Scoprire gli Ashbury significa intraprendere un cammino sconosciuto, inaspettato e magico sulla strada dell’Hard Rock. Più che una strada, sarebbe più esatto dire un piccolo sentiero, che condurrà ad un bosco dove l’avanzata sarà poi incerta, ma il percorso è assolutamente suggestivo e composto da due album divisi tra loro da più d’un ventennio; Endless Skies (1983) e Something Funny Going On (2004), dischi praticamente introvabili.
La composizione degli Ashbury è fondata da due volti non particolarmente diversi tra loro nei connotati “facciali”. Il primo è quello dalle espressioni che somigliano ad una via di mezzo tra un Hard Rock fine anni ’70 e l’Heavy Metal dei primi anni ’80, che potrebbe imbarcarsi non del tutto propriamente – nonostante sia oltreoceano – nella corrente della New Wave British of Heavy Metal, mantenendo però intatte delle fisionomie elusivamente sabbattiane o alla Led Zeppelin. Nonostante la provenienza americana, di Tucson (Arizona) per la precisione, lo stile dei fratelli Davis ha una fortissima inclinazione britannica, non smentita dal secondo fronte del Giano, ovvero quello di un Rock acustico, che si avvicina ad un certo rock folk di autori raffinati come la cantante irlandese Anne Byrne o il londinese John Renbourn, ma con un leggero lato progressivo alla Jethro Tull e un tocco epico dei Rainbow. Entrambi i volti, si potrebbe notare, hanno certamente dei lineamenti britannici per una band americana, ma qualche piccola accigliatura più stelle e strisce a lungo andare si potrebbe vedere, forse nei Blue Oyster Cult o negli Allman Brothers Band. Non si deve tuttavia pensare che queste menzioni creino nella musica degli Ashbury un collage, poichè il loro pregio è proprio l’esatto opposto, ovvero il saper alchimizzare tali derivazioni verso una materia prima armoniosa, come effettivamente – senza voler scomodare paragoni insostenibili – avviene in band come Iron Maiden o Black Sabbath, dove le derivazioni sono talmente ben spese da risultare irrintracciabili. Tutto rimane compenetrato e questo è in effetti l’esatto opposto di ciò che avviene ora, dove i sapori nel piatto tendono irreparabilmente a separarsi in acceso contrasto; Growling/Voce femminile; Strofa estrema/ritornello melodico; strutture del power metal melodico con voci scream/growling; attitudine tecnica-progressive in contrasto al Death Metal… potremmo continuare ancora a lungo. Ciò non è necessariamente un male, esistono eccellenti album con queste formule, ma tali scelte sono tendenzialmente figlie del fatto che la composizione tende più all’esercizio dello stile e alla rappresentazione di stereotipi che all’autorialità, che esige la costruzione di una materia unica fondata più autenticamente da archetipi. Certamente questa attitudine non è estinta e nell’Heavy Metal rimane ancora fortunatamente presente, quindi rimanete pure tranquilli, non ci sarà nessuna perla finale all’insegna del “era meglio quando era peggio”.
Endless Skies si apre con The Warning e Take Your Love Away, due canzoni vivaci, il primo ritmico, con una chitarra solida e l’accento acustico a renderla cadenzata, il secondo più veloce e andante, dove i compiti principali sono invece delle corde acustiche mentre la chitarra elettrica aggiunge i suoi interventi leggeri e rock. Dopo il gradevole interludio di chitarra acustica intitolato Twilight si passa al brano probabilmente più cupo e sabbattiano del disco, e quindi alle tematiche tolkeniane dopo quelle sulla morte e sull’amore. La canzone in slow-tempo è decisamente incredibile, emozionante, e come le altre due che la precedono vanta un guitar solo di ammirevole fattura. C’è spazio poi per due momenti dall’impronta da ballad. Madman, che non manca di esprimere quelle summenzionate influenze cantautoriali puramente britanniche e folk, e la gemma Hard Fight, brano magnifico, con un’introduzione da ballad e una seconda parte più veloce, dove Randy Davis regala un altro assolo dei suoi. No Mourning, assolve una funzione di break, che dona vivacità dopo le due tracce melodiche appena trascorse. E’ un pezzo strumentale, leggero e progressive rock, centralmente chitarristico, con ottime parti della sei corde e solos dall’appeal tecnico. Potrebbe sicuramente essere una parentesi gradevole per chi ama certi momenti prog, meno atmosferici e più “metrici”, ma rimane piuttosto separata dalla forte emotività dell’album risultando probabilmente il momento meno significativo. La sua presenza tuttavia non disturba. Ciò che segue, Mistery Man, è una giuntura melodica simile a Madman e Hard Fight, con un inizio da ballad e una seconda parte andante, ma sempre basata sulla chitarra acustica e su un solo centrale di chitarra elettrica. Il suo segmento ci conduce all’ultima e più impegnativa canzone di chiusura, il brano più lungo del disco, più di sette minuti divisi tra la lunga introduzione acustica, una parte centrale hippie, onirica, sciamanica e psichedelica, che si distingue però da quella più drammatica ed epica sul finale. Un ottimo brano dove gli Ashbury hanno cercato di alzare le pretese dei brani scorrevoli, ma mai semplicistici, che hanno preceduto la “title-closer track”. Il risultato è assolutamente straordinario. L’album affronta – andando in ordine – tematiche come morte, amore, la Fantasy di Tolkien, contenuti sociali, esoterismo e occultismo. Inutile girarci intorno, Endless Skies è un album di livello enorme, degno di una grande band. Tutto ciò che propone la track-list è speso bene. Gli approcci blues sono utilizzati per rendere variegato e mai statico il riffing, i cori e le backing vocals di perfezione metronomica. Non c’è un impianto vocale debordante come nel Power Metal, ma i fratelli Davis sono due ottimi cantanti nel complesso. Infine viene perfino graffiato il “Rock Occulto” dei Pagan Altar (di cui si è parlato qui) o degli Witchfinder, già citati nel precedente articolo sugli incompiuti Wolfbane. Questo album ha una portata epocale.
Ventuno anni dopo Endless Skies, gli Ashbury pubblicano Something Funny Going On (2004) un album dove si intravedono parzialmente le sensibilità del precedente, tuttavia ci sono delle lievi, ma incisive differenze con il precedente disco del 1983. Il secondo studio album degli Ashbury – come si riporta in vari siti anglosassoni – è composto da materiale scritto nel corso di un lungo periodo che va dal 1984 in poi. Sarà di certo così, ad ogni modo, nei brani si avverte lo stesso l’attraversamento degli anni ’90. La forte attitudine britannica del precedente recede sensibilmente e di certo l’influenza di gruppi come gli Allman Brothers Band è più forte. In Endless Skies la tastiera appare essenzialmente in due canzoni, qui è persistente anche se quasi sempre solo come atmosfera di fondo. Quando si apre uno spiraglio di sole così deciso sui vecchi ombrosi boschi tappezzati di ciclamini, sulle impervie scogliere sempre colpite da onde furiose; sulla brughiera umida, è piuttosto facile finire dalla cupa Albione alle praterie più assolate ad un oceano di distanza, dove certamente irlandesi e inglesi non sono mancati, ma questi, notevolmente cambiati – e non meno influenzati dall’ambiente – suonavano il country anche se la strada partiva sempre dal Folk soprattutto celtico. Provate ad immaginare Way to Mandalay privata della sua parte più celtica, ancestrale e “nuvolosa” , diventerebbe molto facilmente una canzone country, ed è una sensazione simile se si paragona la composizione di Endless Skies con quella di “Something Funny“. Non fraintendete, tutto funziona a meraviglia in questo album del 2004, ma non c’è più la sensazione di trovarsi in un sentiero sconosciuto della storia del rock, dove è stata nascosta una gemma epocale, al contrario si viene qui a contatto con un buon disco che alterna fasi Rock & Blues e Hard Rock e che potrebbe perdersi facilmente in tutto il country rock degli anni ’90 o nelle varie declinazioni del Southern Rock, anche se ovviamente si sente che è pur sempre un disco degli Ashbury. Sicuramente The Cold Light of Day, e Always something More (le prime due canzoni dell’album) sono davvero gradevoli, soprattutto la seconda che è una delle migliori del disco. Ma già la strumentale Sonora Rain è un qualcosa di trovabile in molti album Rock & Blues. Getting over You e Evacuation Time, seppur ottime canzoni, potrebbero essere senza problemi su un album di Kenny Chesney. La strumentale acustica di circa cinque minuti, Chasing Shadows apre alla seconda parte dell’album, dove i brani, eccetto Without a Trace – che sfiora il Country Rock-pop – superano i 5 minuti e creano una circostanza piuttosto impantanata in un country rock elegante ma forse troppo esile. Non si arriva alla noia, i fratelli Davis sono dei songwriter troppo talentuosi per non portare l’ombrello sotto questa piovuta, ma possiamo dirlo, brani come Did It Feel Like Love o Sundown Turnround, pur essendo graziosi ed eleganti, potrebbero essere cantati perfettamente da Natalie Imbruglia, Shanya Twain o Jamie Walters, o se preferite rimanere con un po’ di “terra in bocca”, potrebbero essere riarrangiati da George Strait e non ci sarebbero anomalie, suonerebbero perfettamente. C’è sicuramente di peggio di questi bravi artisti, ma non sono certo i riferimenti che ci aspettavamo di trovare a ventuno anni di distanza da un capolavoro come Endless Skies. L’ultima canzone – se non contiamo il brevissimo outro strumentale – inizia con tastiere sognanti che rimandano ai suoni anni ’80, come introduzione ad un brano che si aggancia agli Ashbury più profondi e “epic rock” del passato, come loro stessi si sono definiti più volte. La title track svolge lo stesso ruolo della psichedelica e lunga Endless Skies nel disco precedente, degna del paragone per un buon impatto melodico di fondo, ma rimanendo molto più compassata rispetto all’altra.
Note e Riferimenti
Wolfbane – Elric di Melnibonè e non solo