Il Vij (Nikolaj Gogol)

Pur nel rendersi conto che per la scelta di espressioni tecniche e letterarie – di livello in vero assolutamente incontestabile – nonchè  per forme strutturali, il racconto dal titolo Il Vij possa non essere la più consigliabile tra le opere brevi di Nikolaj Gogol, quest’ultimo, tra quei racconti russi che sfiorano il contesto fantastico; occulto, mitologico; folk – che si intenda tutto all’insieme o quand’anche separatamente – talvolta perfino radenti al romanzo introspettivo o psicologico, è decisamente il più ammaliante, ipnotico e quello che maggiormente cerca un contatto – pur mai a buon mercato o banalmente – con il romanticismo-gotico occidentale. Inutile dire che se si entra nella mentalità di questo tipo di narrazione, tali intenti di Gogol risultano cosmicamente vittoriosi soprattutto nel creare un qualcosa di unico nel rappresentare un’essenza russa senza tempo, nonostante i suoi arridenti avvicinamenti ad alcuni tropi germanici e all’occidente. 

La lettura del Vij induce inesorabilmente a rivalutare – non necessariamente in senso strettamente negativo – le pellicole che ha ispirato, a partire, almeno per quanto ci riguarda, dalle due italiane di Mario Bava (1960) e del figlio Lamberto (1989), entrambe intitolate La Maschera del Demonio, senza tralasciare ovviamente quella sovietica di Georgij Kropačëv e Konstantin Eršov, (Il Wij, 1967). Tutte e tre le opere visive sono accomunate da una soddisfacente approssimazione basata sulla libera ispirazione altamente soggetta a variazioni, nonché ad una riorganizzazione totalmente in chiave britannica del racconto di Gogol. Il film di Mario Bava non sfigurerebbe affatto in mezzo agli Hammer, tutt’altro; potremmo addirittura spingerci a dire – sperando che nessuno si risenta – che li umilierebbe uno ad uno nell’esser loro superiore per una sua poesia dalle tonalità occulte e sulfuree che nessuno tra i britannici, pettinatissimi e abbottonati Hammer, pur gradevoli e più blasonati, ha mai lontanamente sognato. L’altro dell’accoppiata russa del ’67 parrebbe più ispirarsi a Gogol ma solo per concretizzare infine un intento di convertire la ricerca “tra orrido e grottesco” dello scrittore russo in una via di mezzo tra una rilettura generica di Edgar Allan Poe e una storia tipica di Riccardo Freda.

Badate bene, esprimere questa riflessione con lo scopo di chiarire che i tre degni lavori – quello eccellente di Mario Bava; il più modesto di Bava figlio e l’altro di Kropačëv/Eršov – non siano all’altezza dell’opera prima di Gogol, non sarebbe un gran colpo, e avremmo certo fatto prima a dircelo chiaro e tondo senza ne tediarvi troppo. Ricostruire il significato stilistico delle tre trasposizioni cinematografiche ci è utile semmai a capire che era impossibile riprodurre una poesia così cosmica e un universalismo letterario come quello che Gogol ha saputo creare nel suo racconto, nonostante la sua estrema semplicità strutturale, poichè, ed è qui che forse viene il bello, Il Vij è strutturalmente parlando né più e né meno che una fiaba, non è tecnicamente paragonabile al formato novellistico di Doyle, Poe o M. R. James, rischiando addirittura di essere una Fabula, essendo sprovvisto perfino del “consigliere buono dell’eroe”. Ma poi,… c’è tutto il resto a fare la differenza.

L’ approccio di questo racconto del 1835 ha una attitudine fiabesco-aneddotica, che si protrae indubbiamente lungo lo svolgimento diramandosi tuttavia anche in altre aree, riuscendo ad essere molte cose in una sola e semplice quintessenza, pur nel non rendersi mai velleitariamente multiforme, e questo, banalmente,  certamente lo si deve alla capacità letteraria di Nikolaj Gogol. Non manca l’irridente provocazione della satira e del grottesco, nel mostrare come le paure ataviche rimangono vive in qualsiasi ceto sociale. Non manca l’amarezza del realismo russo , né “l’ebrezza lucida” di quel pionierismo da precursore e predisegnatore del realismo magico, che ha galoppato – che si chiami Bontempelli, Marquez o Borges il cavallo – su una strada incontestabilmente aperta da Gogol, cosa che certamente troveremo ancor di più in altri racconti. Lo abbiamo già detto, ma per mettere tutti i punti al posto giusto è bene ripetere che non manca neanche – essendo anzi preponderante – il racconto folk puramente russo e, seppur menomata, neanche la struttura fiabesca; sebbene compaia anche ovviamente l’inclinazione gotico-romantica – se non addirittura Horror -,  sia britannica che tedesca, nella presenza della strega e i suoi aspetti attraenti e laidi, e nella fascinosa estetizzazione del desueto così come la progressiva costruzione di suggestioni climatiche che portano verso un culmine finale, dopo una attesa assai tesa, pur essendo ovviamente quest’ultimi elementi meno marcati rispetto ad un racconto di Clark Ashton Smith, tanto per dirne uno a caso. E alla fine, anche lo stesso “Wij”, proprio come il racconto che lo ospita e lo scrittore che lo genera è una quintessenza di molte cose. Lo spirito, il demone, la creatura, che emerge al culmine della storia ha naturalmente una sua essenza luciferina, accompagnata dal mondo gotico-romantico dalla strega e dalle suggestioni del protagonista, ma questa non mette certo in minoranza la sua natura folk di “incubo collettivo” e locale che non è poi così separato dalla “Urban Legend di Freddy Krueger“. Ma il “Wij” è anche e non meno il Re degli Gnomi, il Lesij e il Chort in una sola anima, il Troll e lo spirito cornuto celtico riuniti, un respiro primitivo emanato dal profondo più intemperante e alieno della natura, della caverna e del bosco, e che è anche – a suo modo – nella sua manifestazione geotropa, ctonia e terrosa, una creatura fraterna alle radici elementali e del bosco come in quelle dell’immaginario collettivo, e questo certo ci suggerisce la sua natura folcloristica di “paura locale”, stultifera e irrazionale, ma è penetrante e reale nel condurre al collasso le certezze “dell’uomo civilizzato e urbano” dimostrandosi non meno abissale del silvanismo macheniano del Grande Dio Pan, e del prezzo della conoscenza quasi sempre pagata con la follia. Se mettessimo il fiocco finale su tutto definendo questo racconto un capolavoro forse non andrebbe così male, ma anche qui, non è così semplice. Non sarebbe forse del tutto corretto prendersi questa responsabilità per un racconto che si presenta a noi come una “fiaba per difetto”, e che potrebbe non rispondere alle esigenze di tutti i lettori soprattutto se disabituati a questo breve formato o alle attitudini particolari utilizzate da Gogol. Si potrebbe pertanto rischiare meno e adottare un pragmatismo essenziale per un’efficacia che in questo caso è bene non disprezzare. Non sarebbe una bestemmia considerare il Vij uno dei migliori racconti brevi fantastici mai letti, potenzialmente tra i primi cinque o dieci, non mancando tuttavia di sottolineare che questo risultato può essere ovviamente prodotto da valutazioni individuali, e che viene raggiunto grazie alla capacità di uno scrittore di portare a termine tutte le sue aree di pensiero – il protorealismo magico, il sentore di realismo russo, il grottesco, l’orrido, il gotico, il racconto folk slavo che tuttavia è conciliante con l’occidente europeo – pur in una “fiaba”, mostrandosi per questo assai diverso da storie che sarebbero naturalmente accostabili, anch’esse peculiari e commentabili, come il Vampiro di Tolstoj, il Monaco Nero di Cechov o il Demone Meschino di Sologub, ma piuttosto producendo un universalismo eclettico e senza tempo più fraterno con le lontane lunaticità di Lord Dunsany.

Note

(Nessuna)

Pubblicato da Pat Antonini

Ha studiato letterature e lingue straniere moderne. Collabora stabilmente con Hyperborea, Centro Studi Eurasia-Mediterraneo, Dragonsword e Punto di Fuga.