La Saga di Gilgamesh

Se dovessimo prendere per buona l’interessante esternazione di Umberto Eco volta a definire un classico della letteratura, in senso generico, come “un sopravvissuto”, certamente la Saga di Gilgamesh, risalente al 2500 a.c. circa,  si ritroverebbe piuttosto bene in questa sintesi. Essa è infatti pervenuta alla nostra età dopo una successione di lotte e detronizzazioni nell’area mesopotamica stratificatasi in estrema sintesi ininizialmente con i Sumeri (4000 a.c.), poi Accadi (2350 a.c.) e in seguito di nuovo Sumeri da Ur (2050 a.c. circa), fu poi il turno degli Amorrei che fondarono Babilonia e soppiantarono la terza dinastia di Ur dando vita alla civiltà babilonese e ai progressi legislativi di Hammurabi nel 1792 a.c.

Tra il 1600 e 1200 si svolse un progressivo indebolimento dell’impero babilonese  causato dall’espansione degli Ittiti che si imposero poi al potere salvo crollare a causa dei continui e logoranti attacchi dei non meglio specificati “Popoli del Mare” che favorirono l’emergere degli Assiri, dominatori sino al 612 a.c, periodo in cui i Babilonesi salirono di nuovo al potere. Durò però stavolta fino al 539 a.c. , quando Ciro il Grande conquistò Babilonia fondando l’impero persiano che si espanse progressivamente con i figli, Dario e Serse, per infrangersi poi contro la difesa greca nel cercar di sfondare a occidente. Se quindi è vero che la nota epopea del Re di Uruk è risalente al 2500 a.c. significa che la sua creazione ebbe luogo agli ultimi spasmi della prima dominazione sumerica. Chi può definirsi “sopravvissuto” – sempre nell’uso del termine più gradito a Umberto Eco – se non colui che arriva a noi superando una storia così desultoria?

Uno dei motivi della sopravvivenza si potrebbe riconoscere nella sua vasta diffusione della quale se ne ha idea sol pensando agli ottanta ritrovamenti delle tavolette che recano la parte di storia in cui Gilgamesh, insieme ad Enkidu, affronta Humbaba alla Foresta dei Cedri. Rilevante è tuttavia citare l’editto di Assurbanipal, che ordinò di adunare tutti gli scritti ritenuti come pre-diluviani costituendo una biblioteca protetta. Tra questi testi vi era anche quello del sapiente, esorcista e scriba Sîn-lēqi-unninni, che narrava l’Epopea di Gilgamesh secondo supposizioni non confermate, [1] e riportiamo che, fondamentali furono anche le iscrizioni cuneiformi ritrovate a Ninive e Assur, una vera svolta per gli archeologi inglesi e tedeschi. [2]

Per molti, o quantomeno per coloro che vedono nei miti una forma diversa della “stessa storia” la sopravvivenza di Gilgamesh è addirittura in varie forme. Tale idea si basa sulle analogie che l’epopea del Re di Uruk presenta con altri personaggi dell’epica, soprattutto nello specifico delle “diluviane  avventure” di Noè e di Deucalione. Si fa spesso menzione delle similitudini con Achille e la sua lotta contro un fato avverso, contraddistinta anche dalle motivazioni di vendetta dovute alla morte di Enkidu alla stregua di Patroclo, causa di irreparabile sofferenza per Gilgamesh. Ma compare anche l’Odissea tra le saghe con presunta radice comune, paragonata a quella sumera per la spiccata presenza del tropo del viaggio. Si può certamente dire che lo scalpitante eroe di Uruk, quale figlio di un re umano come Lugalbanda e di una dea come Ninsun rappresenta, contrariamente ad Eracle e a quelli con genitorialità invertità nel sesso – quindi padre divino e madre umana – lo stigma di un Eroe mortale, un fattore che – bisogna ammetterlo – mette in seria discussione anche lo status messianico che  – nel nostro piccolo, si intende – si è sostenuto nella brevissima panoramica sui Miti Eroici.

E’ necessario tuttavia fare qualche considerazione sulla teoria che vede Gilgamesh come l’origine unica delle mitologie, cosa che consiste pertanto nell’assunto “tante storie diverse ma sempre la stessa storia”.

Non si può negare che Gilgamesh sia un eroe straordinariamente polivalente essendo un eroe guerriero per la grande difficoltà delle sue imprese, un eroe seduttore e anche, secondo alcuni, un eroe fondatore, sebbene molto spesso è attribuita ad Enmerkar la fondazione di Uruk. Le voci sulle origini nebulose e dibattute di Gilgamesh lo ritraggono sia come figlio di Lugalbanda sia come trovatello e a metterci ulteriore confusione, anche se in maniera gradevole, è lo scrittore, poeta e scienziato latino Claudio Eliano, che nel suo trattato scientifico De Natura Animalium [3] opera una digressione assai singolare ove un Re, chiamato Emmerkar signore della Città di Uruk (più chiaro di così), apprende la profezia che colei che partorirà suo figlio, causerà per mezzo del suddetto la sua fine. Pertanto, Emmerkar rinchiuse la vergine in una torre negandole qualsiasi contatto, eppure, forse per magia, questa partorì lo stesso. Il figlio chiamato Gilgamosh sarà gettato dalla finestra dalla madre per paura dell’ira di Emmerkar ma fu salvato da un’aquila che prendendolo con sè, dolcemente lo adagiò in un bellissimo bosco di Palme. Cari amici; abbiamo in un colpo solo: Danae, un parto messianico in stile biblico, Raperonzolo e le aquile giganti dei miti e delle fiabe nordiche, tuttavia la teoria del “tutto è la stessa storia” non è ancora troppo convincente, pur contando che sempre da Claudio Eliano proviene una fiaba non dissimile da Cenerentola. D’altro canto è la stessa saga a dire che Gilgamesh era già esperto e sapiente  sin da prima delle sue avvnture, e non certo di sfuggita, ma chiarendolo nel sillogismo della sua protasi.

“..Egli è grande, possente, esperto e glorioso, ma non lascia libera la fanciulla col marito!. Della figlia del guerriero, della moglie del giovane, ai lamenti prestarono ascolto gli dei […]  (Anonimo) [4]

Bisogna aggiungere che le similitudini con Eracle menzionate in molte sedi non sono poi così lapalissiane. Gilgamesh affronta un viaggio “di formazione”, dove tanto è forte il sentore di sconfitta e fallimento che sempre insegue – almeno dalla seconda parte – le calcagna dell’eroe, quanto però è altrettanto forte la sua crescita personale e “umana”, sino al culmine in cui egli abbandonerà i suoi vecchi strumenti di oppressione e prepotenza con i quali assillava il popolo di Uruk (Tamburo e mazza) allorchè si getterà nelle acque per cercare la pianta dell’immortalità. Eracle è invece moralmente retto e formato già sin dall’inizio, non presenta le sgradevoli devianze di Gilgamesh e le sue rare condotte inique sono dovute a strettissime contingenze di circoscritto opportunismo o ad interventi esterni che alterano la sua sanità psichica. Gilgamesh soffre di una particolarissima e singolare discrasia, quella d’essere esperto, formato al vivere civile e urbano,  sapiente e colto già dagli inizi e dai pregressi della sua saga, ma per tutta risposta totalmente addietrato nella moralità e sarà quest’ultima a crescere nel suo viaggio avventuroso e formativo più che la sua esperienza generale. Sarà lui sin dagli inizi ad avere la malizia di indebolire quello che sarà il suo migliore amico, colui che al principio fu suo rivale. Gilgamesh escogiterà quasi all’incipit della sua storia il modo di “corrompere” Enkidu con la lussuria di una cortigiana e questi degraderà dal suo status di “capobestia semidivino” perdendo una significativa parte della sua armonia con la natura, pertanto della sua magia. La presenza di Enkidu venne richiesta dal popolo agli dei poichè Gilgamesh infliggeva alle genti di Uruk un perenne malcontento tenendo per se ogni vergine e moglie e nessuno era in grado di controbattere alla sua semidivina forza.

Come ben sappiamo Enkidu diverrà suo grande e inestimabile amico, si guadagnerà il rispetto di Gilgamesh come rivale e si unirà a lui contro il demone Humbaba, il Leone e il fortissimo e robusto Toro della Siccità, con egli condividerà imprese guerriere e avventurose che forgeranno una grande amicizia, ma la sua arroganza verso la Dea Ishtar sarà punita con una morte molto amara e pregna di agonia. Anche queste narrazioni in cui vengono spesso trovate rassomiglianze con le vicende di Achille, di cui si è parlato anche qui nel precedente articolo sui Miti Eroici, sono soggette a potenziali osservazioni e puntualizzazioni. La morte di Patroclo è funzionale alla rappresentaazione di un Achille vendicatore, implacabile e dominatore del suo destino, pertanto della sua Ira, in una forma che potrebbe ricordarci la Riastrad (frenesia di guerra) di Cuchulainn. La morte di Enkidu invece sembra disporre istanze completamente opposte, non serve affatto quest’ultima a rifornire di contenuti la tipologia di eroe-guerriero che rettifica il destino e impone la vendetta, bensì solo a innescare l’impotenza e la paura della morte che occupa nell’Epopea di Gilgamesh la stessa identica casella dell’Ira in Achille e la Riastrad in Cuchulainn, in quanto essa è la perenne lucerna che illumina sopra la testa il cammino dell’eroe, nonchè un sentore di “spada di Damocle”. La morte di Enkidu sembra utile quindi ad inserire nella storia la corsa escapista di Gilgamesh contro la morte e la sua incapacità di ridurre il divario con gli Dei. Enkidu infatti restituirà nella sua agonia, poco prima di morire, la prima “testimonianza dantesca” nella storia di un viaggio nell’aldila, instillerà in Gilgamesh il sentore della morte e comporterà un positivo cambiamento nell’ eroe suo amico fraterno.

[…] venni condotto nella casa buia, l’abitazione della Dea degli inferi, nella casa della quale chi entra non può più uscire, per una via che non si può percorrere indietro, nella Casa in cui gli abitanti sono privati della luce; dove il cibo è polvere, il pane è argilla; […]” (Epopea di Gilgamesh)

Anche sul concetto del Diluvio sono senza dubbio necessarie delle brevi considerazioni. Innegabile che il diluvio sia uno dei tropi più diffusi nella mitologia, bisogna tuttavia riconoscere che le intemperie di per sè, sono un fenomeno ugualmente diffuso anche nella realtà e non e poi così sorprendente scovarle in più d’una saga. Se osserviamo bene i due diluvi nella mitologia celtica sono estremamente localizzati in piccole aree geografiche, non provocati da nessuna precisa volontà divina, pertanto diversi sia da quello del Poema di Gilgamesh, sia da quello delle vicende di Noè, e anche da quello Norreno. Nelle saghe norrene, pur permeato da un sentore di universalità a causa di un’essenza leviatanica, è il colossale serpente marino  Jormungandr a provocare il diluvio.

Sarebbe mistificatorio e forse inappropriato sistemare con accuratezza sartoriale un significato preciso a tutto ciò che Gilgamesh compie, non si nega quindi che parte delle sue lotte e figurologie possano esser dovute a semplici rappresentanze ancestrali favolisticamente raffigurate. Non è tuttavia eretico notare che Gilgamesh, nella sua primissima forma, quella di un regnante quasi annoiato, che talvolta suonava il suo tamburo gettando panico nel suo popolo, sicchè uscendo da Palazzo consumava e vinceva scontri impari con padri, mariti e fratelli portando seco poi fanciulle e pulzelle come un bottino di saccheggio , esprima una disarmonia con la natura e con il popolo di Uruk apparentemente insanabile. Il suo contronto con Enkidu che sancisce il loro legame potrebbe non essere inquadrabile solo come una storia di amicizia, rettitudine e di avventure eroiche da condividere, bensì anche come un conflittuale rapporto tra l’uomo urbano; dei palazzi, dell’agricoltura e dei templi edificati, con la forza pura della natura. Proponendo ad Enkidu i piaceri che una prostituta può dare, la natura viene soggiogata e la loro amicizia diverrà simile ad un equilibrato rapporto di affetto e riverenza reciproca, ma porterà anche un degrado di Enkidu che da “Beastmaster magico e semidivino” scende ad essere una buona spalla per Gilgamesh, conservando solo parte della sua magia. Tuttavia il fondale di questi fatti, nella visione d’insieme è positivo, in quanto esplicito a dimostrare che un rapporto equilibrato tra civiltà e natura porta a grandi vittorie, Gilgamesh e Enkidu vinceranno scontri impossibili; con il demoniaco mostro del Bosco dei Cedri Humbaba, con il colossale Toro della Siccità e con l’arcigno Leone. Ma sarà l’arroganza da civilizzato (e non l’audacia da selvaggio) a portare Enkidu ad insultare la potente dea Ishtar, che non lascerà impunito il gesto, infliggendo a questi un’agonia e morte che certo egli non meritava. Gilgamesh non inseguirà la vendetta come Achille o Cuchulainn ma sarà pervaso dalla paura della morte e tutto ciò che farà dopo si baserà su questo. Nella seconda parte dell’epopea, contrariamente alla prima, si ha una continuità di fallimenti e sconfitte, Gilgamesh recupera quindi il suo status messianico mostrandosi, pur semidivino, umano e di carne proprio come il Cristo che tuttavia è di gran lunga più vittorioso e produttivo rispetto a Gilgamesh, a ben vedere. Come si è detto anche nella vecchissima digressione risalente al 2016, gli dei infliggeranno il diluvio per operare un “reset sociale” su un’umanità sovrappopolata, corrotta, arrogante e chiassosa e Gilgamesh vi scamperà trovando il vecchio navigatore Utnapishtim. Da semplice umano il semidio non riuscirà a vegliare le notti e sfinito dalle sue avventure si addormenterà. Sempre da semplice umano si farà sorprendere durante una sosta di riposo dal serpente che mangerà la pianta magica che lui aveva recuperato tuffandosi in mare. Si potrebbe osservare che la vicenda, più che essere sovrapponibile a quella di Noè, sembrerebbe piuttosto contemporanea o quantomeno, una vicenda diversa ma nelle stesse inerenze diluviane. Le esperienze insegneranno a Gilgamesh che nulla è paragonabile al vanto di essere un bravo “uomo di casa”, regnante giusto, saggio e in armonia con il popolo. Pur frammentaria, La Saga di Gilgamesh vanta una straordinaria e agrodolce completezza di contenuti che ben si addice ad un eroe versatile, che probabilmente assumerà una connotazione ascetica e “rinunciataria” nel comprendere – diversamente da molti eroi – che regnare equamente è forse qualcosa di più nobile che inseguire sogni e ambizioni straordinarie. Molti eroi non condivideranno le conclusioni a cui giunge Gilgamesh, ma nel mito e non meno nella letteratura odierna, ogni testo offre argomenti convincenti per ogni verità ed è proprio su questo che si basa la critica comparativa.

Note Bibliografiche

[1] I Sumeri – (Di Giovanni Pettinato, Bompiani, 2005)

[2] Semiramide – ( Di Giovanni Pettinato, Rusconi, 1985)

[3] La Natura degli Animali – (Di Claudio Eliano, Bur/Rizzoli, 1998)

[4] L’Epopea di Gilgamesh – ( Anonimo, Introduzione di N.K. Sandars, Adelphi, 1986)

 

Pubblicato da Pat Antonini

Ha studiato letterature e lingue straniere moderne. Collabora stabilmente con Hyperborea, Centro Studi Eurasia-Mediterraneo, Dragonsword e Punto di Fuga.