali “la fenice”, come valuta globale, dovrà rinascere. Anche in questo caso, tanto per cambiare, Herbet G. Wells ha messo il suo artiglio aquilino. Vernor Vinge è uno scrittore classe 1944, tutt’ora in vita e spesso pubblicato da Urania Mondadori, ma la gittata predittiva di Wells rimane un motore ancora attivo della New Wave e postumi così come della distopia post-moderna con la differenza di essere di gran lunga più avanzato nel “programma predittivo”, ma è una cosa che è stata accennata qui e esplicitata nell’articolo sulle distopie. Il saggio di Wells “Phoenix” affronta, come citato nel sottotitolo, una riorganizzazione globale che dovrà condurre al governo unico mondiale, con centralità sul tema economico e sui temi affrontati già in World Brain, The World Order e Open Conspiracy. Il suo editore fu Seecker & Warburg, ovviamente legato a Friederic Warburg e alla famiglia vicina ai Rothschild. Quelle ceneri sociali ed economiche hanno sempre il solito nome ovvero quello dell’emergenza e della crisi controllata ma non per questo meno distruttiva come si è visto nella crisi del ’29 della quale larghe responsabilità – come si faceva presente -sono dei dirigenti di J.P. Morgan, di Andrew Mellon e l’ Amministrazione Coolidge.

Giusto per rimettere un po’ di ordine ricostruttivo e cercare di inquadrare storicamente questi fatti, è necessario osservare che, dallo Smithsonian Agreement del 1971 e dal petroldollaro due anni più tardi – ovviamente regolato in base a quanto stabilito a Bretton Woods – la diminuzione dei posti di lavoro nella produzione ha agito in contemporaneità con l’aumento della speculazione finanziaria e dei suoi stili sregolati formando la prima tenaglia di uno “scorpione”. Il debito diventato sistemico e normalmente accettato è stata l’altra tenaglia, mentre dalla ghiandola della coda del metaforico animale il veleno è stato iniettato tramite gli appalti esterni sistematici, o se preferite “l’outsourcing” , dato che a molti l’inglese comincia ad esser più chiaro dell’italiano. Gli appalti esterni diventati sistematici hanno paralizzato le sovranità nazionali oltre che renderle dipendenti da mano d’opera a basso costo e da risorse a prezzi competitivi.

Appare ironico che molti, oggi, non riescono a decidere se questo rappresenti il fallimento o il successo della globalizzazione, più modestamente potremmo rispondere noi dicendo che tutto l’asse di ragionamento varia in base agli intenti iniziali.

Sarebbe senza dubbio necessario scorrere dagli anni ’50 e ’60, attraversare l’epopea di Rockefeller e della Power Corporation. Ma essendoci dilungati fin troppo è bene concederci il lusso di evitare questa ulteriore ricostruzione. Nell’affrettare pertanto ogni considerazione potremmo segnare come data iniziale di un cambiamento radicale globale il 1992, nell’Earth Summit di Rio de Janeiro dove furono esternate molte di quelle declinazioni “wellsiane” che noi oggi associamo alla globalizzazione non in senso geopolitico e talassocratico del termine. Basti vedere lo strapotere alle ONG e, non meno, una retorica basata sull’emergenza ecologica e sui benefici del digitale. Il prodromo di questi fatti è potenzialmente da ricercare negli anni ’70 e nella fondazione di UNEP, che fu coordinata da Maurice Strong (già partecipe con Rockfeller nelle sue attività petrolifere negli anni ’50). Strong esercitò il suo ruolo al fianco di soggetti come George Soros e del meno noto Lord Mark Malloch Brown, nonchè del premio nobel per la pace Lester B. Pearson, nell’organizzare l’avvio degli sviluppi dell’ideologia ambientalistica che oggi ha rimpiazzato la coscienza genuinamente naturalistica ed ecologica. A ben guardare già si vedeva una differenza ecologista piuttosto sostanziale dal primo Wells, più ruskiniana, al Wells “post-guerra dei mondi” dove invece troviamo già un ecologismo di stampo post-moderno.

William Morris, nella seconda metà dell’800, nutriva ben pochi dubbi sul fatto che le elìte dominanti operassero scientificamente su un impoverimento materiale e morale delle masse. La sua analisi dei rapporti produttivi delle imprese – secondo Edward Palmer Thompson – si è rivelata la migliore [24] sia sul presente che sul futuro rispetto a tutte le analisi condotte dai marxisti e questo perchè derivava anche da Thomas Carlyle e dalla critica al Cash Nexus che appare curioso da rispolverare ora, in una riflessione che vede invece il sopracitato Vernor Vinge, quale preconizzatore visionario della Criptovaluta, a lasciarci con l’ipotesi che quel Cash, che per Carlyle “non deve essere l’unico rapporto umano” [25] sia uno degli ultimi ostacoli da eliminare. Se nei tempi della Rivoluzione Industriale, Carlyle, poteva vedere nel Cash-Nexus il simbolo più paradigmatico della spersonalizzazione dei rapporti umani, oggi, ai tempi della Rivoluzione Digitale, Post-Industriale e della Green Economy avrebbero visto l’eliminazione del “Cash” come invece una delle ultime mosse per eliminarli del tutto,… quei rapporti umani.

Appaiono di ben altra portata – non solo perchè di molto antecedenti – le previsioni e le analisi di William Morris rispetto a quelle di Orwell, Huxley e Wells e dei tanto citati distopisti che molto sono amati dai citazionisti isterici dell’internet odierna. Si presume che non serva spiegare la differenza tra chi intravede mali sociali attingendo solo dalla propria visione analitica e saggezza rispetto a coloro che invece promanano degli zeitgeist e delle Profezie para-religiose poichè addentro ai Club e ai Pensatoi dei “gestori”. Essi non forniscono mai risposte reali, bensì soltanto soluzioni fuorvianti ed esibiscono uno zelante manto di verità che non si esprime in una vera previsione, ma in una diffusione di procedure suggerite dall’esterno composte da informazioni precise abilmente compenetrate ad impianti metaforici. Sono d’altronde libri assai adatti al lettore odierno, così ricchi di aforismi e frasi citabili destinate più al citatore che finge di leggere che al lettore che ha più fretta di capire rispetto a quella di citare. D’altro canto, sono ben note le “Black List” di Orwell, nelle quali egli, in forza ai servizi segreti britannici, segnalava e schedava artisti, attivisti, intellettuali, politici in base alle loro idee e alla loro inclinazione alla propaganda governativa. Mentre i messaggi dei distopisti sono letti in maniera specchiata e fuorviante, usati a slogan da entrambi le fazioni contrapposte e polarizzate, popolate da un immaginario collettivo costruito “ad alveare”, le parole del Morris appaiono ancora inequivocabili e cristalline, molto più realiste di chi lo accusava – marxisti, socialisti e non – di scarso pragmatismo, salvo essere di gran lunga meno rintracciabili. Non si può infatti negare che Morris fu in grado di prevedere le forme più nefaste del Welfare State e della degenerazione degli intellettuali e dell’arte, d’un regresso culturale che, nella seconda metà dell’800 era certamente più arduo da individuare rispetto ad oggi. Egli aveva prima d’ogni altro previsto nella fine dell’800 le Guerre Mondiali e i mali che il colonialismo avrebbe portato. Cercò di essere un rivoluzionario senza la presenza di una rivoluzione, e non era la rivoluzione socialista a mancargli, ma quella per contrastare un violento “reset sociale” verso la tecnocrazia e lo scientismo che egli aveva previsto in tempi difficili. Fu diviso e opposto dai marxisti che intrapresero una deriva autoritaria, e si oppose fermamente all’opportunismo, l’inclinazione massonica e il burocratismo dei fabiani. Molti cercarono di corteggiarlo, di attirarlo e vi fu un periodo che effettivamente ebbe successo tra la “Borghesia Filistea“, ad esempio con il suo poema Earthly Paradise, o con i suoi prodotti artigianali molto costosi che iniziarono ad aver accesso nei salotti importanti ma egli fulmineamente cambiò rotta, molto prima che tal successo gli comportò vantaggi, e così “rifiutò la fama come si rifiuta una calunnia“, [26] addentrandosi in questioni complesse e diventando parziale causa, da suo stesso conto, di un calo di notorietà a cui probabilmente non era destinato, aggravato certamente dall’oscurantismo della sinistra e della cultura in generale. Come si specificava anche nel precedente articolo, Il suo lascito è estremamente sottovalutato. Non si può negare che quando Morris incappò nel suo declino politico, rimanendo isolato e sempre più lontano dalle correnti dominanti, la Socialist League, privata del suo carisma ha dato vita ad una fazione basata su un anarchismo piuttosto bislacco, eccentrico e intellettualoide ben lontano da quello che era prima e da ciò che Morris aveva in mente. Non si può negare che si deve probabilmente a lui;  sia la parte migliore di un pensiero patriottico, genuinamente folk e nazionalista, nonchè dal “socialismo non marxista, ma nativo d’inghilterra” come sostenne il patriota, scrittore e giornalista Robert Blatchford, sia la zona migliore della sinistra nell’area laburista, ereditata da Fred Jowett che si era formato – proprio come il Blatchford -nella Art and Crafts e nella Socialist League. Anche i sindacati di Tom Mann, come sottolineava più volte Edward Palmer Thompson, fanno parte dell’eredità almeno parziale di Morris. Ma si deve soprattutto a William Morris quel pensiero ricco, multiforme, elusivamente spirituale; medievalistico e antimoderno che appartiene alla fantasia eroica e che troveremo maggiormente in Tolkien e così anche in Lord Dunsany e Eddison che certamente ne epureranno tutta la parte più ottimistica. Non certo al di fuori dei suoi meriti è il concetto di “Merrie England” anch’esso rintracciabile nel già citato Robert Blatchford, ma anche in scrittori come Howard Pyle e nuovamente J.R.R. Tolkien. Fu proprio sotto l’aspetto morrisiano-blatchfordiano del “Merrie England” che Moorcock criticò sarcasticamente il creatore del Signore degli Anelli. Occorre certamente far presente di nuovo come Morris abbia creato un concetto suo di “individualità” e “uguaglianza”, di “Kosmos” e “Etnos” che hanno instillato un principio riformistico e innovatore del socialismo e non necessariamente quello di sinistra. A questo punto è lecito chiedersi, o ancor meglio affermare:

ebbene!…allora William Morris è stato l’intellettuale perfetto!?

La risposta è nonostante tutto: … no. Si teme che almeno in questo, Morris, benchè sempre in buona fede e mosso da oneste ragioni, debba accontentarsi di essere come il 99% degli intellettuali e più estensivamente degli esseri umani, poichè il suo operato non è stato del tutto privo di mende. Egli commise in tutta evidenza molti errori ed ebbe talvolta una gestione innegabilmente testarda. La guida della Socialist League non fu sempre ben portata e sarebbe irrazionale negare che come Leader egli abbia compiuto scelte sia politiche che comunicative discutibili, da un punto di vista strategico, mai opinabili sotto il profilo etico, e questo certo non è poco. Entrare nel dettaglio in questi ambiti significherebbe dover parlare di questioni politiche capillari, nell’Inghilterra della seconda metà dell’800, e si presume che arrivati a questo punto dove tanti argomenti sono stati consumati, non sia molto utile – ed in effetti potrebbe essere perfino del tutto irrilevante -imbatterci in circostanze come i rapporti con i sindacati, con il Partito Laburista, o con le varie sezioni politiche, ma si potrebbe sintetizzare tutto esaminando un aspetto attraverso un punto di vista più radicale ed essenziale.

Si ha l’impressione che Morris, seppur del tutto in buona fede, si sia attardato troppo ad interpretare e riflettere su cosa fosse realmente il significato finale del comunismo e del socialismo, forse rimandando a lungo nella sua vita un confronto finale e definitivo su come i suoi intenti e il suo pensiero antimoderno, sprezzante per la corrotta civiltà moderna “plutocratica del capitale irresponsabile” potessero convergere con esso. Forse quello di Morris non è stato il miglior modo – nè il più definitivo – di affrancarsi da un ambiente che precocemente si era rivelato come una casa “non del tutto accogliente” per le sue inclinazioni da pensatore. Seppur il sottoscritto non abbia – e vi assicuro che è così – alcuna preferenza religiosa, si avverte inoltre una certa mancanza di una affermazione finale cristiana di William Morris, che certamente ha trovato i suoi modi per esprimersi, e non lo si nega affatto, nel suo elusivo ed ecologista  “druidismo cristiano” ad esempio, o nel suo ottimismo e anti-positivismo estremo, eppure in base all’angolazione con cui si guarda questo intellettuale si avverte talvolta un senso di incompiutezza ed è forse proprio la mancanza di una affermazione cristiana che avrebbe forse completato il suo pensiero, pur ammettendo che agli occhi di molti, tale destinazione lo avrebbe forse reso fin troppo “banale” e “comune”. Ma su questo dovremmo specificare sul finale un paio di cose. A questo proposito si rende quasi necessario citare una affermazione del tutto ingenerosa e lapidaria di Gilbert K. Chesterton, che nel saggio Twelve Types afferma sarcasticamente che William Morris “si è condannato ad essere senza spessore”.

Potremmo certamente mettere in conto che Chesterton abbia guardato la cosa da un punto di vista cristiano, essendo egli un irriducibile e fervente cattolico e che forse anche a lui – che molto di Morris condivideva – sia mancata questa “affermazione cristiana”. E’ bene inoltre chiarire che la natura della frase è del tutto provocatoria, risulta assai chiaro che se il Chesterton, decise di scrivere un saggio dedicato a “dodici apostoli dell’intelletto” includendo William Morris in una dozzina che prevede San Francesco, Re Carlo II, Lev Tolstoij, Charlotte Bronte, Thomas Carlyle, Girolamo Savonarola, Alexander Pope, Walter Scott, Robert L. Stevenson; non trovasse lo “spessore” di Morris così inadeguato. Ma la “brutale” (si fa per dire) sentenza assume un senso quando la nostra interpretazione intuisce che Chesterton non avverta soltanto la mancanza – della quale egli tuttavia non fa affatto menzione – di una definitiva “affermazione cristiana” ma anche di una posizione definitiva della sua idea sociale. Estimatori o no di Morris, ci si dovrà rendere conto che il più celebre amante di Dickens – e non lo si può negare – parli a buon titolo, poichè William Morris ha avuto effettivamente due grandi “completatori” del suo pensiero e il primo è senza dubbio J.R.R. Tolkien – non a caso grande amante sia di William Morris stesso che  di Gilbert K. Chesterton – che ha saputo portare alla massima espressione le tradizioni letterarie e non solo da un punto di vista stilistico. Il secondo è fuor di dubbio lo stesso Chesterton, che pur partendo da una base simil-socialista, ha rivendicato con grande forza e senza reticenze il suo pensiero cristiano, la sua divergenza dal socialismo, e aiutato da Hilaire Belloc ha sviluppato un pensiero anche da un punto di vista politico economico, con il “Chesterbelloc“, ovvero il Distributismo risolvendo gli insoluti che purtroppo hanno spesso caratterizzato Morris. Sarebbe tuttavia erroneo pensare che questo finale così concentrato nel sottolineare le possibili inadempienze di Morris sia ridimensionante. Risulterà infatti sorprendente che è proprio analizzando le sue criticità che si arriva ad una successiva dimensione del suo pensiero.

William Morris è stato un ottimo Distributista, forse il primo. Sembra esserci una curiosa idea prevalente che fosse un socialista…(Gilbert Keith Chesterton)

Mettendo da parte un fatto che da par suo potrebbe sembrare abbastanza curioso, vale a dire che G.K. Chesterton, l’inventore del pensiero politico chiamato Distributismo (ribattezzato Chesterbelloc) veda in Morris “forse il primo distributista“, è utile considerare che l’intervento di Chesterton riesca a risolvere non poco il paradosso del “socialismo non socialista” di Morris, e ci è utile a decifrare quella sua avversità verso la pretesa totale di centralizzazione e nazionalizzazione che effettivamente, è piuttosto in conflitto con il socialismo. L’Archivio Cattolico internazionale delle Notizie, tramite il suo organo di stampa chiamato Catholic Worker, chiarì tempo fa a suo modo questi dubbi:

William Morris, oggi non è conosciuto per la maggior parte delle persone. Alcuni ricordano il suo nome come quello di un Santo, altri come artista e decoratore, e altri ancora, come poeta e romanziere […] La sua critica poetico-artistica al capitalismo, però, rivela un solco Interessante. Un grande errore è aspettarsi che una critica sociale sia irrilevante solo perchè provenga da un poeta e non da una specialista economico. Morris era un uomo dall’intelletto altamente levigato, un antimoderno, disprezzava la civiltà e i contrasti di ricchezza e povertà, ha previsto la Grande Depressione e lo stato cronico di disoccupazione chiamata da lui “fame artificiale”. Era un socialista? solo in senso etimologico del termine […] non era favorevole all’accentramento e nazionalizzazione assoluti. In altre parole era un distributista. Morris e Chesterton odiavano quelle forze che tendevano alla meccanizzazione. La lettura di Bellamy ha allontanato Morris da tutte le dottrine che prevedono un altro grado di centralizzazione dello stato. Morris è andato contro Bellamy immaginando una società agreste contro quella centralizzata e altamente industriale. In modo diverso la lettura di Morris fu influente per Chesterton, e lo trasformò in un Distributista. (Di George A. Cevasco, Catholic Worker, N. 9, 1950)

Tali posizioni sono state senza dubbio rinverdite in momenti più recenti. In uno degli studi dell’Università di Sidney, Bruce E. Mansfield, sottolinea che […]una cosa sorprendente di Morris è il modo in cui i successivi intellettuali lo hanno rivendicato per le proprie filosofie o programmi. GK Chesterton dichiarò che esisteva un’idea errata secondo cui Morris fosse un socialista. Era lui ad aver ragione, Morris non era infatti un socialista; era un distributista. Questo presumo significhi che debba essere considerato un collega di G.K. Chesterton. […] Apparentemente il suo nome è stato di per sé un potere sufficiente per essere stato un’arma efficace nelle lotte politiche di generazioni successive al suo. Gli uomini hanno fatto di tutto per mettere in relazione le proprie idee con quelle di Morris.” [27]

Come si è visto, sottolineare le fasi più critiche e vulnerabili di Morris non ne ridimensiona affatto la sua straordinarietà, né impedisce di riconoscere che abbia anticipato in maniera sorprendente molte delle cose di cui oggi e altre volte si è parlato in campo letterario, politico, filosofico, sociale, e per vie indirette anche economico, e tutto ciò è stato fatto in una veste molto più diretta di quella del “semplice precursore”. Se Wells ha avuto sempre la “lunga gittata” predittiva in campo tecnologico e in tal funzione anche sociologico, Morris ha avuto un affondo straordinariamente profondo nella natura umana riflessa in ambito politico, artistico e sociale. Tutto questo non impedisce neanche di trovare unico il modo in cui nella figura di William Morris comunicavano tipi diversi di dimensioni intellettuali e personali; quella pragmatica, locale e provinciale, dove Morris – socialista o meno – faceva impresa e stava al suo negozio Marshall e Faulkner (o William Morris & Co.) , essendo  ” […] molto pratico, ha insistito per imparare lui stesso la tecnica di ogni fase delle sue operazioni di produzione. Aveva prezzi elevati e non ha rimandato a nessun cliente, non importa quanto esaltato. A chiunque non andasse bene avrebbe trovato un uomo robusto e con la barba folta con indosso un grembiule da operaio e uno di quei cappellini rotondi. Cosparso di vernice o imbrattato di grasso, che citava burberamente i suoi alti prezzi alla nobiltà su base: prendere o lasciare (L. S. De Camp)“[28] ma anche quella solitaria e individuale, dove scriveva i suoi romanzi fantasy, indossava l’armatura, saliva a cavallo e menava colpi con la spada, un modo diverso forse di sfogarsi rispetto a Robert E. Howard che praticava pugilato, per essergli simile tuttavia sul fatto di scrivere Fantasy e soprattutto, nel caso dell’Howard, il genere Sword & Sorcery. Ed infine quella dell’intellettuale d’alto profilo, che si scontrava faccia a faccia con pezzi da novanta del mondo politico e intellettuale inglese e internazionale, che trattava con disprezzo soggetti che tutto erano fuorchè “locali”, come personaggi prominenti dei Fabiani, politici e funzionari di stato. Non molte persone saprebbero ricondurre in un solo uomo tali dimensioni personali e intellettuali, e un matrimonio non troppo felice, e il rischio di compromettere i rapporti con le sue due figlie, Jenny e May è una conseguenza quasi ineludibile. Senza la presunzione di dire d’aver terminato o avanzato a livello superiore un argomento, cosa alquanto improbabile soprattutto se si tratta di soggetti come Morris, si potrebbe tuttavia arrivare con cautela a considerare che giungere a Tolkien e Chesterton permette di arrivare ad un punto significativo nella comprensione di Morris, e infine sopravanzarlo a cuore più leggero rispetto ad uno studio condotto soltanto nelle prospettive degli studiosi che prendono ad unico punto di riferimento quello socialista e marxista impantanadosi in un impasse ormai assai paludato e secolare; ad insoluti opprimenti, a soluzioni stagnanti, sempre e puntualmente inespresse e insoddisfacenti, poichè quella socialista è chiaramente – e penso lo si sia capito – un’ottica stretta per Morris. Includendo Chesterton e Tolkien scaturisce una visione maggiormente profonda.

Questo consente certamente di tornare con una visione diversa a riscontrare le solite e ormai fin troppo menzionate similitudini tra Morris e Tolkien, ma anche di rintracciare quelle dello stesso Tolkien con Coventry Patmore, Algernon Swinburne – che certamente richiama maggiormente Lord Dunsany – o con Francis Thompson, ma non meno includere la “Merrie England” di Robert Blatchford e riconsiderare al contempo ciò che appare tutt’ora difficilmente spiegabile – soprattutto per le analisi basate sul socialismo – come ad esempio la rappresentazione di Londra di Notizie da Nessun Luogo, di Burgdale di The House of The Wolfings; dei villaggi contadini attraversati dal prete della chiesa di St. James ne la storia di Un Sogno di John Ball, e per diretta conseguenza nella Contea degli Hobbit de Il Signore degli Anelli, per un’idea identitaria, familiare e folk, priva di conflitti di classe, organicamente comunitaria che porta a compimento i migliori propositi di ciò che Gilbert K. Chesterton, Hilaire Belloc e Padre Vincent McKnab si auguravano nel loro movimento, la Distributive League, fondata nel 1926 e scaturita anche – tra le altre cose – da una disfida scoppiata proprio contro i due fabiani Herbert G. Wells e George Bernard Shaw. Come è ben noto, il distributismo elabora la dottrina sociale cattolica sulla radice del pensiero di San Benedetto da Norcia, per essere poi sviluppata prima da Papa Leone XIII nel Rerum Novarum e in secondo luogo da Pio XI nell’Enciclica del Quadragesimo Anno. Sarebbe ovviamente riduttivo ridurre l’opera di Tolkien e nello specificio, Il Signore degli Anelli ad un ruolo inerente a rappresentare alcune convinzioni del Distributismo, quest’ultime infatti sono una delle tante sfumature del capolavoro di Tolkien, che non manca di esprimere la sua visione benedettina e chestertoniana nella rappresentazione della Contea, ma accrescendo il tutto ulteriormente, attraverso una glorificazione definitiva d’insieme che è altamente simbolica, soprattutto nella riforgiatura della spada e la ricostruzione della monarchia verso un genuino patriottismo dinastico che non ha alcun sentore suprematistico legato al “cognome” di Isildur, ma è anzi del tutto per il popolo, contrariamente alle iniquità della sovrintendenza di Denethor. Il matrimonio di Aragorn con Arwen, figlia di Elrond sovrano di Gran Burrone consacra definitivamente il regno riforgiato degli uomini al legame con la natura ancestrale, l’Albero Bianco di Gondor torna vivo, non solo come rinascita che richiama Nimloth e Isildur, ma anche come legame ricongiunto con Galathilion e Telperion e quindi con un implicito riflesso a Valinor. L’uomo pertanto assume ancor più aulicamente perfino anche rispetto a Morris il suo ruolo nobilitato di custode defintivo di un legame antico da cui non è escluso come nella marginalizzazione umana naturocentrica di Ruskin, dei decadentisti, e in seguito Lord Dunsany, Bierce, Blackwood, Lovecraft o Smith. Tornando tuttavia alla dottrina di Chesterton-Belloc, certamente il fatto che il cardinale John Henry Newman, fu importante sia per Belloc che per Tolkien non è un elemento minore in queste considerazioni.

“Di particolare importanza è il rapporto della Contea con il Distributismo di GK Chesterton e Hilaire Belloc. La visione di Tolkien della Contea era sorprendentemente simile a quella adottata negli anni ’20 e ’30 dalla Distributist League, di cui Chesterton era presidente. Il credo distributivo secondo cui la proprietà privata dovrebbe essere goduta da quante più persone possibile, in modo che le persone siano liberate dalla “schiavitù salariale” delle grandi imprese o del monopolio statale, appare sinteticamente ne Il Signore degli Anelli” (Joseph Chilton Pearce) [29]

É stato senza dubbio fondamentale riferirci in questa riflessione alla storia, letteratura, politica, religione e scienza, ma non meno importante si è rivelato rivolgersi verso valutazioni implicite riguardo all’anticonformismo intellettuale, su come quest’ultimo sia veicolo di riflessi, percezioni e intuizioni che contribuiscono a generare visioni immanenti o trascendenti all’interno dell’immaginario collettivo, attraverso fattori imponderabili come la ricerca dell’originalità, della verità più obiettiva, o di un “districante” tra l’ambizione personale o l’immersione in un progetto collettivo; la decisione di abbandonarsi alla propaganda; il giudizio sul significato della coerenza e della contraddizione nella propria vita; l’individualismo o la scelta della causa di gruppo; la scelta dei propri nemici accurata quanto quella dei propri amici, e moltissimi altri fattori infiniti in un elenco che potremmo aggiornare, ancora e ancora, e far durare giorni e giorni, e che sarebbe ben più lungo del flusso di coscienza più ispirato e straripante mai fatto da Joyce. Questi fattori comportano le “crisi” e i “disordini” dell’anticonformismo e determinano la natura di un intellettuale, nonchè il suo reale significato organico sia interiore che rivolto alla società e agli individui che la compongono. 

Esistono senza dubbio degli intellettuali e anticonformisti che comprendono sin da subito quali sono le “crisi” e i “disordini” e nel riconoscersi estranei o fermamente contrari ad essi, generano il proprio pensiero in linea con una armonia che consiste nel non dover adattare la propria etica – profonda o solo esternata – alle inevitabili contraddizioni o ad un senso discrepante della coerenza. Taluni, non temendo affatto il pericolo del conformismo e della banalità, sono per netta conseguenza poco soggetti a cadervi. Che siano ritenute “interessanti” o no le loro conduzioni di vita o convinzioni religiose, J.R.R. Tolkien e G.K. Chesteron rientrano certamente in questa assai rara tipologia di intellettuali.

Esiste anche una casistica diversa e ben meno rara, tutt’altro, del tutto frequente, ovvero quella di intellettuali e anticonformisti che invece – al contrario – sono assolutamente dipendenti dalle loro “crisi” e “disordini”, e che vivono tenendo il loro pensiero sempre attentamente ritardatario dal raggiungere una soluzione a quest’ultimi che è anzi perennemente rimandata, poichè senza le loro “crisi” e i loro “disordini” sarebbe troppa la paura di degradare alla banalità o alla percezione propria di conformismo, sicchè di diventare “il nulla” poichè in fin dei conti costoro sono essi stessi le loro “crisi” e i loro “disordini”. Questo genere di intellettuali di cui ne è assolutamente pieno il mondo rappresentano senza dubbio l’anticonformista “per definizione” salvo non esserlo necessariamente “per natura”, poichè rientra nella piena logica che temere più di ogni altra cosa il conformismo e la banalità come le più terribili paure, porti ad una ricerca assidua per trovarvi scampo, finendo tuttavia per tutto paradosso più facilmente nel loro baratro. In fin dei conti, volendo metterla giù nei termini più semplici, perfino per la psicologia essere banalmente sé stessi – quale che sia la natura del “sé” – rappresenta il più grande atto di anticonformismo, e ricercare banalmente o nelle maniere più confortevoli l’originalità comporta facilmente la discesa nel conformismo, perfino in forma peggiore rispetto a quello “dell’uomo comune”, categoria quest’ultima assolutamente fondamentale, nonchè imprescindibile condizione d’esistenza dell’equazione per questo tipo di intellettuali. Essendo questa la stragrande maggioranza degli anticonformisti e degli intellettuali vissuta nella storia del mondo,  sarebbe abbastanza inutile provare a buttar giù un elenco di nomi che rappresentino il punto massimo del loro paradigma, ma si può cercare di essere concreti senza mancare di specificare che questo non è assolutamente un giudizio né qualitativo né morale, non è affatto una divisione in “migliori” e in “peggiori” poichè è incontestabile che anche questa categoria – nonostante abbia dato vita alle più laide bassezze – abbia prodotto grandi opere di pensiero, o quantomeno cose definibili con la spuria parola “interessanti”. Herbert G. Wells si è rivelato un genere di intellettuale profondamente dipendente dalle sue “crisi” e “disordini”, anche al costo di crearne alcune del tutto artificialmente. Cosa mai ne rimarrebbe di questo straordinario scrittore da una risoluzione definitiva dei suoi “disordini”, delle sue crisi, delle sue idiosincrasie scelte per pura convenienza, dal suo moralismo ricavato dal credo sociale e politico, o altre cose ancora? e allo stesso modo, cosa rimarrebbe mai di tutti gli scrittori della New Wave, del Punk, del Post-Modernismo dopo una risoluzione alle proprie “crisi” e dai propri “disordini”? Gli appartenenti a quest’area, oggi, godono sempre della maggiore fiducia e ammirazione, ed è loro compito cercare soluzioni semplici a problemi assai complessi per “l’uomo comune”, e certamente fa parte delle possibili controindicazioni del caso che le risposte siano troppo semplici o volutamente complicate per la complessità della vita che non è esattamente qualcosa di simile alla “complicazione”, a meno che, la ribellione dell’intellettuale sia una “ribellione obbediente”. Badate bene, non si può certo dire che in questa tipologia di pensatori ci sia stata solo disonestà, pretesto, finzione, sregolatezza, eccentricità artificiosa o malafede, nè che vi siano state sempre manifestazioni peggiori, più mascherate o millantate del grande intelletto, poichè di certo si potrebbe dire che rimanendo al caso di oggi, anche lo stesso Massimo D’Azeglio di cui si sono visti sia lati positivi che negativi sia stato assolutamente dipendente dalle sue “crisi” e dai suoi “disordini”. Appare piuttosto palese – se non preferiamo nasconderci dietro le convinzioni più comode – che egli sia stato maggiormente “bisognoso” di attaccare i cattolici piuttosto che richiamato al dovere di farlo, e questo non è un meccanismo diverso da ciò che faceva Wells nelle sue lotte contro gli “egoismi e autocrazie“; o da ciò che facevano tutti coloro che decisero di seguire il positivismo, o al contrario il decadentismo; o da tutto quello che seguì anche nei contesti successivi, compresa la stragrande maggioranza degli intellettuali progressisti, sino ai tempi Beat, Hippy e Punk, e infine post-moderni, che hanno popolato tutti i generi letterari e che sono stati assolutamente bisognosi e dipendenti dalle loro “crisi” e “disordini” più che alle prese con una lotta nelle loro contingenze. Tutto ciò, sotto certi aspetti ha comportato il fallimento assoluto degli intellettuali – del quale se ne vede oggi la manifestazione – nei confronti della verità, dato che questi, nelle generazioni e generazioni trascorse, hanno preferito recedere nel giudizio critico e avanzare con quello moralistico. Cosa rimarrebbe realmente di tutti loro, senza le loro “crisi” e “disordini”? Si potrebbe dire che perfino Tolstoij sarebbe in grave difficoltà senza i suoi “disordini” e le sue “crisi”  e che anche la sua è stata più una dipendenza che una lotta contro di essi. Contrariamente agli esempi summenzionati, nel caso di Lev Tolstoij sarebbe assai ingeneroso porre la questione sulla domanda apparentemente così lapidaria del “cosa rimarrebbe se…?”, vista la grandezza epocale dei suoi scritti e del suo pensiero.  Ma ci si potrebbe vedere a metà strada e metterci d’accordo dicendo che sarebbe piuttosto difficile pensare ad un Tolstoij senza i suoi ripensamenti; ad un Tolstoij senza aspre critiche, invettive o accuse a soggetti che in realtà gli somigliavano e non poco, e che forse mettevano a nudo delle parti di lui stesso che egli non sapeva e non voleva sin da subito accettare. Sarebbe difficile, inoltre, pensare ad un Tolstoij non avvezzo a scegliere come “idoli” o “maestri” soggetti indiscutibilmente inferiori a lui, o posizionati in modo che un paragone con essi non potesse essere eclissante per sé stesso. Non è in fondo così diverso da ciò che è avvenuto nel nostro campo preferenziale della letteratura fantastica, dato che le “crisi” le idiosincrasie e i “disordini” di Moorcock sono stati straordinariamente somiglianti a quelli di Tolstoij sino addirittura ad avere un loro peso specifico nella dimensione letteraria. Soggetti come Moorcock, o in seguito George Martin, e a seguire ancora nella Grimdark Fantasy, hanno cercato a tutti i costi di essere “Guerra e Pace” della letteratura fantastica emulando del tutto le “crisi”, le “idiosincrasie auto-riflesse” e i “disordini” di Tolstoij, mentre Il Signore degli Anelli, – anche fosse nel bene e nel male – è riuscito indiscutibilmente ad essere sotto ogni punto di vista il “Guerra e Pace” della letteratura fantastica, risolvendo ognuna di quelle “crisi” e “disordini”, o addirittura esaminando punti del tutto lontani da queste. Questo non impedisce a tutte e tre le opere di Tolkien, Moorcock e Martin, alle loro differenti maniere, di essere eccellenti, poichè riconoscere questo non consiste affatto di un giudizio, nè di una discriminazione tra peggiori e migliori, ma al contrario è il prendere coscienza di un paradigma che riconosce come assolutamente decisivo il rapporto di un intellettuale con le sue “crisi” e i suoi “disordini” per valutare – nel bene e nel male – il suo impatto sull’immaginario collettvo. William Godwin, Lord Dunsany o anche Howard P. Lovecraft sono stati dipendenti dalle loro “crisi” e “disordini”, ma non si può certo dire che il loro pensiero sia insincero.

Ma non manca tuttavia una ulteriore tipologia, anch’essa come la prima assai rara, ed è quella degli intellettuali e anticonformisti sempre in lotta con le proprie “crisi” e “disordini”, forse più deboli di quest’ultimi, o quantomeno incapaci di estinguerli del tutto, ma mai, e ripetiamo mai, dipendenti e bisognosi essendo in realtà sempre ben disposti a cercare di risanarli. Gli anticonformisti di questo tipo si sarebbero ben espressi anche se liberi dalle loro “crisi” e “disordini” e tra questi, Fedor Dostoevskij nonostante tutto, è un sommo rappresentante. Se quelli del primo tipo come Tolkien o Chesterton sono spesso oggi ritenuti “eccessivamente semplificanti” nelle risposte, per netta conseguenza, gli intellettuali di questo ulteriore tipo sono invece dipinti come gli “inutilmente complicanti”. Le conclusioni a cui giungono non sempre sono molto gradite poichè questo genere di anticonformista saprebbe rinunciare facilmente perfino al proprio stesso anticonformismo, a tutte le sue crisi e ad ognuna delle sue rotture, se tale rinuncia porterebbe ad una buona risoluzione. Perfino nelle più cupe gallerie del suo sottosuolo Dostoevskij lascia sempre intravedere una possibile risposta risanante che spesso è vista nell’uomo stesso come essere umano e soprattutto come cristiano, ma questo non rende la sua risposta necessariamente “semplificante” né le riflessioni utili a raggiungerla “inutilmente complicanti”. Tenendoci tuttavia saldi ancora al nostro campo preferenziale della letteratura fantastica, altrettanto degnamente questo tipo di anticonformista è rappresentato da William Morris, e non meno da Robert E. Howard. Non esiste mai una riflessione espressa da Morris sulla vita, sull’arbitrio, sulla religione, sulla società,  che non sia coinvolta nel serio e assiduo impegno di risanare i dubbi verso una soluzione e le risposte – a ben vedere – non sono troppo dissimili da quelle poco sopra menzionate per Dostoevskij e neanche dalle altre più ottimistiche di Chesterton e Tolkien. Anche Robert E. Howard dimostra insospettabilmente questa inclinazione, soprattutto nella sua opera più celebre ovvero la Saga di Conan il Barbaro. Nonostante Howard scelga di rappresentare il suo antimodernismo non con un Cavaliere al quale ben si adattano tutti i turbamenti gotico-romantici, ma attraverso un barbaro come Conan che invece li infrange tutti, egli traccia cionondimeno un percorso ricostituente sino all’Ora del Dragone, che è un romanzo del tutto risanante con l’epica e il mondo gotico-romantico. Quella di Howard è una delle manifestazioni più importanti di un intellettuale capace di risolvere la sua crisi, sebbene in questo caso si tratti naturalmente di una “crisi” del tutto stilistica e letteraria, che ne ha comportato le sue bellezze e solo in via puramente metaforica e retorica è paragonibile alle “crisi” e “disordini” espressi sino ad ora nella loro variegata e ampia natura.

Ci si rende conto che questa, più che una considerazione finale somiglia più al principio di una riflessione, ma visto che di cose se ne sono dette già tante, e che soprattutto, non si saprebbe affatto, almeno per ora, come proseguirla, sarà il caso di fare, per quanto possibile, di queste ultime riflessioni delle degne conclusioni.

Note Bibliografiche, Note Varie, Approfondimenti e Fonti

[1] William Morris: Artist, Writer, Socialist (Di May Morris, Cambridge University Press, 2012)

[2] Fighting Talk: Victorian War Poetry – The Oxford Handbook of British and Irish War Poetry , a cura di Tim Kendall (Oxford University Press, 2007). 

[3] Terroni – Tutto quello che è stato fatto perchè gli italiani del sud diventassero “meridionali” Di Pino Aprile (Pickwick, Piemme, 2013)

[4] La Gnosi del Potere – Perchè la storia sembra una congiura contro l’umanità , Di Angela Pellicciari (Fede e Cultura, 2014). 

[5] Memorie sull’Italia di Giuseppe Montanelli (Sansoni, 1963)

[6] Edith Nesbit Collected Works Di Edith Nesbit, a Cura di Joe Bowizz (JFP, 2013)

[7] William Morris – The Man and the Myth Di R.P. Arnot (Lawrence & Wishart, 1964)

[8] I Miei Ricordi, Scritti Politici e Lettere Di Massimo D’Azeglio (Hoepli, 1921)

[9] Mr. Belloc Still Objects to Mr. Wells’s “Outline of History” di Hilaire Belloc (Sheed e Ward, 1926)

[10] Anarchism – A Beginners Guide di Ruth Ellen Kinna (Oxford University Press, 2005)

[11] Michail Bakunin – Contro la Storia di Michail Bakunin a cura di Alfredo Bonanno (Pensiero e Azione, Edizioni Anarchismo, 2013)

[12] Stato e Anarchia di Michail Bakunin (BUF Saggi, Feltrinelli, 2013)

[13] Viaggio in Italia di Michail Bakunin (Eleuthèra, 2013)

[14] William Morris Collected Works di William Morris, a cura di May Morris (AMC , 2000)

[15] Lavoro Utile, Fatica Inutile – Bisogni e Piaceri oltre il capitalismo di William Morris, (Donizelli Editore, 2009)

[16] Shock Economy – l’ascesa del capitalismo dei disastri di Naomi Klein (Rizzoli, Best BUR, 2012)

[17] America Strategy in World Politics di Nicholas J. Spykman (Rizzoli, Best BUR, 2012)

[18] La Grande Scacchiera di Zbignew Brzezinski (Longanesi, 1998)

[19] Russia in the Shadows di Herbert G. Wells (Dodo Press, 2008)

[20] Dialogo sul Metodo di Paul Feyerabed, (Laterza, 2006)

[21] Contro il Metodo di Paul Feyerabend, (Feltrinelli Editore, BEF/Saggi, 2013

[21] La Fine dell’Arcobaleno di Vernor Vinge, Urania (Mondadori, 2007)

[23] Il Vero Nome di Vernor Vinge, Cosmo Serie Argento (Editrice Nord 2003)

[24] William Morris: Romantic to Revolutionary di Edward P. Thompson (Merlin Press Ltd, 1981)

[25] Cartismo di Thomas Carlyle, Liberi Libri, (Oche del Campidoglio, 1999)

[26] William Morris: Opere di Mario Manieri Elia (Edizioni Laterza, 1985)

[27] The socialism of William Morris: England and Australia di Bruce E. Mansfeld (U.S. Press, 2008)

[28] Literary Swordsmen and Sorcerers di Lyon S. De Camp (Gateway,2014)

[29] Tolkien, l’uomo e il mito di Joseph Pearce , Tolkien e dintorni (Marietti, 2010)

¹ L’articolo di W. E. Gladstone si intitolava Bulgarian Horrors and the Question in the East

² Dall’introduzione di  Fascismo Liberale di H.G. Wells (Di Philip Coupland, Journal of Contemporary History, 2000) “… Durante gli anni 30, la teoria rivoluzionaria di H.G.Wells era incentrata sul concetto di “Fascismo Liberale” e dal raggiungimento di un mondo utopico grazie ad una elìte autoritaria […] ” . Aggiungiamo noi che Wells parlò di Fascismo Liberale e illuminato anche in una conferenza ad Oxford : – CLICCA QUI – 

Altri riferimenti di fondo

Per approfondire: U.S. Civil War: The US-Russian Alliance that Saved the Union di Webster G. Tarpley (Rete Voltaire, 2011)

Belgrado, Pioggia di Missili di Vanna Vannuccini (La Repubblica, 1999)

 – Open Conspiracy (H.G. Wells, 1928) *LIBRO INTERO*

Russian Navy visit United States *PUBBLICAZIONE INTERA*

Il Perno Geografico della Storia (H. Mackinder, 1904) *LIBRO INTERO*

How Europe Underdeveloped Africa (W. Rodney, 1973) *LIBRO INTERO*

Pubblicato da Pat Antonini

Ha studiato letterature e lingue straniere moderne. Collabora stabilmente con Hyperborea, Centro Studi Eurasia-Mediterraneo, Dragonsword e Punto di Fuga.