Questo articolo è uscito originariamente sul vecchio blog Dragon Master, stato ripubblicato su Hyperborea a ottobre 2021 nella rubrica l’angolo di Dragonsword. Qui potete leggere l’articolo su Hyperborea.
Se potessimo invadere i sogni dei lettori di Fantasy, oltre a farlo in maniera ovviamente più benevola di Gaznak – lo stregone protagonista del racconto, La Fortezza Inespugnabile, Se non da Sacnoth – chiederemmo a questi se giungono davvero dai sogni le storie di Lord Dunsany, e molti probabilmente risponderebbero che:…
sono effettivamente storie sognate e trasognate, e che ricordano quelle del successore Tolkien.
Altri potrebbero invece rispondere che più che ricordare le grandi narrazioni corali di Tolkien, esse paiono le storie che personaggi simili a quelli creati dallo stesso Tolkien si racconterebbero tra loro: nei bivacchi al fuoco durante un’avventura a Bosco Atro, in un poema nei saloni di Meduseld, in un brano musicale al melodioso suono di arpa, o più umilmente: allo scoppiettìo del fuoco del caminetto mentre fuori dalla finestrella ulula il tempestoso soffio d’inverno, o davanti ad una birra che cola di schiuma sul tavolo d’una bella locanda come quella del Puledro Impennato, in mezzo al chiacchiericcio, ai fumiganti tepori e alle sbornie, non senza qualche inquietante volto adombrato dal cappuccio levato, dal cui sguardo noi fuggiamo eppure sembra proprio – dannazione – volerlo incrociare col nostro.
Ma un buon compromesso lo si potrebbe trovare proprio in uno dei racconti dello stesso Lord Dunsany; L’incoronazione di Thomas Shap (1912), che ci offre lo spunto per definire il modo di scrivere di questo incredibile narratore con una particolare e precisa espressione che, tanto per fare un po’ di economica sintesi, visto che di chiacchiere ne facciamo tante, useremo anche come titolo per il paragrafo successivo:…
Sognato d’Antico!
Da premettere che è arduo parlare di uno scrittore come Lord Dunsany con la pretesa di definirlo in senso diffuso e generale senza rischiare di svilirne la sostanziale entità, poichè questi è un narratore che pur messo alla prova dagli anni che scorrono, e scorrono, sino all’odierna modernità non perde mai la sua magia e continua a colpire con un uso del linguaggio stroardinariamente vitale, poetico e capace di emozionare attraverso dei guizzi di retorica reattivi d’un forte spirito visionario, eppure al tempo stesso evanescente; Vivace ma tuttavia dosato e mai troppo carico verso quegli eccessi isterici che si trovano appena un passo oltre ad una attraente esuberanza o ad una ricercata eccentricità. Spesso i suoi stili sono espressi anche nel tingersi in chiaroscuro, raccontando con molti colori il meraviglioso che poi decadono altresì verso un riverbero sinistro al declino della loro esplosione cromatica, in quei momenti dove la narrativa espone i suoi pensieri sotto gli strati dell’allegoria o della metafora. l’aggettivo “pittoresco”- per quanto limitante sia, e non usato a caso si intende – si può ben adattare al modo di scrivere di Lord Dunsany, alla sua capacità di fornire un quadro d’insieme di incredibile energia anche quando – e spesso succede – le descrizioni sono approssimative. Ciò la dice lunga sulla capacità di intessere una retorica emozionale, basata certo su una grande tecnica di scrittore ma anche su un istinto raffinato nell’uso rapido della descrizione e della figura retorica. Tuttavia se pittoresco passi pure, non lo si può definire pittorico, o almeno non del tutto, poichè sebbene vi siano delle innegabili somiglianze e attitudini comuni con William Morris in alcuni episodi della sua narrativa, si riscontra anche una decisa presa di distanze dal mondo vittoriano che, quand’anche d’accatto o a “colpo di ritorno”, si presenta nelle storie dell’anglo-irlandese come una sorta di quadro spettrale, o come porticato sotto il quale soggiace un passaggio che conduce a mondi diversi secondo un’estetica che essendo onirica, e non necessariamente utopica, non risponde sempre alle stesse leggi di bellezza, seppur sempre di bellezza si tratta. Certo; Si potrebbe intravedere un retrogusto vittoriano in racconti come quelli di Belgrave Square (Il Mago Contesta, o Miss Cubbidge e il drago del poema), pittoreschi, per l’appunto, ma non del tutto pittorici. Molto spesso le circostanze o perfino gli individui e le creature mostruose sono descritte più attraverso una o due metafore emozionali ben piazzate piuttosto che su raffigurazioni e descrizioni precise dei dettagli.
La Fantasy è composta da molti impulsi e parte d’essi sono imprescindibili, come le rielaborazioni del topos mitologico, le tonalità epiche, la struttura avventurosa. Tra queste vi è una che il Barone di Dunsany pratica secondo la massima priorità: il “Senso del Meraviglioso“. Nessuno come “il Wonderlord” – nomignolo coniato all’occorrenza – ha ereditato lo stesso concetto di Sense of Wonder che possiamo rintracciare nelle avventure di Sinbad e a questo, non credete, quasi tutto è subordinato nei suoi racconti. Sarà anche vero, come molte volte si dice nelle trattazioni di fantasy, che Lord Dunsany come Morris, Eddison e Tolkien abbia attinto dalle fonti norrene. Eppure in realtà nella sua letteratura si rende più evidente un felicissimo matrimonio tra i mondi esotici de Le Mille e una Notte e quelli palpitanti e fiabeschi del folklore irlandese-celtico, due mitologie di gran lunga più empatiche e “meravigliose” di quella norrena, ammetterete. Si può ben capire che una atletica e statuaria Shield Maiden sia sempre molto desiderabile per un lettore di Fantasy, ma si direbbe che in questo caso, un nobile signore celtico abbia preferito le ammalianti conturbanze di una fanciulla esotica. Ma perchè ritenerlo così strano? in fondo anche Sherazade è sopravvissuta grazie alle sue storie, e qui si parla proprio di storie raccontate e sognate (d’antico), e infine sopravvissute, talvolta come misconosciute, ma senza dubbio recuperate anche per merito di soggetti come Lovecraft, Borges e Le Guin, che hanno contribuito a far si che Dunsany non avesse quel crollo di notorietà capitato a scrittori come James Branch Cabell.
Neanche Morris e Tolkien si estraneano del tutto da una componente celtica. Nel Plunkett tuttavia le creature sono connaturate alle loro componenti ancestrali e non hanno una approntatura etnografica. Gli Elfi non sono un qualcosa di definito, talvolta sono gente del piccolo popolo, altre volte invece, come ne La Figlia del Re degli Elfi, creature compatibili in dimensioni e forme agli umani. Gli spiriti dell’acqua o della terra possono essere rari, entità singole come popoli di milioni di individui che vivranno nel loro sito ancestrale (un particolare fiume, un colle, una landa o un monte) eppure rimangono invisibili salvo quando non desiderano appalesarsi agli occhi umani, e questo capita anche nei romanzi di Morris bisogna ammettere, che pur essendo precedente potrebbe essere un buon moderatore nei battibecchi tra Dunsany e Tolkien all’osteria di “Nessun Dove”. E che si noti che citare “Nessun Dove” ha ben poco di casuale, poichè quei luoghi al bordo del mondo sono rifugi escapistici da una Londra grigia e alienante che evidentemente turbava anche la serenità di Lord Dunsany.
“Vengano Signore e Signori che in qualche modo sono stanchi di Londra, vengano con me anche coloro che sono arcistufi del mondo che conosciamo: perchè abbiamo nuovi mondi qui” (Lord Dunsany, nel prologo di Book of Wonder) [1]
Tenendo presente che l’area del medioevo è in linea di massima pervasiva nei Fantasy basati su un “secondary world“, si nota nella letteratura di Lord Dunsany la mancanza di un concetto preciso di quest’ultimo. Molti altri scrittori di Fantasy, per quanto possano edulcorare e ridefinire concetti inventati di Medioevo non mancano di chiarire quale “medioevo possibile” intendono raffigurare sottolineando le differenze del loro medioevo romanzato in base ai tropi e ai profili scelti: Quelli utopici e pre-raffaeliti per Morris, o pervasivamente germanici per Eddison e Tolkien, o in forma di cupa e fatale leggenda “franco-cavalleresca” per Moorcock; che è un veemente tuono di dramma che irrompe in un cielo che narra il destino di eroi regurgitati fuori dallo stato di grazia; arrivando quindi ai “CMF” (Classic Medieval Fantasy) di Dungeon and Dragons o di David Eddings che potremmo riconoscere come una bilanciata, semplificata e organizzata sintesi del tutto, sino al medioevo pre-rinascimentale della Dark Fantasy e Warhammer. In quest’ultimo si riscontrano talvolta addirittura delle influenze pesanti da Solomon Kane e dall’Horror-Gotico, sforando quindi nella rielaborazione del “medioevo possibile” verso un cinquecento e seicento.
Inutile specificare che questo discorso non riguarda affatto i Mondi Perduti di Howard, De Camp, Smith, Carter, Wagner e via dicendo, in quanto rispetto ai Secondary Worlds medievali che disegnano mondi antichissimi e longevi in eterno in un medioevo ristagnante e mai evolutivo, i Lost Worlds Protostorici creano dei mondi con antichità spesso progredite e non più esistenti o al massimo residuali in forme decadenti, che fanno supporre delle grandi antichità avanzate, tuttavia ringiovanite, abbrutite o rese acerbe da un ritorno alle barbarie.
Da un lato quindi un Medioevo eterno, mai evolutivo e stagnante; ma tuttavia utopico e pittorico, dall’altro una Protostoria interpretativa e involutiva a tempo indeterminato.
Pertanto il ventaglio di scelte possibili rispetto ai Secondary Worlds medievali è del tutto diverso e definisce una delle differenze sensibili tra Heroic Fantasy all’inglese e Sword and Sorcery. Si giunge quindi ad osservare che la Fantasy dispone di scelte possibili di medioevo da riprodurre e per quanto rielaborate e infedeli rappresentano pur sempre idee precise di medioevo da rivolgere all’immaginario collettivo; e che avranno delle implicazioni molto pesanti sul Secondary World che si intende creare.
In Lord Dunsany tali fattori non esistono in quanto egli, come si accennava, riproduce vicende “sognate d’antico“. Si potrebbero ovviamente considerare circostanze “simil medievali” quelle de La Fortezza Inespugnabile, se non da Sacnoth e de La Spada di Welleran, ed infatti questi due racconti sono quelli che maggiormente ereditano e alimentano la tradizione della Fantasy, ma Il racconto di gran lunga più medievale secondo evidenze nette simili a quelle dei mondi inventati medievali di Morris, Eddison e Tolkien è fuor di dubbio Carcassonne (1910) e non è all’interno di un Secondary World, essendo ambientato in Francia (pur avendo toponimi spesso inventati), sicchè la scelta di “sognar d’antico” il medioevo, in questo caso, non avrà una evidente subordinazione di stile, non è incamerata in nessuna continuità di tradizione. Il “medioevo inventato e pervasivo” creato da Morris è si una grande tradizione della Fantasy, ma ha avuto una parziale discontinuità già dal suo “primogenito” Lord Dunsany, ammesso che sia plausibile considerarlo tale.
Si sappia prima di giungere al vivo e quindi a conclusione che il sottotitolo che è stato messo in questo articolo, “Eroi, Elfi e Dei” ha ben poco di casuale, e sta ad indicare che si prenderà maggiormente in considerazione solo quella parte dell’opera che meglio conosciamo, direttamente inerente con la Fantasy, la Fiaba o il “Medioevo”, accantonando purtroppo da una parte o ignorando del tutto, almeno per ora, zone come quelle del Ciclo di Jorkens o altre simili, fintantochè non ancora parte delle “Terre Cognite” delle conoscenze, come Lord Dunsany stesso definisce le terre che non sono al bordo del mondo ne La storia di colui che giunse alla città di Mai (1912), o nelle “Terre del Dubbio“, come quelle che invece, diversamente, sono menzionate ne La Probabile avventura dei tre letterati ( sempre 1912), entrambi racconti contenuti nel Libro delle Meraviglie (1912), edito in italia da Reverdito Editore nel 1989.
Eroi (e simili… )
Sia in Carcassone ; (A Dreamer’s Tale ,1910), pubblicato in Italia nel 1981 nella raccolta della Biblioteca di Babele (Franco Maria Ricci Editore) con titolo Il paese dello Yann , che ne La Spada di Welleran; appartenente a Sword of Welleran e Other Stories (1908), pubblicato prima di tutti dalla Editrice Nord sulla raccolta “Fantasy” (curata da Sandro Pergameno, 1985), troviamo dei concetti di lotta e imposizione sul destino sulle spalle di personaggi essenzialmente tormentati, imparentati ma al tempo stesso conflittuali con il romanticismo, velatamente e imperscrutabilmente magici e con un retroterra tragico, onirico ed esoterico che influenzerà in maniera molto forte sia Howard P. Lovecraft che Michael Moorcock, oltre ovviamente a molti altri.
Ora; Il caso di Carcasonne è fuor di dubbio un qualcosa di interessante già di per sè. Oltre ad essere un racconto breve di notevole fattura, dallo stile sognante e grave, con un’impronta coinvolgente e con un marchio a fuoco sulla memoria, esso è anche caratterizzato da una lotta col destino che è alla base di concetti esoterici che concepiscono la magia come capacità di imporsi sul fato, quindi di operare una forza che prevalga l’inerzia autonoma del Caos fisico. L’atto “volontario” di Camorak di Arn di compiere un gesto epico contro il destino è inquadrabile come atto “fatato” di magia in quanto azione perpetrata per prevalere sul destino stesso, così come una palla di fuoco, un’evocazione, una frana di roccia provocata da un mago, una chiaroveggenza, una levitazione da terra, una divinazione o il lancio di un raggio incantato da un bastone magico, sono atti che “forzano la mano” in contrapposazione al caso, prevaricando la fisica e la gravità, e quindi le forze casuali del caos gestite da anni e anni di “tentativi” della natura e del cosmo di comporre condizioni di “equilibrio” stabile dalla cui violazione derivano anomalie o cataclismi. Coloro che praticano la magia sono pertanto più simili agli dei poichè in grado di modificare il caos fisico e di sfuggire sia ai pre-disegni del destino sia all’inerzia fisica della casualità. La magia, valutata in questi termini è inquadrabile anzitutto come “atto di volontà che prevarica l’inerzia”. Una circostanza non dissimile da quella di Carcassonne si trova nella vicenda britannica in seguito germanizzata trattante il misterioso personaggio di King Herla (o anche King Herl e svariati altri modi) che cavalcando nel bosco coi suoi guerrieri incontrò una magica creatura di “Altro-mondo“. King Herla viene riportato talvolta anche come una sembianza di Wotan, ma in questo momento ci si sta basando sulla versione più antica e celtica, quindi precedente alla cancellazione culturale operata dai Vichinghi in Irlanda. La creatura incontrata dal re guerriero viene presentata in base alla versione della leggenda come un Elfo, Nano o un Fauno, contraddistinto dalla folta barba rossa e le zampe da capra. Herla sancì un patto con la creatura magica invitandolo al proprio matrimonio e ricevendo generosi doni, promettendo però di non esser da meno un anno dopo e quindi di recarsi alla cerimonia omologa della creatura incantata. Re Herla capirà a suo malgrado i pericoli di agire contro le leggi del fato, e che disattendere delle istruzioni precise o ignorare dei consigli preziosi può portare a conseguenze imprevedibili; un giorno in “Altro-Regno” può valere anni e anni nel mondo materiale; non attendere il cagnolino che scende da cavallo può essere fatale, così come essere arrogante, non mantenere la parola, seguire sentieri sconsigliati o mangiare dopo l’ora prestabilita possono risultare comportamenti non privi di conseguenze anche per un potente re guerriero. La vicenda di King Herla non sfigura per bellezza e fascino dinanzi alla storia di Lord Dunsany. Visto che di Celti si parla, se vi dicessi che una grande cometa rossa potrebbe passare a sorvolare tutto, cosa guarderebbe realmente secondo voi?
Immagino sareste in molti a pensare che si tratta di uno sbarazzino collegamento alla stessa cometa che preannunzia i draghi ne Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, visto anche il successo che sta avendo la serie televisiva;… salvo ricredervi nel vedere che in realtà, la scia del fenomeno sembra far piovere un sangue scuro che penetra nella terra umida e fangosa a lungo percossa da temporali notturni, sino a falde profonde, dove solo indirettamente la storia dei celti compare in un ruolo gregario a ricordarci che “Lutezia”, la città del loto inteso come fango, l’odierna parigi per intenderci, era un tempo un oppidum degli Arvernes che forse indirettamente forniscono il lemma stesso di Averoigne. E di fango se ne trova proprio tanto nell’emozionante ciclo di Clark Ashton Smith, autore non meno avvezzo di Lord Dunsany a tessere le sue narrazioni sul filo di un incubo tormentato da una eterodossa poesia, adattata ad una prosa inquieta e feconda d’ogni genere di orrori, ma anche di meraviglie. Sarebbe di certo interessante approfondire le visioni oniriche che senza dubbio accomunano i due scrittori che tuttavia sono simili anche per un altro tratto, ovvero quello di far sembrare – tanto è straordinaria la loro maestria – il resto della letteratura piuttosto inutile, salvo rarissimi casi. Non escludiamo di parlare anche di questo in futuro, magari partendo proprio da Carcassonne.
Tralasciando per ora tuttavia i richiami celtici, l’accostamento a Smith che Carcassonne ci fornisce e che meriterebbe una trattazione a parte, così come il retroterra esoterico che ci porterebbe a svariate lungaggini, si può dire che i toni tragici, imprecisatamente cavallereschi e “franchi” si possono ritrovare sia nella Saga di Elric di Melnibonè, che nutre già in sè un qualcosa che ricorda la stirpe Troiana (come il “gossip” riteneva fossero i Franchi) imposta su un mondo di indigeni germanici, ma anche nelle atmosfere diffuse del famoso film Ladyhawke che, oltre ad accomunarsi con Isabeau D’Anjou all’elemento degli uomini che di notte sono in sembianze di rapaci – il più lampante ma non il più significativo – vi è il tentativo d’un cavaliere errante e tormentato relativamente simile a Camorak di Arn di contrapporsi ad un destino segnato da un diabolico incantesimo che condanna Isabeau a prendere le sembianze umane di notte per essere rapace di giorno, non incontrandosi mai con Etiènne Navarre che per contro è Lupo al calar delle tenebre e uomo nelle ore diurne. Ovviamente nel caso di Ladyhawke, tralasciando somiglianze estetiche come i rapaci e il castello, il canone specchiato ritorna ad assumere le strutture simmetriche della fiction eroica-avventurosa dato che Etiènne Navarre sarà in realtà la spada contro la stregoneria, e quindi contro un destino deciso dalla magia compiuta da un chierico corrotto. Nell’ancor precedente La Spada di Welleran del 1908 molti elementi tra i quali la tragedia giungono ancor di più e il mito che assurge come sogno, e ancor più come dannoso incubo, è preponderante insieme ad una spada magica e talismanica, ma che è infine portatrice di una disarmonia. La Spada di Welleran è un racconto piacevolmente evocativo, e contrariamente a La Fortezza inespugnabile, se non da Sacnoth (sempre 1908) è più vicino al pensiero profondo di Dunsany che si riscontra nella sua visione degli Dei di Pegana ma anche e soprattutto nei racconti privilegiati da Jorge Luis Borges, area in cui appaiono le visioni caoticamente pagane di Lord Dunsany. le raffigurazioni del mito che nella vicenda di Rold a Merimna non saranno in grado di fornire una risposta definitiva sono altresì definitivamente significative per Moorcock e per Lovecraft.
La Spada di Welleran è un racconto che emerge per la qualità della sua scrittura e per le sue suggestive narrazioni di eroi dall’oltretomba, che solo apparentemente danno una soluzione al popolo, ma che porteranno Rold ad avvilirsi drammaticamente nel realizzare la tragica condizione della guerra e dell’uomo; quale essere incapace di contrapporsi al suo destino di violenza, componenti che spezzeranno l’energia del salvatore di Merimna. Tuttavia bisogna obiettivamente riconoscere che questo racconto forse avrebbe avuto un miglior sviluppo come novella o romanzo. L’elemento tragico e tormentato che arriva sul finale non è stratificato come il racconto sembrava esigere e sembra giungere senza una sufficiente preparazione graduale. La tragedia schiaccia Rold, ne deturpa i comportamenti senza pietà in una apnea nelle ultime righe che sono ad alta concentrazione. Seppur quindi il racconto breve alla fine riesca ad emergere per la scrittura di Lord Dunsany esso risulta di gran lunga meno efficace delle successive varie storie di Elric e della sua Stormbringer, e nondimeno del precedente The Sundering Flood di William Morris, i cui tormenti sono molto meglio preparati e assimilati. The Sundering Flood rappresenta un romanzo dai sorprendenti valori, in esso vi è sia un ritorno al germanismo che si era abbandonato nei romanzi di Morris, sia la creazione di un eroe tormentato e basato su una spada talismanica, immerso in contenuti più oscuri degli altri romanzi Fantasy, ma che mantiene tuttavia le promesse dell’High Fantasy poste nel romanzo precedente.
Osberne Wulfrigmsson patisce un dramma latente, che sarà esacerbato dal rapimento di Efhild ma riporta anch’esso, tra le altre cose, la composizione di un conflitto con alcuni concetti della figura romantica. La sua spada talismanica “Broadcleaver“, a dispetto del nome che fa immaginare ad un largo coltellaccio o mannaia non è in realtà ricurva come La Spada di Welleran, essa si riconduce ad un incontro traumatico che Osberne Wulfgrimsson avrà con uno spirito della montagna (Nano, Elfo o Gnomo) piuttosto inquietante e sferzato da una follia eccentrica che ricorda sia i personaggi di Lewis Carrol in Alice nel Paese delle Meraviglie sia quelli che lo stesso Lord Dunsany ritrae nei suoi racconti. Si capirà che Broadcleaver non è stata forgiata a Wethermel nel piccolo pago nativo di Osberne, ma è bensì di fattura “nanica” e Osberne è destinato ad impugnarla. L’elemento di un personaggio predestinato che oggi appare scontato e probabilmente inviso ai lettori più smaliziati non ha certo implicazioni simili a quelle odierne nella fine dell’ottocento ed è da inquadrare come componente di un protagonista tormentato, poichè la predestinazione è anche e soprattutto tormento e mancanza di serenità quotidiana, che offre una visione romantica di un eroe che compie un’azione decisiva per la comunità. L’argomento di The Sundering Flood, come quello precedente riguardante Averoigne, è tuttavia abbastanza vasto da far si che non sia il caso di approfondirlo nei fini di inquadramento storico dei racconti di Lord Dunsany, è bene quindi non dilungarci ancora, se non dicendo che La Fortezza Inespugnabile, se non da Sacnoth (1908), uscito in italia per Mondadori (Demoni, Uomini e Dei, 1989), pur mostrando molto di ciò che caratterizza Lord Dunsany da un punto di vista delle suggestioni e del meraviglioso ambiguamente velato di inquietudine, sembra radicarsi maggiormente ad un eroe simile Walter Golden, pertanto alla mitologia e alla fiaba ed è di gran lunga meno tormentato di Osberne Wulfgrimsson di Wethermel. La Spada di Welleran non sfigura affatto come mera bellezza della scrittura, come suggestioni e poesia con la storia di Sacnoth, Rold dimostra una ipotetica complessità emotiva maggiore rispetto a Leothric, Walter Golden e Ralph di Upmeads anche se solo per le poche righe finali. Tuttavia il suo sviluppo subisce l’inflizione di un senso di fretta e poca preparazione, mentre lo sviluppo dell’avventura di Leotrhic contro Gaznak pur essendo generosissimo di nemici che sono in quantità debordante nelle ristrettezze del racconto breve appare compiutamente bilanciato e non frettoloso, quindi espresso alla perfezione anche nel suo breve formato.
Sempre nell’area di sottotitolo che abbiamo chiamato “Eroi” si è preferito collocare la storia di Shepperhalk, (La Sposa del Centauro, 1912) un giovane centauro che attraversa un viaggio di poche pagine ma che per contro, copre distanze siderali che vanno dalla sua caverna e il suo giaciglio di giunchi ad un punto imprecisato del mondo. Giunto a Zretazoola egli reclamerà per sè la meravigliosa e sovrannaturale dama del tempio, Sombelenë. Il racconto non ha trama e quindi neanche componente avventurosa, ritrae soltanto l’allegro viaggio del Centauro menzionando grandi imprese e guerre passate del popolo dei centauri contro regni degli umani e degli dei. La lettura durerà pochissimi minuti scorrendo in una scrittura che vanta una bellezza cristallina, coinvolgente e fresca. Le descrizioni sono dipinte con una notevole maestria che mette in luce delle capacità non comuni, neanche tra gli scrittori di alto livello.
Sempre reperibile nella stessa edizione Reverdito in cui si trova La Sposa del Centauro, è il racconto di Thangobrind (Storia terribile di Thangobrind il Gioielliere, 1912) che è una vicenda apparentemente di scarso ritmo, anch’essa breve da far supporre che si tratti di un incompiuto frammento. Il protagonista è un personaggio furtivo che ricorda in una certa misura i ladri avventurieri negli scenari di Dungeons and Dragons, un ladro e gioielliere che eccelle nel non farsi scorgere mai e diventare quasi una parte stessa della notte quando percorre i foschi vicoli con angoli così sinistri che la luce della luna non riesce a lambire. Il suo cospargersi il corpo d’olio fa pensare agli “artisti della fuga” dei Reami Dimenticati; una “skill” che è appannaggio solo dei grandi ladri. Nonostante anche questa storia sembri non avere una vera “ossatura” riesce alla fine a restituire un suo senso compiuto.
A dispetto della brevità che farebbe supporre ad una andatura sincopata, possiede in realtà un ritmo più lento e “guardingo” nella prima parte, per poi accelerare d’improvviso nella parte finale. Il racconto, si dice, piacque poco a Tolkien che è sempre stato estimatore di Dunsany, tuttavia criticò duramente la vicenda di Thangobrind sfavorendolo in un paragone con Jirel di Joiry di C.L. Moore, per la quale comunque, vi assicuro, non si è sprecato di complimenti. Potrebbe non esser piaciuta a Tolkien la dinamica dell’epilogo implicita e la mancanza di una forma concreta dell’idolo vivificato, ma è facile intuire tuttavia che si tratti di un qualcosa di molto simile alla sua temibile Shelob. Certamente Thangobrind non è il miglior racconto di Fantasy, non è efficace e generoso come le novelle di Robert E. Howard e non è incantevole come La Sposa del Centauro o L’Amica degli Elfi, ma non sembra poi così malaccio.
Non è chiaramente fattibile passare in rassegna su tutti i racconti di Lord Dunsany che presentano una componente genericamente avventurosa ed eroica, anche perchè molto del contenuto della sua opera verrà oggi tralasciato. Basti pensare alle antologie di racconti fantastici che succedono a Book of Wonder del 1912: The Food of Death (1915); Tales of Wonder (1916); Tales of Three Hemispheres (1919); The Man Who Ate the Phoenix (1949); The Little Tales of Smethers (1952) , raccolte di racconti dove compaiono sia editi che inediti che ad oggi ci è impossibile affrontare. Così come Un racconto di terra e di mare e il Sacco di Bombasharna che sarebbero due storie trattabili a parte visto il taglio tematico che si è scelto e il luogo dove ci troviamo. Si può tuttavia dire che i racconti descritti sopra offrono una rappresentanza relativamente degna dei tratti Heroic Fantasy del Barone che sono senza dubbio basati sul viaggio e sul “meraviglioso“, e più in generale a luoghi da lungo tempo cercati da molti avventurieri che spesso finiscono smarriti nelle loro ricerche impossibili, oppure meravigliosi ma introvabili, desolati e ridotti in rovina da eoni, città fantasma che nutrono ancora segreti sotto le sabbie del tempo; uno di questi è Bethmoora, antica città abbandonata per ragioni misteriose e parte di una storia che potrebbe avere un sequel – parola senza dubbio da virgolettare – ne L’Uomo dell’Hashish, una storia sommessamente metanarrativa che ha avuto “l’onore” di un commento di Aleister Crowley. L’esoterista britannico si è espresso nel poco realismo che Dunsany ha utilizzato nella raffigurazione dell’uso dell’Hashish;…Commento di cui francamente si poteva fare a meno.
Si trovano caratteristiche simili anche nel racconto The Madness of Andelsprutz dove anche in questo caso si narra di una città introvabile e che possiede addirittura un’anima, diverso è invece un luogo come la “città di Never“, ritratta nel racconto Storia di colui che giunse nella città di Mai (1912) dove il “Sense of Wonder” è al suo culmine in una città antica e meravigliosa che non può essere raggiunta da tutti. Il bambino che cavalcando l’ippogrifo compirà l’impresa impossibile partirà dalla Contea del Surrey, che sicuramente i fan di J.K. Rowling conosceranno bene, essendo la stessa in cui è situata la cittadina dove la sgradevole famiglia Dursley ha cresciuto Harry Potter.
Elfi (e creature…)
Tenendo presente che le aree in cui si sono suddivisi i contenuti in questo articolo sono completamente artificiali e soltanto ad uso orientativo di questa analisi, la categoria “Elfi (e creature…)” offre una notevole sfida per quella precedente degli “Eroi (e simili…)”, essendo in grado di portare quegli umori dello scittore maggiormente delicati e fiabeschi, ammorbiditi da un pizzico di dolcezza, e che gettano uno sguardo sognante che Gary Moore definirebbe senza problemi “Over the Hills and far away“. Qui il verde tocco delle magie irlandesi incide con forza, ma non senza che le ambigue malinconie e le sinistre iridescenze sempre parte dell’anima letteraria di Lord Dunsany vengano a far palpitare il sogno d’un pizzico di inquietudine, e così è nella struggente storia de le Amiche degli Elfi, divisa tra bosco e mondo civilizzato, tra elfi e umani, e chi si trova a mezzo è una creatura definita “selvaggia” poichè senz’anima, ma non diversa dagli elfi d’aspetto, e sarà lei a dover capire cosa comporta avere un’anima, o forse ciò di cui era sprovvista era altro che non l’anima, e sarebbe il caso di riflettere sul perchè Lord Dunsany abbia usato proprio questa parola. Questa breve favola è contenuta in Sword of Welleran and other stories del 1908, insieme alle storie Heroic Fantasy di Sacnoth e di Welleran, questo potrebbe farci capire già di che razza di antologia si tratta. The Kith of the Elf-Folk è una fiaba scritta con una perizia difficilmente arrivabile. Il modo in cui penetra nelle emozioni sia attraverso la sensibilità poetica, sia con i suoi sentori di critica e riflessione, sarà qualcosa di non comune e di delicatezza inusitata, ma che avrà tuttavia la durezza di una verità detta con un linguaggio che, anche nei momenti di più delicata eleganza, e pur nei toni più tenui e privi di violenza, non è mai del tutto mansueto, e sempre dibatte come una magica bestia la sua coda forcuta facendo sbuffare polveri che compongono le piccole nebbie del dubbio. Ancora oggi non saprei dire cosa abbia comportato leggere una fiaba così densa di poesia che non sfigura con quelle di George MaC Donald, in grado di esprimere riflessioni pregne di sensibilità, capaci di far commuovere il lettore adulto. In questa perla del mondo fiabesco britannico troviamo sia gli umori dell’antimodernismo al fondamento della Fantasy , sia quelli – direttamente collegati – di escapismo dai grigiori industriali di Londra che sono alla base di tutti i concetti dell’ambito “al bordo del mondo” di Lord Dunsany poichè recarsi al bordo del mondo significa in parte proprio scappare dalle londinesi tristezze urbane e fumose. Una variazione di questi temi escapistici da Londra potrebbe essere rappresentata da racconti come L’incoronazione di Thomas Shap o La Finestra Meravigliosa, dove non è presente il viaggio fisico ma è ugualmente vivido quello psichico. La fiaba è uscita in italia nell’interessante antologia curata da Isaac Asimov intitolata Il Regno Incantato (Urania Fantasy, 1991). Nella collana Deltaplano – e qui immagino di sfidare seriamente la vostra memoria più vetusta – appartenente all’editore per ragazzi Editrice La Scuola, è stato pubblicato invece nel piccolo volume intitolato Fantasy: Racconti di Spade, Magie e Draghi (1994) un altro racconto breve dalle atmosfere simili, anch’esso basato sui forti contrasti, ma decisamente più debole nei toni complessivi rispetto a The Kith of the Elf-Folk: stiamo parlando de La Cerca delle Lacrime della Regina (1912). Si ha l’impressione che quest’ultimo, inquadrabile come una via di mezzo tra la fiaba e il racconto di Heroic Fantasy britannica, sia una bozza frettolosa e inespressa del capolavoro di Lord Dunsany La Figlia del Re degli Elfi, di cui parleremo dopo.
Se Le Amiche degli Elfi richiama quindi all’antimodernismo e il pensiero di fondo dei racconti al Bordo del Mondo, in altri racconti basati sulle creature troviamo invece una comunanza con il lieve sperimentalismo di alcune storie di Lord Dunsany come quelle nell’ambito di “Belgrave Square“. L’avventura The Hoard of the Gibbelins si rivela da un lato appassionante, dall’altro piuttosto sarcastica verso un certo tipo di eroi paladineschi e senza macchia che si vantano d’esser parte di fiorenti civiltà. Il cavaliere Alderic reca su di sè il conflitto tra costumi cavallereschi e moventi che , per contro, sono invece agitati dall’avidità e dalle “basse frequenze” umane. La sua nomina altisonante sembra già di per sè una presa per i fondelli e i toni ironici che Lord Dunsany utilizza sono addirittura più feroci, anche se sempre moderati della sua eleganza, sia di quelli di James Branch Cabell che di Fritz Leiber. Se in quest’ultimi, l’elemento picaresco infliggeva agli eroi una sorta di “difficoltà a vincere”, nel racconto di Alderic così come altri, sembra più che si voglia ritrarre dei “Campioni a perdere”. Stavolta pertanto invece di ascoltare Gary Moore e la sua “Over the hills..” dovremmo rivolgerci ai Metallica e alla più dura “Disposable Heroes” uscita nell’album Master of Puppets. Nel racconto avranno ovviamente un ruolo fondamentale le creature tanto singolari quanto temibili che compaiono anche nelle terre di Dungeon and Dragons; I Gibberlings. Quest’ultimi non avranno molto riguardo per Sir Alderic. Come nei racconti della località londinese summenzionata “Belgrave Square” si riscontra una tendenza alle risoluzioni improvvise e spesso amare, violente o sardoniche; basti pensare a l’incoronazione di Thomas Shap, Il Mago Contesta o la storia di Nuth e gli Gnoli, che ci narra una vicenda con creature mitologiche mantenendo però il basamento di Belgrave Square. Non dovremmo stupirci molto del fatto che si siano menzionati Cabell e Leiber, i due maestri del “Picarantasy” (non cercatelo su wikipedia, non esiste) nonchè creatori degli eroi Don Manuel, Farfhd e il Gray Mouser, in fondo non è da escludere che entrambi, oltre a Don Chishiotte, Guzman de Alfaranche o il Pitocco di De Quevedo, non guardasseo un po’ anche alla saga di Shadow Valley e a Don Rodriguez. Pur riscontrando alcune differenze, lampante è una somiglianza di alcuni tratti tra Lord Dunsany e Cabell, almeno in quella tendenza a capovolgere le proprie storie con scossoni e desultazioni, figlia di un pensiero profondo sugli Dei, Il Fato e Il Caos che non sono dissimili nei due vulcanici scrittori. In Leiber la parentela è invece più indiretta, circostanziale e ristretta a certe espressioni antiborghesi.
Visto che parlare di Lord Dunsany, Cabell e Leiber porta immancabilmente anche al tema ironico, sardonico e tragicomico e visto che stiamo parlando di creature è impossibile non pensare almeno per un attimo al bizzarro racconto con protagonista il collerico gigante Plash-Goo, che affronterà un combattimento con il nano più tipico che si possa trovare: barbuto, tarchiato e robusto. Il racconto non è certamente la miglior avventura fantasy affrontata, ma si lascia ricordare poichè appare bizzarro che un autore che non è mai stato troppo generoso di combattimenti, eccetto qualche momento raro, scriva un racconto di poche righe che narra il solo segmento di un combattimento senza preamboli e sconfinamenti postumi. Il finale userà i registri sperimentati da Dunsany verso l’ironia e la tragedia.
Ma sappiamo benissimo che la storia non finisce qui.
Quando si pensa agli Elfi accostati al nome di Lord Dunsany è del tutto naturale che si senta il vuoto sotto i piedi, sicchè cadendo in un burrone fatto come ad imbuto dove le pareti sono pensieri silvestri si atterrerà morbidamente seduti in qualche prato nel magico regno di Elfland, luogo dove è principalmente ambientato quel capolavoro – parola che non uso spesso – uscito due anni dopo il Serpente di Ouroboros di E.R. Eddison: stiamo parlando del romanzo intitolato La Figlia del Re degli Elfi (1924). Avete capito bene, non stiamo dicendo di una fiaba, fabula, frammento scheggiato o racconto breve, e neanche di una novella lunga, ma di un romanzo che seppur abbastanza breve scolpisce un ricordo monumentale nel lettore, e se qualcuno dovesse mai chiedersi se La Figlia del Re degli Elfi abbia il potere di inserirsi in quella linea di grandi “Pietre Miliari” composta da La Fonte ai Confini del Mondo, (Morris,1895) Il Serpente di Ouroboros, (Eddison, 1922) Il Signore degli Anelli, (Tolkien, 1955) la risposta è assolutamente si e mettendo anche in gran pensiero gli altri d’esser scalzati. Anche in questo romanzo Lord Dunsany sfrutta le strutture della Fiaba che permettono di rendere plausibili quelle “impostazioni aleatorie” che in altre narrazioni sarebbero scricchiolanti (presupposti generali, motivazioni, eccesso di capovolgimenti di trama) e di utilizzare pertanto quella semplicità basilare propria del linguaggio fiabesco che se ben usata, assume una grande potenza nell’entrare in simbiosi con una naturale tendenza alla poesia, o per meglio dire ad una prosa che sembra scaturita da uno stato iniziale poetico, e questa è un’arma che Lord Dunsany usa in maniera impareggiabile e con una maestria che sembra provenire dai bardi di “annwyn” più che dal mondo terreno. Ma all’attitudine fiabesca viene unita anche la tipica dinamica mitologica-avventurosa e un buon sentore di High Fantasy classico; e lascio a voi immaginare il risultato ottenuto da questi ingredienti, trattati per giunta da una penna come quella di Lord Dunsany. Tuttavia questi non sono che gli elementi macroscopici, il fascino aumenta quando ci si spinge oltre. Come in Carcassonne anche qui troviamo un richiamo alla leggenda di King Herl, anche e non solo nei momenti della caccia selvaggia del protagonista: Alveric di Erl, che con la sua spada sfolgorante dovrà affrontare molte avventure e non esclusa da queste è quella di dover corteggiare e sposare non una ragazza qualsiasi, ma nientemeno che la Principessa degli Elfi; la magnifica Lizrael. Occorre dire che gli Elfi di Lord Dunsany non epurano dal loro animo una impercettibile essenza di ambigua e sinistra follia che contrariamente a come vengono in – linea di massima – rappresentati da Tolkien, li fa apparire realmente estranei alla logica umana, e non solo distanti e diversi perchè belli, celestiali, abili in tutto e con le orecchie puntute. C’è qualcosa di realmente incomprensibile nelle creature silvane che Dunsany rappresenta. Inevitabile pensare alle somiglianze che la storia di Aragorn e Arwen propone con quella di Alveric e Lizrael. Per Arwen, come per Luthien, è ovviamente grave la rinuncia alla propria immortalità, ma le implicazioni che il romanzo di Dunsany narra per una “unione innaturale” sono assai più drammatiche e mastodontiche. Lo sconvolgimento che provoca l’incantesimo della scomparsa dei confini di Elfland causa gravi dolori e comporta profonde desolazioni, ricordandoci in qualche modo il dramma che si affronta quando i Valar, nell’ambiente tolkeniano di Arda, modificano la configurazione del mondo dopo che Ar-Pharazon muove guerra a Valinor. Questo straordinario romanzo è uscito in edizione MEB del 1977 e più recente nelle Edizioni della Terra di Mezzo del 1991.
Dei (pensiero profondo e conclusioni… )
Pur avendo diviso quest’ultimo paragrafo essenzialmente per i suoi contenuti è bene chiarire che, ad esempio, ne La Figlia del Re degli Elfi, così come in altri racconti, non mancano delle allusioni che conducono la letteratura di Lord Dunsany ad esternare quel profondo pensiero che ricorre spesso. Nei romanzi di cui si è parlato nelle due sezioni precedenti si rende più evidente il pensiero genericamente antimodernista e critico verso alcune dogmatiche sovrastutture della società umana, specialmente quelle inerenti al positivismo e al progresso industriale. Si accennava ciò nel commentare Le Amiche degli Elfi, ma non meno potremmo farlo a riguardo dell’altro romanzo completo di Lord Dunsany La Maledizione della Veggente (1933), nonostante quest’ultimo, ambientato in Irlanda a fine ‘800 abbia ben poco in realtà di Fantasy, e sarebbe di gran lunga più accostabile ad un romanzo genericamente drammatico-misterico, con doppia interpretazione e un fondo ecologico, antipositivista e antimodernista. anch’esso tuttavia come La Figlia del Re degli Elfi e altri contenuti che si sono oggi ignorati o minimamente accennati meriterebbe d’esser trattato a parte.
Sono parte del pensiero profondo quelle poetiche e tragiche definizioni del mondo che Dunsany, contrariamente a molti altri, non pensava di disegnare dai dettagli geografici; d’altro canto che senso avrebbe avuto farlo in una dimensione dell’onirico dove tutto può apparire e scomparire durante l’ozio di dei imprevedibili o, durante una partita a scacchi tra Casualità e Fato, o in un giorno dove in mezzo agli dei si insinua un “servo scuro” chiamato “Tempo”. Ed infatti egli decide di puntualizzare certi dettagli descrivendo particolarissime divinità, piuttosto simili in certi tratti a quelle di Lovecaft, e sono ovviamente gli Dei di Pegana. Tuttavia non sono solo gli Dei di Pegana a comporre quest’area “profonda” ma anche altri racconti dallo straordinario potere visionario: Il Campo, Giorni d’ ozio sullo Yann, Chi-bu e Sheemish o Le Preghiere poco giudiziose di Pombo l’idolatra, giusto per elencarne alcuni.
Tanto per togliercela subito di torno visto che ben poco conta, l’opinione personale di chi scrive corrisponde a riconoscere in qualche modo questo gruppo di racconti non come quello contraddistinto dalle qualità più cristalline di Lord Dunsany, ma ciò non è affatto suffragato dai fatti. Al contrario, si deve per correttezza riconoscere che questa potrebbe essere l’area creativa dello scrittore largamente più accostata ad una dimensione autoriale e di alta letteratura e di certo ne comprendiamo le ragioni. In fin dei conti è proprio questo quel gruppo di racconti di cui Jorge Luis Borges si è fatto “custode”. In un articolo del Los Angeles Times, Ursula Le Guin, estimatrice irriducibile di Lord Dunsany, non fa mistero del fatto che a suo modo di vedere Giorni d’ozio sullo Yann rappresenti il grande capolavoro dello scrittore di cui oggi parliamo.
“[…] Idle Days on the Yann, probabilmente il capolavoro di Dunsany. Lo amo non solo per la sua invenzione e bellezza senza sforzo, ma perchè confuta così amabilmente tutti i dogmi del “Programma di Scrittura Creativa” su “conflitto”, “trama” e “personaggio”… Lascia fuori tutta quella roba, lasciandoti alla deriva sul fiume della pura storia. Nessun coraggio viene strappato, nessuna questione del Bene e del Male viene risolta. È innocentemente, abilmente fuori discussione come una sonata di Mozart…” (Los Angeles Times, 2004)
Fondamentale è tenere presente che non vi sono in realtà demarcazioni e direttrici assolute tra le aree e gli stili di Lord Dunsany. Le venature e le peculiarità preponderanti che permeano la sua letteratura sono compenetrate in tutti i suoi periodi e in ogni sua opera. Non esiste una reale evidenza evolutiva o graduale. Se in Morris è possibile riconoscere una sorta di evoluzione dei modi e degli stili per rappresentare il suo antimodernismo e le sue psicologie subordinate a varie angolazioni del romanticismo e del revival epico-mitologico in Dunsany abbiamo un’opera più informemente circolare che lineare. Considerando ciò quindi non appare più curioso il fatto che Dei di Pegana (1905) e Tempo e gli Dei (1906), che potrebbero mostrare le definizioni dunsaniane più profonde e quintessenziali, siano in realtà le sue prime opere, precedenti quindi a La Spada di Welleran e altre storie (1908) antologia dove invece compaiono concetti di un antimodernismo più mitologico e fiabesco, succeduta da altre simili come “Racconti di un Sognatore” (1910), dove ci sarà un ritorno prepotente alle suggestioni costitutive di Pegana e del Tempo e gli Dei, e successivamente il “Libro delle Meraviglie” (1912) dove invece appare maggiormente il suo sentimento respingente ed escapistico verso Londra che comunque appariva anche nel 1908.
Tutto ciò ci porta a toccare con mano il fatto che Lord Dunsany non abbia infine operato una scelta completa nel costituire il significato della sua opera. Si nota una sospensione che guarda da un lato all’antimodernismo mitologico vicino a William Morris, e tuttavia dall’altro anche un antimodernismo individuale, più radicato al decadentismo, composto da una malinconica natura alacremente anticonfessionale, repulsiva verso l’ideologia e ogni forma di moralismo, fondamentalmente scettica, eppure al tempo stesso elusivamente pagana, lievemente osmotica con alcuni “ritrovati” esoterici e ovviamente – ultimo ma non ultimo – basata sull’onirismo, oltremodo indecisa se comporre un mosaico ultraterreno entro la cornice di caos e fato o se connaturare quest’ultimi all’azione volontaria del magico e del divino. Mettendo da parte il valore letterario e valutando solo le profondità recondite, se Tolkien – come talvolta si asserisce – restituisce delle risposte semplicisticamente ottimistiche create a partire da complessità morali inferiori; Morris, sempre considerando lo stesso Dunsany come riferimento, fornisce le risposte che Lord Dunsany non riesce a dare ma partendo dalle medesime basi di complessità.
Ciò lo si vede certamente su tutti da racconti come Giorni d’ozio sullo Yann, dove un ordito sincretico compone tuttavia una trama puramente psicologica ma riflessa al dialogo sociale, il ricamo che impreziosisce bordi e rifiniture è la nostalgia e la paura, nonchè la mancanza dell’uomo di conciliare secondo il buonsenso le opinioni secondo le differenze religiose. Navigare sullo Yann alla fine infatti non porterà realmente verso il mare. Le varie fedi che compongono l’incontro sincretico della trama sono talvolta rispettabili, altre volte risibili e sovrapposte al valore – simbolico o materiale- di semplici oggetti, idoli, obiettivi da conseguire o le paure della persona singola. Gli dei assumono forme diverse in base alle sensazioni, agli scopi e soprattutto alle paure degli individui e molto spesso, quegli stessi Dei sono vendicativi, caotici o inerti, sovente fraintendibili perchè stimolati da richieste puerili degli umani o dalla competizione dall’essere venerati più o meno rispetto ad altri Dei, e quindi alla storia del fiume Yann si aggiungono quella di Pombo l’idolatra e Chu-bu e Sheemish. Il “paganesimo elusivo” di Lord Dunsany è di frequente strumento utile per la critica verso religioni istituzionali, le mentalità confessionali, e altre volte lo è per rappresentare lo strumento di controllo che la religione utilizza per mezzo dell’idolatria e il ricatto morale, e ciò lo troviamo ne La Spada e l’idolo, oppure: il mito e il paganesimo sono utili a rappresentare i valori della semplicità e dell’umanità, nonchè il sentore di malinconica nostalgia. In Lovecraft senza dubbio la paura è qualcosa di preponderante e il suo “pantheon” è composto principalmente sull’onirismo fondato sul terrore, e quindi l’incubo. Nel sottostrato di tutto ciò vi è la denuncia dell’incapacità dell’uomo di rivolgersi agli dei o alla religione con nulla se non per combattere la propria paura, e per tutta risposta sarà ripagato con la stessa paura, rappresentata da divinità colossali e aliene, e forse tra le più inquietanti di sempre.
Un riflesso di tutto questo lo si ha anche valutando da un punto di vista psicologico e storico quei personaggi eroici e tormentati che sono alla base della natura profonda della Fantasy, ovvero psicologie eroiche riflesse secondo la loro natura diversamente declinata rispetto al conflitto con il romantismo e con l’attributo relativamente calzante del “predestinato”; personaggi che inoltre, relativamente spesso, possiedono un’arma talismanica o simbolica. Leothric si spinge con la spada magica Sacnoth in un atto di valore comunitario liberando la sua terra dal malvagio stregone, salvo poi lasciarci indecisi se tutto ciò sia avvenuto veramente, se sia stato un sogno, un’ebbrezza o una visione. Walter Golden, pur allontanandosi da casa e dalla famiglia, compirà un gesto simile contro un personaggio oltremodo simile, ovvero la Strega nel suo castello situato nel bosco “oltre il mondo”, compiendo un medesimo atto comunitario verso la “Tribù degli Orsi” creati e sottomessi dalla stessa Strega evemerizzata. Ovviamente Walter Golden è un personaggio più approfondito da un punto di vista psicologico rispetto a Leothric che invece non concede cenni di interiorità. Ciò tuttavia si deve al formato dell’opera più che per un’incuria di Lord Dunsany che aveva altri scopi che non quello di raccontare un dramma nella psicologia del protagonista, di cui francamente non si avverte il bisogno. I personaggi non sono dissimili ed entrambi rispondono a ragioni basilari e scontate per il lettore, che invece in Kull di Valusia sono più presenti e tangibili. L’eroe howardiano presenta tormenti più accentuati, egli vive al passivo, pertanto non in prima persona, la storia d’amore di altri che è funzionale ad alimentare i suoi tormenti principali, rappresentati da quelle catene che vincolano un sovrano in maniera opposta a quelle dello schiavo, eppure ugualmente nefaste per lui. La sua risposta sarà la rottura – e non solo metaforica – di ciò che rende schiava, iniqua e corrotta la civiltà, e la sua ascia pur non essendo un talismano arturiano come le varie spade magiche avrà una valenza simbolica, rappresentando un vitale atto comunitario. Rold, ne La Spada di Welleran, sarà pervaso dai suoi tormenti una volta liberata Merimna. La risposta delle anime degli eroi non lo liberano realmente, ed egli andrà incontro ad un finale che pur non essendo tragico o prometico, sarà a suo modo drammatico, ossia di realizzare che la spada ha in fin dei conti rinnovato il contratto dell’esistenza e della storia umana con la firma del sangue e l’aiuto delle anime degli eroi di Merimna ha rinnovato soltanto il destino di morte e stragi, di figli orfani e genitori scomparsi e la memoria degli eroi andrà comunque perduta. Il precursore di tutti questi, Osberne Wulfgrimsson, affronterà anch’egli un dramma, che si specchierà in un fiume minaccioso e alluvionante, in conflitti interiori esacerbati dalla lontananza di Efhild, nella presenza di spiriti (come lo gnomo della montagna) piuttosto inquietanti e ambigui, e da una visione del romanticismo in assoluto conflitto con quella decadentista e con quella dell’uomo urbano. L’azione di guerra di Osberne sarà pervasa da un bisogno belligerante che porti l’assoluta distruzione nemica e “broadcleaver”, la sua spada talismanica lo rende un tormentato predestinato. Sempre proseguendo su questa linea; Il tormento di Aragorn è esclusivamente basato sulla “rinuncia”; quella principale di ricostruire la stirpe da sostituire all’ormai decadente casa dei sovrintendenti, indebolita ulteriormente dalla morte di Boromir di Gondor. Per tutta risposta, il suo talismano, Narsil, è una spada infatti distrutta e da ricostruire come simbolo di un sano e genuino elitarismo dinastico, che tuttavia non ha risvolti suprematistici verso il sangue di Isildur o i cognomi della sua casata, bensì solo verso un patriottismo gondoriano integrale.
Ora; è facile osservare che Rold, e la sua spada di Welleran, rappresentino una complessità drammatica e tormentata maggiore rispetto a Leothric, Walter Golden e Ralph di Upmeads, tuttavia quest’ultima viene spenta da una risoluzione troppo repentina e frettolosa del racconto, il dramma viene più imposto e mostrato frettolosamente che realmente narrato, e questo finisce per spegnerne parte dell’efficacia. Tuttavia il racconto rimane piuttosto memorabile per la bellezza letteraria nella scrittura e nella suggestione complessiva. Allo stesso ma opposto modo, Aragorn, rappresenta l’eroe meno complesso, ma emerge vittorioso poichè avvantaggiato da uno straordinario romanzo corale da cui trae splendore e significato, proprio come Rold esce svantaggiato dal formato breve. Ma escludendo le valutazioni letterarie subordinate al valore dei romanzi e racconti di appartenenza si giunge alla probabile conclusione che Osberne Wulfgrimsson e Kull di Valusia rappresentino tra tutti gli eroi di maggiore complessità, i più convincenti, coerenti e i meglio rappresentati, e per trovare qualcosa che sia al loro livello bisognerà aspettare Elric di Melnibonè e la sua Stormbringer.
Ovviamente ci si è mantenuti sulla linea degli albori di questo tipo di eroi, il tratto continuerebbe di certo passando anche per T.H. White e la sua rivisitazione arturiana, e forse culminerebbe dopo alcune tappe in soggetti come Jon Snow che, per quanto parte della “nuova onda” – bisogna ammettere – rappresenta di gran lunga più qualcosa di britannico che americano. Questo comprensorio non include Conan, che non rappresenta un eroe che basa i suoi tormenti sulle varie angolazioni del romanticismo neanche quando esso si sovrappone a Kull. Howard si scrollerà di dosso quelle poche polveri britanniche con La Fenice sulla Lama. L’arma dal potere simbolico di un atto comunitario (anche se non talismanico) viene sostituita da una spada in grado di essere la “Sword” contro la “Sorcery”, mentre alla storia d’amore (pur non vissuta in prima persona da Kull) si sostituiscono altri elementi come quelli Pulp. Ciò comporta la fondazione di una stirpe di eroi non necessariamente predestinati, più adatti ad un mondo protostorico involutivo, dove la barbaria viene a contatto con un sentore di decadenza piuttosto che un mondo che necessità di “predestinati tormentati” a loro agio in un’antichità mai evolutiva, stagnante nel medioevo ma nient’affatto degradata, tutt’altro in uno stato utopico. Se Snow è il terminale degli eroi di tradizione britannica è senza dubbio Kane di K.E. Wagner quello degli eroi “senza destino”. In questo caso è più il destino stesso ad essere “conanizzato” che Conan (o Kane) ad essere un predestinato e nello specifico di Kane, si potrebbe dire che egli stesso sia il destino, in quanto agente verso una linea temporale informe e indeterminata che deriva da un “cainita peccato originale”.
Tornando tuttavia allo specifico di Lord Dunsany; Il discorso non cambia anche nella fase successiva dei romanzi “lunghi” degli anni ’20 e ’30. Come non riconoscere ne La Figlia del Re degli Elfi del 1924 un qualcosa che si ritrova anche in racconti come Giorni d’ozio sullo Yann, o la storia di Pombo l’idolatra, o in Chu-Bu e Sheemish, quando, tanto per fare un esempio, l’altera superiorità della principessa elfica Lizrael viene sottilmente umiliata nel suo “esercitarsi a venerare i sassi” per la sua incapacità di adorare gli dei , oggetti e gli idoli nella tradizione del Regno di Erl. E come non considerare quanto invece ne La Maledizione della Veggente del 1933, vi si trovi una storia che racconta un antipositivismo, un antimodernismo e un ecologismo che torna assolutamente e in maniera prepotente ai concetti di Morris? La conclusione è presto detta:
Sarebbe inutile cercare di decifrare Lord Dunsany muovendoci all’analisi accademica come si farebbe per le “fasi D’Annunziane”, ciò non ci restituirebbe la grandezza di questo scrittore nè una visione veritiera della sua opera. Molto spesso ,nelle occasioni di rivalutazione di vecchi scrittori all’albore della Fantasy, si nota uno schema che consiste nel far riemergere quest’ultimi con funzionalità “ornamentali”, che possano quindi esser non troppo diversi da “gadget” utili ad arricchire maggiormente la profondità della propria “tolkenianità”, o “lovecraftianità”, questo porta la ricerca verso singole zone capillari utili senza dubbio per fare un po’ di filologia su Tolkien o Lovecraft, ma al lungo andare inique. Per quanto apprezzabili anche in queste modalità, scrittori come Lord Dunsany ancor più di Morris sono pesantemente penalizzati senza una visione d’insieme.
Che sia chiaro: questa non è un’invettiva contro “l’ignoranza di questo-mondo-crudele” essendo noi stessi per primi ignoranti, nè tamtomeno vuol essere una predica. Si è coscienti che le nostre vite – parlando ovviamente strettamente della passione per il fantastico – siano dettate da priorità, come lo si è delle lacune d’ognuno, ma non si può ignorare il fatto che non è possibile disporre di Lord Dunsany solo come ornamento per la propria collezione di Lovecraft o di Tolkien, nè si può orpellare la propria collezione dello stesso Tolkien con un libro di Morris, o quantomeno non lo si può fare come lo si farebbe con The Troll vicino alla collezione di Harry Potter o con Cani Arrabbiati di Mario Bava per ingioiellare il cofanetto deluxe di Quentin Tarantino, e badate bene che non si tratta di giusto o sbagliato, categorie ingrate dal cui potere di attribuzione ci si dissocia e men che meno ci compete, ma semplicemente si tratta di infattibilità della cosa. Ciò è semplicemente impossibile da fare; poichè la complessità di uno scrittore come Lord Dunsany, nascosta dai suoi brevissimi formati, è a maggior ragione troppo significativa per assumere questo ruolo.
Si è coscienti di aver tralasciato moltissimo e sappiamo bene di dover tornare in futuro sull’argomento, ma per concludere un po’ come si era iniziato, e di conseguenza tornare a parlare delle mere questioni “di penna” nude e crude, è nella pienza evidenza dei fatti che Lord Dunsany sia uno scrittore straordinario, in grado di intessere un livello di prosa di elevatissmo pregio e indescrivibile bellezza che mette a dura prova perfino molta letteratura erudita dei classici e non solo quelli del novecento, che talvolta – e non si esagera – al confronto appaiono insignificanti e involuti. Da menzionare infatti è il fatto che non sono moltissimi gli scrittori che reggono indenni un paragone con Lord Dunsany. La dinamica dominante di questo scrittore è quella di utilizzare descrizioni brevi e sempre finalizzate alla rappresentazione del meraviglioso, che esplodono nell’incontro di una bellezza vivida, un uso originale della metafora e della similitudine e di una moderata eccentricità, talvolta ironica, altre volte genericamente pittoresca ed esuberante, ed il tutto non è mai estraneo da forme simili a quelle della poesia che muove le sue formule nella prosa libera ma sulla struttura e le attitudini della fiaba. Ciò conduce la sua prosa verso una poesia essenziale e senza tempo. Ne La Spada di Welleran, i nomi elencati di “Welleran, Soorenard, Mommolek, Rollory, Akanax e il giovane Iraine” vengono reiteratamente ripetuti, a tempo di filastrocca, assumono un ritmo e scandiscono il racconto. In altre storie si opera in maniera simile, come in Thangobrind dove si usa reiterare “Quella casa chiamata notte” in un modo quasi “cardiaco” a fine di ogni piccolo ciclo e con un effetto omoteleutico diffuso su tutto il ritmo della lettura. Molti racconti destrutturati e privi di trama incidono un grande ricordo grazie a queste capacità e talvolta sembrerebbe chiaro che alcuni frammenti da noi archiviati come “racconti”, non potendo meglio definirli siano in realtà traduzioni di poemetti e poesie riconvertiti alla prosa. E’ necessario pertanto riconoscere che in poemetti ritradotti in prosa e utilizzati massimalmente per comporre racconti anticlimatici e liberi da strutture è più facile mantenere livelli elevatissimi e ad alta intensità di ritmo e bellezza, salvo osservare anche tuttavia che la cosa non sarebbe fattibile da una penna modesta o dotata di una espressività normale e nonostante Lord Dunsany sia inimitabile è grande il suo insegnamento, soprattutto riguardo a come un racconto possa originarsi da uno stato poetico iniziale. Clark Ashton Smith, anche se forse più guardando Baudalaire, ha colto tale lezione e:… pare non sia andata così male.
Note e altro
Nota Generale: si è preferito mettere questo vecchio post nella sezione principale piuttosto che in “Archivio Polveroso” sia perchè si è sprovvisti di un contenuto di panoramica su Lord Dunsany sia perchè si è scritto un articolo più attuale qui: Ciò che è possibile, con o senza Sacnoth (Hyperborea, Articoli, 2021)
[1] Il Libro delle Meraviglie – (Di Lord Dunsany, A cura di Claudio De Nardi, Biblioteca 20, Reverdito Editore, 1989)