Le scoperte a catena sono un nostro grande classico. A pensarci bene, è avvenuta per merito di Lovecraft la scoperta di Lord Dunsany, di Tolkien quella di William Morris, di Howard quella di Clark Ashton Smith, anche se probabilmente Smith sarebbe saltato fuori lo stesso per merito di Lovecraft. Questa volta, è per merito dei datati film Horror italiani per la scoperta di racconti come Il Vij di Gogol, Il Monaco Nero di Cechov, o scrittori come Remizov o Sologub, oppure come in questo caso è Thomas De Quincey, scrittore inglese alquanto insolito sul quale ho sviluppato un’idea “apparentemente contraddittoria”. Non è affatto generoso ritenere De Quincey un capostipite effettivo del Decadentismo, della tradizione dell’uso della droga come medium tra uomo e artista, del sogno come mezzo nobile e imprescindibile per creare storie e interpretare la realtà. Questo scrittore relativamente noto, ma oggi non propriamente famosissimo o al centro del dibattito, ha ispirato direttamente Poe, Baudelaire, e altri, e indirettamente anche Lord Dunsany, Lovecraft, Borges oltre a molti settori del cinema Horror.
L’opera principale nel terzetto dell’ormai vetusto e malridotto volume è indubbiamente la più solida e ragionata, sebbene sia quella che si presenta come la più “acidomorfica”. Quest’ultima è innegabilmente la più famosa e apprezzata delle opere dello scrittore in oggetto anche se non è quella che interessa maggiormente alle nostre finalità letterarie. Anch’essa ha avuto una sua trasposizione cinematografica non proprio fedelissima, che esibisce nel cast la presenza di un grande attore come Vincent Price. Le Confessioni di un Mangiatore d’oppio (1821) è effettivamente il tripudio di tutti i miti romantici, dai più estremi ai più morbidi. Nel caso si abbisognasse di un qualcosa che riunisca tutto il manuale del romanticismo appreso nei testi di studio (e molto oltre) questa sarebbe un’opera potenzialmente da indicare. Non manca proprio niente; la condizione grama ed errabonda, l’esaltazione e compiacenza per i propri tormenti e patemi, i riferimenti mitologici sui quali De Quincey sembra muoversi davvero bene, quella preferenza sempre presente per un ecologismo anti-urbano, pastorale e utopico a sfavore dell’area metropolitana, e perfino quell’attitudine formativa più tedesca che britannica – “alla Goethe” per intenderci, effettivamente – che il romanticismo più avanzato probabilmente abbandonerà e che, anche se sul solco della “formazione” in questa opera del 1821/1822, va digradando più sulla via di un “Romanzo di Deformazione”. A dispetto della fondamentale e centrale componente “psicotropa”, il testo è a mio avviso piuttosto ragionato. La catena di riflessioni insistite, estreme e dettagliate, sempre di natura malinconica e romantica servono a costruire le premesse per un’apoteosi finale basata sull’affermazione dell’oppio e dell’estasi della droga come mezzo sublime per la felicità. Ed infatti sul finale stesso cambia anche lo stile di scrittura. L’esecuzione di questa storia autobiografica è effettivamente ineccepibile. Si riporta inoltre che, come riferisce il saggio di uno dei vecchi volumi 1, dall’attività di cura e traduzione svolta da Baudelaire è scaturita l’ispirazione per scrivere la famosa opera Paradisi Artificiali del 1860, il cui capitolo 3 corrisponde proprio ad un lungo commento redatto dal poeta francese nella sua pubblicazione riguardante De Quincey.
Procedendo, La Diligenza Inglese (1849) è davvero l’ultima cosa con cui si pensava di venire a contatto. Per farla breve, immaginate di scrivere un elogio nostalgico delle musicassette quando i DVD le soppiantarono: non è molto diverso dalla gran parte di questo saggio breve. Il testo parla a lungo del fascino delle carrozze postali, dell’adrenalina quando quest’ultime portavano notizie di guerra, e così varie altre speculazioni sino a che poi non viene operata una digressione – anche se registrata con un suo capitolo, il terzo per la precisione – su un incidente notturno causato dal colpo di sonno del cocchiere che, grazie all’intervento dello stesso autore, che racconta come prontamente prese le redini del carro, non ha per fortuna coinvolto una coppia di innamorati in uscita da un concerto. L’ultima parte di quello che sino a poco prima era una sorta di commento o saggio, cambia totalmente le carte in tavola, iniziando a descrivere il sogno della ragazza nell’attimo di terrore, e la carrozza postale che accede in una navata piena di mosaici, a ritmo irreale, verso un viaggio metafisico carico di simboli dei quali alcuni probabilmente irrintracciabili, ma altri più afferrabili anche dal lettore, come riferimenti biblici, mitologici, sulle vittime degli incidenti in strada, rimandi alle vicende napoleoniche e la sua sconfitta Waterloo, e per finire, ma non certo in ordine di importanza, ai mali del progresso tecnologico. Viene in qualche modo mantenuta anche quella premessa iniziale “tecnostalgica” causata dall’avvento delle ferrovie, ma La Diligenza Inglese è decisamente un corpo letterario assurdo, del tutto incommentabile. Degno di nota tuttavia è che perfino in questo scritto la componente onirica sembra davvero irrinunciabile per Thomas De Quincey.
Le vere “confessioni di un mangiatore d’oppio”, quelle effettive, anche se non di nome, intitolandosi Suspiria De Profundis, ma certamente di fatto, potrebbero essere nel testo più gotico e sovrannaturale dei tre, scritto nel 1845. Il romanzo più famoso di De Quincey, sebbene non sia sprovvisto delle sue inclinazioni più estreme, esibiva una costruzione bilanciata e una sorta di “raccolta estetica” eseguita come una “descrizione narrativa” di tutti i principi del romanticismo. Al contrario in Suspiria De Profundis regna invece una struttura sregolata, più simile ad una raccolta di appunti o ad un grappolo di segmenti descrittivi scollegati, talvolta ad un diario, o anche riflessioni e parti di effettiva narrativa, sino a che non incappa quasi nella poesia libera, o addirittura sfociando nella cronaca giornalistica o saggistica. In tutte queste inclinazioni troviamo innegabilmente la sua presa su Poe e Lovecraft. In tutte queste attitudini varie esplodono le caratteristiche dei due testi precedenti che vengono esasperate verso un romanticismo pre-decadentista, fortemente suggestivo, nichilista e visionario, oltre che di una recrudescenza pessimistica con rarissimi eguali. Le “irregolarità” nelle sezioni sono varie, basti pensare che i capitoli sono infatti staccati tra loro e non compongono affatto una vera e propria storia. Naturalmente parliamo di un testo piuttosto particolare e insolito, anche se, dopo aver letto La Diligenza Inglese arriviamo preparati alla cosa e non saremo sconvolti. Nel rimanere nel contesto degli scrittori che amiamo e che siamo abituati a trattare – in fondo c’è un motivo se si è scelto di parlare qui proprio di Thomas De Quincey – l’ipertrofia descrittiva di De Quincey, oltre a dimostrare la sua penna raffinata, il forbito richiamo alla mitologia greca, le sue ammirevoli capacità di scrittore caratterizzate da un ottima tecnica, ci porta davvero a concreti richiami a Poe, Lovecraft e Smith, differenziandosi in parte tuttavia da Lord Dunsany che, a mio modestissimo parere vince in eleganza e nella capacità di essere incisivo e sognante anche con una mole inferiore di ridondanze e costrutto lessicale, sebbene anch’esso non abbia una esigenza metrica stabile, utilizzando spesso uno stilema anticlimatico e irregolare. Le insoddisfazioni del vissuto di De Quincey come le situazioni familiari insoddisfacenti, un matrimonio che non basta a riempire il suo vuoto, lutti profondamente segnanti, si mischiano a squarci “cosmici” nel tempo e nello spazio come avviene in diversa ma simile misura anche ne Il Monaco Nero di Cechov o in Lovecraft. Le grandi capacità di De Quincey non sono in discussione, e non si contesta neanche che parte dei suoi contenuti siano autentici poichè viene riportato che Le Confessioni di un mangiatore d’oppio è stato fondamentale per risollevare una situazione economica che andava aggravandosi. Risulta tuttavia impossibile non pensare alla fine di queste tre letture ad un fatto. Le irregolarità dei formati che servono a simulare agli occhi dei lettori una scrittura sotto gli effetti dell’oppio perdono di autenticità quando si confrontano con l’elaborato della scrittura nuda e cruda che è fondamentalmente costruita su un esercizio stilistico, quindi estremamente lucida e ragionata. Inoltre, è parzialmente svilente pensare come la paura della morte sia alla base di tutto, poichè, per quanto errata e mortificante, non sarebbe biasimabile quella eventuale obiezione volta a considerare che alla fine di tutto; tutte le elucubrazioni e le riflessioni siano una risposta compensatoria ad una paura della morte di gran lunga superiore ad una persona normale, che reagisce trovando gioia nella famiglia, nell’arte, nella religione o nella natura. Questo abbassa lievemente quei toni “poetico-iniziatici” che percepivamo. Tuttavia, di contraltare, si potrebbe vedere Suspiria De Profundis come una giuntura agganciata al finale di Le Confessioni di un oppiomane, e questo certamente aumenta l’interesse di alcune visuali e possibili riflessioni.
D’accordo. So bene che voialtri state pensando ad una cosa precisa: il fatidico momento delle “Tre Madri”: Mater Lachrimarum, Mater Suspiriorum e Mater Tenebrarum, vale a dire il punto che ha ispirato Dario Argento. Il segmento non è in verità così lungo, ma non siatene delusi, poiché è altamente caratterizzante, nonchè basato anch’esso sull’escamotage del sogno che De Quincey usa per descrivere tre entità femminili di “Streghe”, per così dire, che in realtà hanno una loro complessità ritualistica, cosmica e religiosa, immerse sempre in una penombra fitta e tenebrosa, nonché totalmente evanescenti e impalpabili, eppure in grado di esprimere emozioni e segni della loro presenza terribile e inafferrabile. Risulta impossibile , vi assicuro, perfino capire se le Tre Madri siano davvero malvage, parrebbero infatti maggiormente essere presenze sinistramente suggestive, che penetrano e manipolano il destino di “uomini alla deriva”, uomini che capiscono quanto in realtà immaginazione e sogno siano reali e veritieri più della realtà stessa, e che si muovono tra mondo immaginario e quello reale poiché questi “eletti”; uomini maledetti, che comprendono la morte e il mondo onirico, sono irreversibilmente segnati da una condanna irrevocabile e anatemica. L’intervento delle “Tre madri”, oltre ad essere erinnico per castigo e tormento, è anche “norneico” per ineluttabilità e pervasività, con un bisbiglio, effettivamente, parimenti incontrastato a quello delle tre divinità narrate dai vichinghi. Ed in fondo, anche divinità singolari come Ecate e Morrigan erano trine e triformi, con una forte pervasività sui destini di chi lambiva la loro presenza. E’ opportuno probabilmente chiedersi quali siano state le tre sensibilità che per De Quincey erano identificanti per il “maledetto” o “l’illuminato”; e due non dobbiamo certo faticare a trovarle, essendo indubbiamente la paura della morte e l’escapismo onirico. Sebbene breve, il momento delle tre madri non è deludente. Il tentativo di De Quincey è prezioso da un punto di vista genericamente artistico e intellettuale, tuttavia troppo unico e a sé stante per giocare una partita totale e aperta in letteratura, ciò non toglie che sia probabilmente stato l’inizio di una deviazione di cui parleremo ancora in futuro, e che si avvicina a scrittori che più o meno abitualmente tutti noi pratichiamo.
Note
Argomenti simili: L’ Isola della Fata (Edgar Allan Poe)
Fonti Iconografiche: James Archer, John Watson Gordon, William-Adolphe Bouguereau, Johan Lund
1 Garzanti e Editori Riuniti