Considerazioni su “I Principi del Mare” e i precedenti romanzi

Non avendo ancora nessun contenuto qui su Dragonsword riguardante Andrea Gualchierotti è possibile concederci il lusso di ricostruire il pensiero e il percorso dello scrittore romano, tenendo sicchè in conto seppur in maniera contenuta anche il suo lavoro precedente al tema di oggi, che si stringe attorno a I Principi del Mare – e considerazioni collaterali – ossia il recente romanzo uscito sul finire del 2022. Nel caso di Andrea Gualchierotti si può parlare indubbiamente di un nuovo obiettivo qualitativo raggiunto, poichè è riconoscibile, tra i vari, il pregio indiscutibile di una capacità di esprimere al massimo le caratteristiche a disposizione di ciascuna storia, a partire da Gli Eredi di Atlantide, sino a quest’ultima “gionta” odisseica. In sostanza, nel percorso del Gualchierotti si trova un pensiero identitario assolutamente riconoscibile, che permette alla sequenza delle sue storie di essere un qualcosa di molto più avanzato di “oggi vi abbiamo raccontato questa, al prossimo episodio amici lettori“, cosa che, ammetterete, non avviene molto spesso nei romanzi odierni, e quando avviene è addirittura per il peggio, ovvero per nutrire lunghe saghe bulimiche che finiscono poi sempre a decedere di malori asfittici, e di casi eccellenti, in tal senso non mancano. Ma vedete; talvolta, per il recensore, si tratta di misurarsi alla sfida di produrre definizioni convincenti per contagiare i lettori col morbo della propria idea, cosa che in realtà è di modesto interesse poichè – e vi assicuro che sempre, almeno qui è stato così  – si vorrebbe principalmente trattare di nette evidenze a supporto di una tesi precisa. 

Gli Eredi di Atlantide, scritto da Andrea Gualchierotti e Lorenzo Camerini, inizia un percorso includendo un elemento particolare, e quest’ultimo non è un componente qualsiasi, ma è l’assenza più evidente, il “sussurro più gridato” e il “silenzio più rumoroso” che si trova nel mondo della saga più importante e  straordinaria della storia del genere, ossia quella di Conan il Barbaro di Robert E. Howard. Non sarebbe scorretto dire che in fin dei conti, lo scrittore americano, abbia costruito la sua narrativa di protostoria interpretativa principalmente sul riferimento logico fondale di Atlantide, poichè l’elemento protostorico del mondo perduto per la Sword & Sorcery (Heroic Fantasy americana) risponde alla perfetta corrispondenza all’elemento antistorico (pseudomedievale) del mondo inventato per la cugina, ovvero l’Heroic Fantasy (Heroic Fantasy inglese). In breve, il componente atlantideo ha indubbiamente sostanziato e qualificato il mondo dell’Howard in maniera pervasiva, ma lo ha fatto principalmente per la sua “assenza ingombrante” e non per una “presenza caratterizzante”, sebbene infine, per ovvie ragioni, caratterizzante ha finito per esserlo lo stesso. Non è ovviamente un caso che “l’assenza di Atlantide”, soltanto suggerita o favoleggiata nell’Howard sia stata il principio creativo principale per De Camp, Kuttner, o anche per Carter pur nella sua ipotesi alternativa lemuriana, ed in seguito anche per altri come Fox, e senza dubbio un lettore trentennale di Sword & Sorcery e Fantasy potrebbe castigare benissimo per mezzo d’un consolidato pregiudizio Gli Eredi di Atlantide di Andrea Gualchierotti nell’inquadrarlo come una prosecuzione del decampismo, frutto di tutta la Sword & Sorcery del “dopo-Howard” che ha reagito alla “rumorosa assenza” di Atlantide, salvo accorgersi che non è assolutamente così, poichè tale pensiero avviene in realtà prima di leggere il romanzo in questione o quantomeno non dopo una attenta riflessione. Ne Gli Eredi di Atlantide si trova non solo una ricostruzione assolutamente personale, ben arieggiata dal Peplum, dalla Fantasy e dall’ellenismo, ma vi è anche una degnissima ipotesi di una Atlantide che Howard avrebbe scritto se non avesse deciso di “eluderla” – poichè “escluderla” non sarebbe veritiero – o se fosse vissuto abbastanza da includerla, ammesso che potesse mai succedere.

Ammetterete che più si pensa a questo, più si capisce che modo migliore per iniziare a scrivere Sword & Sorcery nei tempi odierni non può esserci, salvo però considerare che è,  si il modo migliore, ma per chi sa scriverla, poichè è anche indubbiamente il modo più difficile, più “epicentralista” e spregiudicato, prima ancora d’essere il più sensato per creare una narrativa in grado di rapportarsi direttamente con le tradizioni del genere.

Questo, volutamente o no, ha avuto un peso su quanto accaduto successivamente, poichè ha permesso il “superamento del Peplum” in Guerra delle Piramidi. Il seguito de Gli Eredi di Atlantide comporterà il “superamento del peplum” non solo per il motivo più macroscopico, ovvero l’uscita dall’interpretazione protostorica per lambire l’ipotesi storica, come avviene ne La Guerra delle Piramidi, ma anche perchè nelle atmosfere concrete delle storie successive del Gualchierotti, il revival mitologico e greco sarà indubbiamente oscuro, decisamente cupo e privo di quella corrusca baluginanza del Peplum, che, ad ogni buon conto, su Eredi di Atlantide potrebbe ancora esservi in minima parte, ma che certamente comincia a dissiparsi subito dopo. Ovviamente i carmi più disincantati della bellezza ellenica dei revival degli Sword and Sandal non saranno soppressi, come è giusto che sia, ma dovremo decisamente sudarceli e abituarci a vederli in coabitazione d’ una visione Fantasy avventurosa più oscura e funesta, che ne I Principi del Mare è portata alla massima espressione. Nello specifico della storia della prosecuzione odisseica di Alkas si uniscono anche elementi che certamente non sono sorprendenti in senso stretto del termine, e che rientrano nel pieno rifornimento della faretra del Gualchierotti, ma sono posizionati con considerevole efficacia e dotati perfino di una suggestione visionaria quasi inedita. Con quest’ultimi, si vuole intendere ad esempio i piccoli richiami a Stirpe di Herakles, un vero regalo – sebbene centellinato – per chi ama i “ricorsi”,  l’uso dell’elemento onirico, gli approcci puristici alla mitologia e le sue suggestioni pagane, ritualistiche – non inedite nelle storie del gualchierotti – stregonesche e divine che contribuiscono a rendere l’ambientazione de I Principi del Mare notevolmente vitale, ricca di “senso del meraviglioso” e “in danzante movimento” attorno alle vicende dei protagonisti. Ma non meno si vuole includere nelle menzioni la strumentazione più classica come quella del colpo di scena, dell’arte intrigante e della tecnica generale.

Tornando tuttavia al percorso e alla considerazione sulle opere precedenti, ciò che avviene dopo i due romanzi della dilogia di Atlantide è l’avanzamento di una narrativa più puristica, che certamente perde volume in termini di pagine, ma aumenta la sua portata da un punto di vista dell’autorialità, dei tropi e della prosa: L’Era del Serpente rinuncia quasi del tutto all’avventura, per intessere una narrazione a tutti gli effetti “storica”, non certo perchè fatti e personaggi pretendano d’esser reali, naturalmente; bensì perchè i protagonisti incarnano caratterizzazioni rappresentative, del tutto funzionali a mostrare una battaglia tra due popoli deboli e forti al tempo stesso per speculari ragioni; acerbo seppur emergente quello iperboreano, temibile ma decadente l’altro degli uomini serpente. La riposta del testo sarà infatti verso una prosa più magmatica, non a caso scandita dal grande vulcano che è metronomico per i suoi ritmi apocalittici, e varierà ancora verso quei richiami salgariani e avventurosi de  Gli Imperi delle Sabbie che si distingue anche per qualche tocco alla Clark Ashton Smith. Infine, nel romanzo più accostabile – almeno per fisionomie generali o richiami diretti – a I Principi del Mare, ovvero La Stirpe di Herakles si trovano più “ritmi e velocità”. Ai meridiani si puntano e allungano le linee verticali delle malinconiche amarezze dei nostos, la sanguinosa umoralità atridea, la cupa rinascita eraclidea, e dal versante dei paralleli le intersezioni avvengono all’avventura dalla Fantasy composta da un eroe non sempre solitario, ma talvolta spalleggiato da collaboratori per avventure di spada e magia, la grande battaglia e infine il titanismo eroico. In altre parole: Fantasy Mediterranea nel senso maggiormente pieno, puristico e culminante del termine. Arethes, in effetti, al meglio rappresenta “L’uccello in tempesta che mostra le sue ali alla luce“. Henry R. Haggard, ne Le Miniere di Re Salomone non intendeva rappresentare soltanto la caducità umana con la sua visione, ma anche l’opportunità di essere eterni nella propria impresa “nell’istante” che il destino concede; ed entrare in contatto con una sorgente divina per lanciarsi lungo il proprio percorso eroico è certamente un modo foriero d’una catarsi non meno sensibile di una spada talismanica di stampo arturiano, di una profezia che predestina l’eroe e le sue “gestes”, di un amore tormentato e conquistato con gran sofferenza e di tutti – senza stare ad elencarli – i turbamenti romantico-gotici – e quelli della vendetta qui non mancano – che in Stirpe di Herakles appaiono invidiabilmente unici e dotati d’un essenza titanica, che persiste effettivamente ne I Principi del Mare, anche se in questo caso il titanismo appare spesso rivolto anche nell’elemento dell’ignoto geografico – il pressochè inesplorato, selvaggio e “stregato” Epiro – e nell’elemento idrografico, dilagante nel suo essere misterioso e pericoloso, capace di riservare al viaggiatore perfino un “incrocio impossibile, fra una piovra e una stella marina, le cui dimensioni superavano quelle di qualunque bestia Alkas conoscesse…” eppure in una revisione dell’ampiezza del panorama odisseico ristretto ad un’area marittima ridimensionata rispetto a quella che l’immaginario collettivo attribuisce ai viaggi di Ulisse.

Il senso di ignoto che il mare e il mistero epirico infliggono su Alkas è un qualcosa di tangibile. Il mare non è un insieme di storie del litorale – che naturalmente non sono escluse a priori dal romanzo – ma è un elemento di pericolo abissale e minaccioso, che ridisegna quella stessa essenza titanica che si trovava in “Stirpe di Herakles“. Il collasso dei misteri dell’epiro si esprime tragicamente e in maniera dilagante, per mezzo di un ignoto “paventato” in senso stretto del termine – ovvero ipotizzato sulla base della paura – e anche di personaggi come Golgos e Calliroe, quest’ultima più che degnamente complessa e universale, pienamente ellenica ovviamente nel suo legame ad Ecate, ma non meno accostabile al mondo celtico di Morrigan e O’Fetch, a quello esotistico di Lilith e  in ultimo a Moorcock o Eddison per i suoi toni tragici. Occorre chiarire che tali complessità, nello specifico di Eddison, hanno indubbiamente una grande energia che è tuttavia deterministica e mai veramente epica, ed espressa “elisabettianamente” – pur nei tempi edoardiani – in alternativa a ciò che “vittorianamente” aveva detto William Morris prima. Ma più di ogni altra cosa, il richiamo a Eddison ci è utile a specificare che lo spirito tragico, arcigno e soverchiante  che si trova ne I Principi del Mare – presente a ben vedere anche in Stirpe di Herakles –  è composto da un modo esteso, indubbiamente tradizionale, ma anche vitalmente fresco ed energico di rappresentare la realtà fantastica, che non cerca di dipingere un “eroe realistico e più umano” per mezzo delle sue turpe, parafilie, fragilità o suggestioni riadattate dal moderno, ma di dar vita a quell’eroe “realistico e più umano” nella sua umanissima volontà di desiderare d’essere “più che semplicemete umano”; nell’illusione – per intenderci – che il suo scudo di normalissimo bronzo possa ripararlo dal colpo d’un martello tonante, da atti estremi che vengono da volontà estreme e titaniche, di sentimenti eccessivi che corrispondono a gesta a loro volta di veemenza dilagante. Bisogna ammettere che nella sfida impossibile può sempre crearsi il momento in cui gli dei aiutano gli audaci, ed è così che, effettivamente, il fantastico, il meraviglioso e il magico diventano reali in una vicenda eroica, e che l’epopea diventa anche mitopea, agganciata peraltro per mezzo di una “gionta” omerica. Tutte caratteristiche che ne I Principi del Mare sono incontestabilmente presenti.

Questa conformazione di impressioni, sono la ricostruzione di un pensiero, ma soprattutto somigliano decisamente più a Nette Evidenze che a “definizioni convincenti”, e di certo sorge spontaneo chiedersi il perchè certe componenti che caratterizzano i romanzi del Gualchierotti siano ormai così rarefatte. Ma non è bene star li a scervellarsi, c’è poco su cui pensare, la risposta è davvero la più banale; ed è perchè mancano.

Tuttavia non è questa l’unica domanda da farsi poichè è altrettanto legittimo chiedersi in quante occasioni nei romanzi odierni sia possibile ricostruire un pensiero autoriale in una scena editoriale come quella attuale, dove gli scrittori sono il più delle volte percepiti come una calca di pretendenti a qualcosa che il lettore, spesso con il suo blog, il suo canale you tube, dovrà poi valutare tra uno sbadiglio, un’occhiata disattenta e l’altra, e di questo certo non si può incolpare i lettori, i recensori né gli scrittori stessi in particolare, ma più precisamente occorrerebbe osservare le dinamiche generali e comportamentali di tutta questa “fauna” nell’habitat dell’editoria, cosa che ora non è il caso di analizzare.

Arrivando quindi nuovamente a concludere nello specifico de I Principi del Mare, è identificabile una prosa che certamente non perde le caratteristiche degli inizi: un ordito di fondo che potrebbe essere talvolta anche haggardiano se non si vuol sempre ricorrere ai nomi nel fantasy, con un volume terminologico e un lirismo sanguigno howardiano sempre presente, e in aggiunta le influenze talvolta minoritarie, intermittenti o dal ricorso alternato, che tuttavia non sono meno decisive delle due sopracitate, poichè sostanziano la parte personale dello scrittore che è imponderabile per il recensore, ma che potremmo riconoscere nell’influenza elusivamente lovecraftiana, quella di Clark Ashton Smith e del ricorso ellenistico di tipo puristico condotto sempre con grande padronanza e che si bilancia a quello del Peplum letterario. Le caratteristiche esposte in quest’ultimo romanzo offrono delle differenze dalla scrittura più rotonda e compatibile con la Fantasy Classica dei tempi di Atlantide, quella più elucubrante di Era del Serpente, e ancora con le successive che non è utile star a ripetere, e sono un tipo di differenze che certo non sono identificabili dal lettore generalista sulle prime, ma sono altresì riconoscibili dal lettore specifico che non essendo “occasionale” frequentatore d’un genere, è più facilmente chiamato a considerare la visione d’insieme di una serie di romanzi fantastici legati ad un pensiero autoriale. Il modo di scrivere ne I Principi del Mare è infatti estremamente levigato e saettante, non rinuncia alla ricchezza e rotondità del passato ma appare più artigianalmente scolpito al millimetro, e il senso di “artigianalità” – e qui entriamo nel campo del “secondo me” – è una componente imprescindibile per un romanzo che abbia una pretesa genericamente autoriale, e che si prefigge l’obiettivo di offrire qualcosa di imponderabile nell’aderire ad uno stile, ad un genere e alle tradizioni. I più grandi scrittori del fantastico sono sempre e incontestabilmente basati su una attitudine “artigianale” e non serve davvero stendere un elenco di nomi eccellenti secondo questa caratteristica, ma se proprio ne volete uno eccovi serviti: Lord Dunsany.

Sotto certi aspetti, ne I Principi del Mare, si trova un velato ritorno “cosmicista” ad Era del Serpente, ma in fattori assolutamente diversi, sempre corrispondenti, si intende, ad una “elusiva lovecraftianità” ma con un senso differente in termini di resa drammatica. Basti vedere, ad esempio, la figura di Ulisse che forse sarebbe iperbolico vedere come il malvagio o l’antagonista della storia, ma non è affatto esagerato – sia anche per ovvie ragioni basilari, essendo lui la causa della fuga di Alkas – vederlo come l’incarnazione di ogni paura e di un mondo minaccioso attorno ad Alkas e se questo appare normale per le premesse odisseiche del romanzo, dall’altro è invidiabilmente brillante che sia proprio direttamente Ulisse stesso ad assumere questo ruolo nel concreto della narrazione e ad apparire secondo una revisione inaspettata e sulfurea, nient’affatto scontata ma che per contro trova in maniera sorprendente un senso plausibile. E’ davvero sorprendente l’uso che viene fatto di Ulisse ne I Principi del Mare. Il grande eroe di Itaca, effettivamente, per quanto eroico, non è certo sprovvisto di caratteristiche  diaboliche, sia nella stessa ferocia miope nella strage dei proci, sia nel considerarlo anche incline a certi comportamenti tipici del “Trixting” non dissimili da quelli di Loki o altre figure “imparentate”. Certo, qualcuno potrebbe dire che tutti sappiamo di cosa è capace Ulisse, ma anche una canzone dei Beatles appare semplice e riproducibile, ma sempre dopo che viene scritta, quanti avrebbero davvero pensato di offrire questa visione del Re di Itaca, si suppone pochi, il fatto che sia perfettamente sensata è tutt’altra storia e non riguarda la “semplicità”. Per intenderci bene, se la presenza di un personaggio come Calliroe che apre la porta ad Ecate nella storia potrebbe essere indiscutibilmente uno degli elementi più appassionanti ed entusiasmanti del romanzo, quello di Ulisse è fuor di dubbio un componente che rappresenta bene la maestria e la sicurezza dell’uso della venatura mitologica nei romanzi di Andrea Gualchierotti. In sostanza, le mura de “I principi del Mare” sono indubbiamente quelle della “vecchia scuola”, non lo si nega affatto, ma la lezione in classe ha davvero moltissimo da trasmettere, ora, ancor più di prima.

Note

Nota generale: anche se questo articolo voleva essere una considerazione sulla relazione de “I Principi del Mare” con il resto dell’opera di Gualchierotti, non si è tenuto conto nè di “Sacramento di Sangue” né della raccolta di racconti “Byzantium”

 

Pubblicato da Pat Antonini

Ha studiato letterature e lingue straniere moderne. Collabora stabilmente con Hyperborea, Centro Studi Eurasia-Mediterraneo, Dragonsword e Punto di Fuga.